Il saggio sostiene che
qualunque tiranno detiene il potere fintanto che i suoi sudditi glielo
concedono: dunque delegittimando qualsiasi forma di potere. La libertà
originaria sarebbe stata abbandonata dalla società, che una volta corrotta
dall'abitudine, avrebbe poi preferito la servitù del cortigiano alla libertà
dell'uomo libero, che rifiuta di essere sottomesso e di obbedire.
Ma ora vengo a un punto, che è a mio avviso la risorsa ed
il segreto del dominio, il sostegno ed il fondamento della tirannia.
Chi pensa che le alabarde, le guardie ed i posti di
sentinella salvaguardino i tiranni, a mio avviso si sbaglia di grosso; e se ne
servono, credo, più per l’aspetto formale e di spauracchio che perché ci
facciano affidamento.
Gli alabardieri impediscono di entrare nel palazzo ai
poveracci senza mezzi, non agli uomini ben armati e pronti all’azione.
È facile verificare che ci sono stati meno imperatori romani
che siano sfuggiti a qualche pericolo grazie al soccorso delle loro guardie, di
quanti siano stati uccisi dai loro stessi pretoriani.
Non sono le truppe di cavalleria, non sono i battaglioni di
fanteria, non sono le armi che difendono il tiranno.
Non lo si crederà immediatamente, ma certamente è vero: sono
sempre quattro o cinque che sostengono il tiranno, quattro o cinque che
mantengono l’intero paese in schiavitù.
È sempre successo che cinque o sei hanno avuto la fiducia
del tiranno, che si siano avvicinati da sé, oppure chiamati da lui, per essere
i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle
sue voluttà, e partecipi ai bottini delle sue scorrerie.
Questi sei orientano così bene il loro capo, che a causa
dell’associazione, egli deve essere disonesto, non solamente per le sue
malefatte, ma anche per le loro.
Questi sei ne hanno seicento che profittano sotto di loro, e
fanno con questi seicento quello che fanno col tiranno.
Questi seicento ne tengono seimila sotto di loro, che hanno
elevato nella gerarchia, ai quali fanno dare o il governo delle provincie, o la
gestione del denaro pubblico, affinché appoggino la loro avarizia e crudeltà e
che le mettano in atto al momento opportuno; e d’altro canto facendo tanto male
non possono resistere, né sfuggire alle leggi ed alla pena, senza la loro
protezione.
Da ciò derivano grandi conseguenze, e chi vorrà divertirsi a
sbrogliare la matassa, vedrà che, non seimila, ma centomila, milioni, si
tengono legati al tiranno con quella corda, servendosi di essa come Giove in
Omero, che si vanta, tirando la catena, di ricondurre verso sé tutti gli dei.
Da ciò deriva la crudeltà del Senato sotto Giulio, la
fondazione di nuovi Stati, la creazione di uffici; non certo, a conti fatti,
riforma della giustizia, ma sostegno della tirannia. Insomma che ci si arrivi
attraverso favori o sotto favori, guadagni e ritorni che si hanno sotto i
tiranni, si trovano alla fina quasi tante persone per cui la tirannia sembra
redditizia, quante quelle cui la libertà sarebbe gradita.
Proprio come i medici dicono che quando nel nostro corpo
c’è qualcosa di guasto, se in un’altra parte non c’è nulla che non va,
questa finisce per cedere alla parte infetta: allo stesso modo, dal momento che
un re si è dichiarato tiranno, tutti i malvagi, tutta la feccia del regno, non
parlo di quel gran numero di ladri e furfanti bollati, che in una repubblica
possono fare ben poco, nel bene e nel male, ma quelli che sono posseduti da una
ardente ambizione e da una notevole avidità, si ammassano attorno a lui e lo
sostengono per prendere parte al bottino, ed essere, sotto il gran tiranno,
tirannelli anch’ essi.
Così fanno i grandi ladri ed i famosi corsari: gli uni
scoprono il territorio, gli altri pedinano a cavallo i viaggiatori per
derubarli; gli uni tendono imboscate, gli altri sono in agguato; alcuni
massacrano, altri spogliano, e sebbene vi siano tra loro delle egemonie, e gli
uni siano solo servi e gli altri capi della banda, alla fin fine non ce ne è
uno che non partecipi se non al bottino, almeno alla sua ricerca.
Si dice bene che dei pirati della Sicilia non solo si
adunarono in numero tale che si dovette spedire contro di loro Pompeo il grande
ma attirarono persino dalla loro parte
diverse belle e popolose città, nei cui porti si mettevano al sicuro, al
ritorno dalle scorrerie, e in cambio davano loro qualche ricompensa per
l’occultamento del bottino.
Così il tiranno rende servi i sudditi gli uni per mezzo
degli altri, ed è salvaguardato da coloro dai quali dovrebbe guardarsi, se
valessero qualcosa; secondo il detto che per spaccare del legno, occorrono dei
cunei dello stesso legno.
Ecco i suoi difensori, le sue guardie, i suoi alabardieri.
Non che a loro stessi non capiti di subire qualche volta da
lui, ma questi esseri perduti e abbandonati da Dio e dagli uomini sono contenti
di sopportare il male per farne, non a colui che gliene fa, ma a chi lo
sopporta come loro, e non ne può più.
Dal “Discorso sulla servitù volontaria”
Fonte: visto su MiglioVerde del 23 marzo 2015
IL CORPO DEL POTERE: DISCORSO SULLA SERVITÙ VOLONTARIA
«No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno
il re» (1) così Ulisse, secondo il racconto di Omero, si rivolse all'assemblea
dei Greci. Se si fosse fermato alla frase «non è un bene il comando di molti»
non avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere ancora più
ragionevoli, bisognava aggiungere che il dominio di molti non può essere
conveniente dato che il potere di uno solo, appena questi assuma il titolo di
signore, è terribile e contro ragione, al contrario il nostro eroe conclude
dicendo: «uno sia il capo, uno il re».
E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di aver tenuto un
simile discorso che in quel momento gli servì per calmare la ribellione
dell'esercito adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza che alla
verità. Ma in tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere
soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono
poiché è sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio; e
quanto più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova. Ma non voglio ora
addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di
governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia. Se dovessi entrare
in merito a tale questione, prima di discutere a quale livello si debba
collocare la monarchia tra i diversi tipi di governo, porrei il problema se
essa si possa dir tale, dato che mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa
di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro
momento la discussione di questo problema che richiederebbe di essere trattato
a parte e si trascinerebbe dietro ogni sorta di disputa politica.
Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti
uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che
non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere
se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel
caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo. E' un fatto davvero
sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c'è più da dolersene che da
meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili,
messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza
maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di
uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta
appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di
loro in modo del tutto inumano e selvaggio. Noi uomini siamo così deboli che
sovente dobbiamo ubbidire alla forza; in questo caso è necessario prender
tempo, non potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una nazione è
costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città d'Atene
ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi della sua servitù ma compiangerla, o
meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma sopportare la disgrazia con rassegnazione
e prepararsi per un'occasione migliore nel futuro.
La natura umana è fatta in modo tale che i doveri
dell'amicizia assorbono buona parte della nostra vita. E' del tutto ragionevole
amare la virtù, avere stima delle buone azioni, essere riconoscenti del bene
ricevuto e a volte anche mettere un limite al nostro benessere per aumentare
l'onore e i vantaggi di coloro che amiamo e che meritano di esserlo. Orbene,
ammettiamo che gli abitanti di un paese riescano a trovare uno di quei grandi
personaggi che ha saputo dar loro prova di grande preveggenza su cui fare
affidamento, di grande coraggio a loro difesa, di cura premurosa da poterli
governare. Se ad un certo punto si trovano a loro agio nell'obbedirgli e gli
danno fiducia fino a riconoscergli una certa supremazia, non saprei proprio
dire se è agire con saggezza toglierlo da dove faceva bene per metterlo in una
posizione dove potrebbe fare male; in ogni caso ci risulta naturale volergli
bene senza temere di riceverne del male.
Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa? Come spiegarla?
Quale disgrazia, quale vizio, quale disgraziato vizio fa sì che dobbiamo vedere
un'infinità di uomini non solo ubbidire ma servire, non essere governati ma
tiranneggiati a tal punto che non possiedono più né beni, né figli, né genitori
e neppure la propria vita?
Vederli soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte
di un'armata o di un'orda di barbari contro cui si dovrebbe difendere la vita a
prezzo del proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di
un Sansone ma di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed
effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato la polvere delle
battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace di imporsi agli
uomini ma preoccupato di servire la più trascurabile donnicciola. Ebbene, è
forse debolezza tutto questo? Chiameremo vili e codardi tutti coloro che gli si
sono assoggettati? Che due, tre o quattro persone si lascino sopraffare da uno
è strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben dire che è
mancanza di coraggio. Ma se cento, se mille persone si lasciano opprimere da
uno solo chi oserà ancora parlare di viltà, di timore di scontrarsi con lui,
anziché affermare che si tratta di mancanza di volontà e di grande abiezione? E
se vediamo non cento o mille persone, ma cento villaggi, mille città, milioni
di uomini che non fanno nulla per attaccare e schiacciare uno solo che li
tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremo qualificare un
simile fatto? Si tratta ancora di viltà?
Ma in tutti i vizi ci sono dei limiti oltre i quali non si
può andare; due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma
se mille persone, che dico, mille città non si difendono da uno solo questa non
è viltà, non si può essere vigliacchi fino a questo punto, così come aver
coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo a scalare una
fortezza, attaccare un'armata, conquistare un regno! Che razza di vizio è
allora questo se non merita neppure il nome di viltà, se non si riesce a
qualificarlo con termini sufficientemente spregevoli, se la natura stessa lo
disapprova e il linguaggio rifiuta di nominarlo?
Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte e
dall'altra; si schierino per la battaglia e combattano tra loro, gli uni per la
propria libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente
toccherà la vittoria? Saranno più coraggiosi in battaglia quelli che sperano di
ottenere in premio il mantenimento della loro libertà o coloro che come ricompensa
delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui? I primi
hanno sempre davanti agli occhi la felicità del tempo passato e l'attesa di una
vita altrettanto lieta per l'avvenire; non si preoccupano delle sofferenze che
durano il tempo di una battaglia ma piuttosto pensano a tutte quelle che
dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti i discendenti. Gli
altri invece non hanno nulla che possa dar loro slancio se non una punta di
cupidigia che subito svanisce di fronte al pericolo; in ogni caso il loro
coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena inizia
ad uscire da una ferita. Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di
Leonida, di Temistocle, avvenute duemila anni fa ma ancor oggi così vive nel
ricordo dei libri e degli uomini come se fossero successe l'altro giorno,
combattute in Grecia per il bene dei greci ma anche come esempi per il mondo
intero. Ebbene domandiamoci: da dove venne a così pochi uomini, come a quel
tempo i greci, non dico la forza ma il coraggio di respingere flotte talmente
potenti e numerose da coprire il mare, e di sconfiggere così tante nazioni i
cui eserciti avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci
messi assieme? A mio avviso solo dal fatto che in quelle gloriose giornate non
ci fu semplicemente una battaglia di greci contro persiani, bensì avvenne la
vittoria della libertà contro la tirannia, della liberazione contro
l'oppressione.
E' una cosa davvero straordinaria osservare il coraggio che
la libertà mette in animo a coloro che la difendono; ma quel che avviene in
tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, e cioè che uno solo
opprime cento, mille persone e le priva della loro libertà, chi potrebbe mai
crederlo se fosse semplicemente una notizia che ci giunge alle orecchie e non
capitasse invece davanti ai nostri occhi? E se questo accadesse in paesi
lontani e qualcuno venisse a raccontarcelo, chi di noi non penserebbe che si
tratta di una pura invenzione? Va aggiunto inoltre che non c'è bisogno di
combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo,
basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli
qualcosa, ma di non attribuirgli niente; non c'è bisogno che il paese si sforzi
di fare qualcosa per il proprio bene, è sufficiente che non faccia nulla a
proprio danno. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno
incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da
ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo
scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il
collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura. Se gli
costasse qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo; anche
se riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare
uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore. Tuttavia non voglio esigere da
lui un tale coraggio; gli concedo pure di preferire una vita a suo modo sicura
anche se miserabile ad una incerta speranza in una condizione migliore. Ma se
per avere la libertà è sufficiente desiderarla con un semplice atto di volontà
si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara, potendola
ottenere con un desiderio? Può esistere un popolo che non se la senta di
riavere un bene che si dovrebbe riscattare a prezzo del proprio sangue, un bene
la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la morte, almeno per
chi ha un minimo di dignità? Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa
sempre più grande e più trova legna più ne brucia, ma si consuma da solo, anche
senza gettarvi sopra dell'acqua, semplicemente non alimentandolo, così i
tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più ottengono mano
libera, più li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere
tutto; ma se non si cede al loro volere, se non si presta loro obbedienza
allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire, rimangono nudi e impotenti,
ridotti a un niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa
vitale dalle radici subito rinsecchisce e muore.
Gli uomini coraggiosi per conquistare il bene che desiderano
non temono di affrontare il pericolo; la gente intraprendente non rifiuta la
fatica. Invece gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare
il male, né ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro
animo toglie loro l'energia per arrivare al bene; mantengono solo quel
desiderio che è insito nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi
e agli ignoranti, ai coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino
ad avere il desiderio di tutte quelle cose che li potrebbero rendere felici. In
una sola cosa, non so come mai, sembra che la natura venga meno così che gli
uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un bene così
grande e dolce che una volta perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti
i beni che solitamente l'accompagnano, corrotti dalla servitù, non hanno più né
gusto né sapore. E' così che gli uomini tutto desiderano eccetto la libertà
forse perché l'otterrebbero semplicemente desiderandola; è come se si
rifiutassero di fare questa conquista perché troppo facile.
Povera gente insensata, popoli ostinati nel male e ciechi
nei confronti del vostro bene! Vi lasciate portar via sotto gli occhi tutti i
vostri migliori guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino
nelle vostre case spogliandole dei vecchi mobili paterni. Vivete in condizione
da non poter più vantarvi di tenere una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe
addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei vostri
beni, delle vostre famiglie, della vostra stessa vita. E tutti questi danni,
queste sventure, questa rovina vi vengono non da molti nemici ma da uno solo,
da colui che voi stessi avete reso tanto potente; è per suo amore che andate
così coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad
affrontare la morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi,
due mani, un corpo e niente di più di quanto possiede l'ultimo abitante di
tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli lasciate
nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi. Da dove ha potuto prendere
tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante
mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali
calpesta le vostre città non sono forse i vostri?
Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi
prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d'accordo
con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici del brigante che vi
deruba, dell'assassino che vi uccide, se insomma non foste traditori di voi
stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il raccolto; riempite di
mobili e di vari oggetti le vostre case per lasciarveli derubare; allevate le
vostre figlie per soddisfare le sue voglie e i vostri figli perché il meglio
che loro possa capitare è di essere trascinati in guerra, condotti al macello,
trasformati in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; vi
ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie della vita e darsi ai piaceri
più turpi; vi indebolite per renderlo più forte e più duro nel tenervi corta la
briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse non riuscirebbero
ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, potreste liberarvi se
provaste, non dico a scuotervele di dosso, ma semplicemente a desiderare di
farlo. Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio
che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo
sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi
come un colosso a cui sia stato tolto il basamento.
Certo, i medici dicono che è inutile tentare di guarire le
piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a voler dare consigli al
popolo che da molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che
l'affligge e proprio perché non lo sente più dimostra ormai che la sua malattia
è mortale. Cerchiamo allora di scoprire per tentativi come questa ostinata
volontà di servire ha potuto radicarsi a tal punto che lo stesso amore per la
libertà non sembra più essere tanto naturale.
Prima di tutto credo sia fuori di dubbio che se vivessimo
con quei diritti che la natura ci ha dato e secondo quegli insegnamenti che
essa ci ha impartito saremmo senz'altro obbedienti verso i genitori, soggetti
alla ragione e servi di nessuno. Si tratta di un'obbedienza che ciascuno, senza
altra spinta che non sia quella della natura, rende a suo padre e sua madre; di
questo tutti gli uomini possono essere testimoni di fronte a se stessi. Quanto
invece al problema se la ragione sia innata o no (questione dibattuta a fondo nelle
accademie e affrontata da tutte le scuole filosofiche) penso di non sbagliarmi
dicendo che c'è nella nostra anima un seme naturale di ragione il quale, una
volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini, fiorisce in virtù,
mentre a volte non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo,
muore soffocato. Ma certamente, se c'è una cosa chiara ed evidente così che
nessuno può permettersi di non vedere è che la natura stabilita da Dio a
governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo
stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l'un l'altro come compagni o
piuttosto come fratelli. E se nel distribuire i doni sia del corpo che dello
spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia non per questo ha
voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e non
ha certo creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i
briganti nella foresta che danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna
credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto
porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare,
avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così
dunque questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci
in certo modo in un'unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto
così che ognuno potesse riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio.
Se dunque a tutti noi ha fatto il grande dono della parola per comunicare,
diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle
nostre idee ad una comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di
stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di
convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato
chiaramente di averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola,
allora non c'è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti
compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti
quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di
servo.
Ma forse non vale la pena discutere se la libertà sia
naturale, dato che è impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un
grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è
razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio
siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della
volontà di difenderla. Ora se per caso qualcuno nutrisse ancora dei dubbi su
questo e si fosse talmente depravato da non riconoscere più neppure i beni
della propria natura umana e gli affetti che gli sono originari, è necessario
rendergli l'onore che si merita e mettergli in cattedra per così dire le bestie
prive di ragione che gli possano insegnare quale sia la sua natura e la sua
condizione.
Sì le bestie stesse, per Dio, a meno che gli uomini vogliano
fare i sordi, continuamente gridano: viva la libertà! Infatti la maggior parte
degli animali muore appena catturata. Come il pesce muore appena lo si toglie
dall'acqua così tutti gli animali chiudono gli occhi alla luce del mondo
piuttosto che continuare a vivere dopo aver perso la loro naturale condizione
di libertà. E se gli animali avessero tra loro diversi gradi d'importanza penso
che l'esser liberi costituirebbe la loro massima nobiltà. Altri animali, dal
più grande fino al più piccolo, quando li si vuol prendere oppongono una tale
resistenza con le unghie, le corna, il becco o i piedi, che dimostrano in modo evidente
quanto sia loro caro ciò che stanno per perdere. Poi, una volta catturati,
danno chiari segni di malessere e si può benissimo notare che dal momento della
cattura il loro non è un vivere ma un languire, e stanno in vita più per
lamentarsi della libertà perduta che per rassegnazione alla prigionia. E quando
l'elefante, dopo essersi difeso fino all'estremo delle forze, non avendo più
via di scampo ed essendo oramai sul punto di essere preso, si avventa con le
mascelle contro gli alberi e si spezza le zanne, non dimostra forse il suo
grande desiderio di restare libero com'è per natura, cercando di venire a patti
con i cacciatori e di lasciar loro i suoi denti pur di riuscire ad andarsene e
in cambio dell'avorio riacquistare la libertà? E così il cavallo; appena nato
lo addestriamo a servire, ma nonostante tutte le nostre attenzioni e carezze,
quando lo vogliamo domare dobbiamo ricorrere ai colpi di sperone per fargli
mordere il freno, quasi volesse far vedere alla natura che se deve servire non
lo fa di suo istinto ma per costrizione altrui. Che dire ancora?
«Il bue stesso sotto il giogo si lamenta e geme l'uccellin
rinchiuso in gabbia»
come ho scritto una volta quando per passatempo mi divertivo
a comporre poesie; e scrivendo a te, Longa (2), non dubito affatto che mi
riterrai un vanitoso se mi permetto di inserire la citazione delle mie rime,
che non leggerei mai se tu non riuscissi a darmi da intendere che ti piace
ascoltarle. Così dunque se ogni essere che ha sentimento della propria
esistenza vive l'infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli
animali, che pur sono fatti per servire l'uomo, non riescono ad abituarsi senza
manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto
snaturare a tal punto l'uomo, l'unico ad essere nato propriamente per vivere
libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di
riacquistarlo?
Vi sono tre tipi di tiranni: alcuni ottengono il potere in
base alla scelta del popolo; altri con la forza delle armi; gli ultimi infine
per successione dinastica. Coloro che l'hanno avuto per diritto di guerra si
comportano nel modo che tutti ben conoscono, trovandosi, come si usa dire, in
terra di conquista. Chi invece nasce re non è certo migliore, anzi essendo nato
e cresciuto in seno alla tirannia la natura di despota l'ha succhiata con il
latte: considera infatti i popoli che gli sono sottomessi alla stregua di servi
avuti in eredità e, secondo l'inclinazione che si ritrova, tratta il regno da
avaro o da scialacquatore come fosse cosa sua propria. Infine per quanto
riguarda colui che ha ricevuto il potere dal popolo, mi sembra che dovrebbe
essere più sopportabile e credo lo sarebbe se non fosse per il fatto che una
volta vistosi innalzato sopra tutti gli altri, gonfiato da un sentimento che
non saprei definire ma che tutti chiamano senso di grandezza, decide di non
scenderne più. Di solito poi costui fa conto di lasciare ai figli il potere che
il popolo gli ha affidato; e dal momento che essi si mettono in testa questa idea
è uno spettacolo tremendo osservare come sanno superare in ogni tipo di vizi e
perfino in crudeltà gli altri tiranni, non trovando altro metodo per rafforzare
la nuova tirannia se non quello di accrescere la schiavitù e di sradicare la
libertà dall'animo dei loro sudditi a tal punto che, per quanto l'abbiano ben
presente nella memoria, riescono a fargliela perdere.
Così, a dir la verità, vedo che tra i vari tipi di tirannide
vi è qualche differenza ma non noto che vi sia la possibilità di una scelta,
poiché pur essendo diverse le vie per arrivare al potere il modo di regnare è
sempre più o meno lo stesso. Coloro che sono eletti dal popolo lo trattano come
un toro da domare; chi ha conquistato il regno pensa di avere su di lui il
diritto di preda; chi infine lo ha ereditato considera i sudditi come suoi
schiavi naturali.
A questo proposito però vorrei chiedere: ammettiamo per caso
che oggi nasca un tipo di gente del tutto nuovo, non abituata alla servitù né
allettata dalla libertà, che non sappia assolutamente nulla dell'una e
dell'altra cosa se non a malapena i nomi; se a costoro venisse presentata
l'alternativa tra l'esser servi o il vivere liberi secondo quelle leggi che
stabiliranno fra loro di comune accordo, che cosa sceglierebbero? Non c'è dubbio
che avrebbero più caro ubbidire soltanto alla ragione piuttosto che servire ad
un uomo, a meno che siano come quei d'Israele che senza alcuna costrizione o
necessità si crearono un tiranno (3). E devo confessare che non riesco mai a
leggere la storia di questo popolo senza provare una stizza tale da diventare
quasi inumano nei suoi confronti, arrivando al punto di rallegrarmi per tutte
le disgrazie che gli sono poi capitate. Certamente perché tutti gli uomini (fin
quando almeno hanno qualcosa di umano) si lascino assoggettare è necessario una
delle due: esservi costretti o ingannati.
Costretti dalle armi straniere, come Sparta e Atene
dall'esercito di Alessandro, o dalle fazioni in gioco, come il governo di Atene
prima di cadere nelle mani di Pisistrato. Per inganno gli uomini perdono
sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, più spesso
però accade che siano loro stessi ad ingannarsi. Così gli abitanti di Siracusa,
la principale città della Sicilia, assaliti da ogni parte e preoccupati solo di
salvarsi dal pericolo imminente, chiamarono Dionigi Primo e gli diedero
l'incarico di guidare l'esercito contro il nemico, senza badare al fatto di
averlo reso così potente che una volta tornato vittorioso questo furfante, come
se avesse sconfitto non dei nemici ma i suoi stessi concittadini, da capitano
si fece promuovere re e da re tiranno. E nessuno crederebbe come un popolo,
dopo essere stato sottomesso, sprofondi subito in una tale dimenticanza della
libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per riacquistarla, ma serve
così di buon grado il tiranno che a vederlo si direbbe non già che ha perso la
sua libertà ma che si è guadagnato la sua servitù. E' pur vero che all'inizio
l'uomo serve a malincuore, costretto da forza maggiore; ma quelli che vengono
dopo, non avendo mai visto la libertà e non sapendo neppure cosa sia, servono
senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto
per forza. E così gli uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati
nella servitù, senza sollevare lo sguardo un poco in avanti si accontentano di
vivere come sono nati, e non riuscendo a immaginare altri beni e altri diritti
da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in
cui sono nati. E tuttavia non c'è erede tanto spensierato e incurante che
qualche volta non dia un'occhiata ai registri di famiglia per vedere se gode di
tutti i diritti di successione o se invece non sia avvenuta qualche
macchinazione contro di lui o contro i suoi predecessori. Ma è anche vero che
la consuetudine, la quale ha un grande influsso su tutte le nostre azioni,
esercita il suo potere soprattutto nell'insegnarci a servire, e come Mitridate
che si abituò a bere il veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare
normalmente il veleno della servitù senza sentirne l'amaro. Certamente nel
tendere verso il bene o verso il male gioca in gran parte la natura che ci
spinge dove vuole; ma bisogna ammettere che essa ha meno potere su di noi di
quanto non l'abbia la consuetudine, perché la nostra indole, per quanto possa
essere buona, va persa se non si cerca di mantenerla.
L'educazione insomma lascia sempre la sua impronta malgrado
le tendenze naturali. I semi del bene che la natura mette dentro di noi sono
così piccoli e fragili che non possono resistere al benché minimo impatto con
un'educazione di segno contrario. Inoltre non è semplice conservarli poiché con
molta facilità si chiudono in sé, degenerano e finiscono in niente, né più né
meno degli alberi da frutta che hanno ognuno la loro particolarità e la
mantengono se li si lascia crescere in modo naturale, ma perdono ben presto le
loro caratteristiche e producono frutti estranei se si operano degli innesti.
Perfino ogni erba ha le sue proprietà naturali; tuttavia il gelo, il tempo, il
terreno e la mano del giardiniere influiscono molto sulla loro qualità, sia nel
peggiorarla che nel migliorarla: una pianta vista in un dato luogo, in un altro
si riconosce a fatica.
Chi vedesse i veneziani, questo piccolo popolo, vivere una
vita così libera che il più meschino tra loro non si sognerebbe di diventare
re, nati e allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare
ognuno miglior prova dell'altro nel conservare gelosamente la libertà; educati
fin dalla culla in questo senso così che non cederebbero neppure un'oncia della
loro libertà in cambio di tutte le altre felicità della terra; ebbene dicevo,
chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo
gran signore trovandovi un popolo nato per servire e votato per tutta la vita a
mantenere il suo potere, riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono
della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di
uomini per entrare in un parco di animali?
Si dice che Licurgo, il legislatore di Sparta, avesse
allevato due cani, tutti e due fratelli e allattati dalla stessa cagna,
tenendone uno a ingrassare in cucina e abituando l'altro a correre nei campi al
suono della tromba e del corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini
sono come li fa l'educazione, portò i cani in piazza e mise loro vicino una
minestra e una lepre: il primo si buttò sulla scodella, l'altro corse dietro
alla lepre. Eppure - concluse Licurgo - sono fratelli! Così questo grand'uomo
con le sue leggi seppe dare una tale educazione agli spartani che ciascuno di
loro avrebbe avuto più caro morire mille volte piuttosto che riconoscere altro
signore all'infuori della legge e della ragione.
A questo proposito vorrei ricordare la conversazione che si
tenne tra uno dei più alti rappresentanti di Serse, il grande re dei persiani,
e due spartani. Durante i preparativi per la conquista della Grecia, Serse
mandò i suoi ambasciatori nelle città di quella regione a chiedere l'acqua e la
terra (formula con la quale i persiani erano soliti intimare alle città di
sottomettersi). Ma ad Atene e Sparta non ne inviò ricordandosi che quando Dario
suo padre li aveva voluti mandare, furono buttati dagli ateniesi in un fosso e
dagli spartani in un pozzo e si sentirono rivolgere: «Prendete pure da qui
tutta l'acqua e la terra che volete e portatela al vostro re». A tal punto
giungeva la loro insofferenza anche per la più piccola parola che suonasse
offesa alla loro libertà. Tuttavia per aver agito in questo modo gli spartani
si accorsero di aver provocato l'ira degli dei, soprattutto di Taltibio, dio
dei messaggeri. Allora per rabbonire Serse pensarono di mandargli due cittadini
perché li trattasse a suo arbitrio e potesse così vendicarsi degli ambasciatori
che erano stati uccisi a suo padre. Due spartani, l'uno chiamato Sperto l'altro
Buli, si offrirono volentieri per andare a pagare di persona questo debito.
Giunsero così al palazzo di un persiano chiamato Gidarno, luogotenente del re
per tutte le città della costa asiatica. Costui fece loro grandi onori e
conversando su vari argomenti con i suoi ospiti ad un certo punto chiese per
quale motivo rifiutassero così decisamente l'amicizia del suo grande re.
E aggiunse: «Guardate me per esempio e noterete allora come
il re sa ricompensare coloro che se ne rendono degni; credetemi, se vi metteste
al suo servizio si comporterebbe allo stesso modo anche verso di voi. Son
sicuro che se vi conoscesse ognuno di voi diventerebbe signore di una città
della Grecia». «In queste cose Gidarno non puoi darci alcun consiglio -
risposero gli spartani - perché tu hai gustato il bene che ci prometti ma non
conosci quello che godiamo noi. Tu hai provato i favori del re, ma non sai che
sapore abbia la libertà e quanto essa sia dolce. Se l'avessi anche solo
sfiorata tu stesso ci consiglieresti di difenderla non soltanto con la lancia e
lo scudo ma con le unghie e i denti». Solo gli spartani erano nel giusto; ma è
certo che gli uni e gli altri parlavano come erano stati educati. Era infatti
impossibile al funzionario persiano rimpiangere la libertà non avendola mai
provata, così come gli spartani non potevano sottomettersi al giogo avendola
gustata appieno.
Catone l'Uticense, quando era ancora fanciullo e sotto la
guida del precettore, si trovava spesso a casa di Silla il dittatore alla quale
aveva libero ingresso sia per il rango della famiglia cui apparteneva sia per
la stretta parentela. Ci andava sempre in compagnia del suo precettore com'era
abitudine dei figli di nobile famiglia e frequentando questa casa si accorse
che in presenza di Silla oppure su suo ordine c'era chi veniva messo in
prigione, un altro che veniva condannato, uno che veniva esiliato, un altro
strangolato, e vi erano poi coloro che facevano richiesta di confisca ai danni
di un cittadino o addirittura ne chiedevano la testa. In poche parole sembrava
di essere non a casa di un rappresentante della città ma a palazzo di un
tiranno del popolo, non a un tribunale di giustizia ma in una spelonca di
tiranni.
Allora questo giovanetto rivolgendosi al precettore disse:
«Perché non mi date un pugnale che possa nascondere sotto il vestito? Io entro
spesso in camera di Silla prima che si alzi e ho il braccio abbastanza forte
per liberarne la città». Ecco un discorso davvero da Catone, l'inizio di una
vita in nulla inferiore alla dignità della sua morte.
Lasciamo pur perdere il nome e l'origine di questo
personaggio. Si presenti l'episodio per quello che è; il fatto parla da solo e
senza pensarci su molto si potrà arrivare a dire che quel ragazzo era romano,
nato nel cuore della vera Roma quando essa era libera. Perché dico questo? Non
certo perché ritenga che il luogo o il clima possano giovare a qualcosa, dato
che in ogni paese e sotto qualsiasi latitudine è amara la servitù e dolce la
libertà, ma perché sono del parere che si debba aver pietà di coloro che fin
dalla nascita si sono trovati il giogo sul collo, che li si scusi o comunque li
si perdoni se non avendo mai visto neppure l'ombra della libertà e non avendone
mai avuto sentore non si accorgono di quel grave danno che è l'essere servi. Se
ci fossero veramente dei paesi (come racconta Omero a proposito dei Cimmeri)
dove il sole si mostra in modo tutto diverso da come appare a noi,
illuminandoli per sei mesi di seguito e per gli altri sei lasciandoli
completamente al buio senza farsi rivedere, ci si potrebbe meravigliare se
coloro che nascono durante questa lunga notte si abituassero a vivere nelle
tenebre dove sono nati senza desiderare la luce del giorno, non avendone mai
sentito parlare e non avendola mai vista? Non si può rimpiangere quello che non
si ha mai avuto e il rammarico vien solo dopo il piacere; e sempre la
conoscenza del male fa nascere il ricordo della felicità del tempo passato. Per
natura l'uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è fatta in modo
tale da prendere la piega che gli dà l'educazione.
Diciamo dunque che tutto ciò cui l'uomo si abitua fin da
bambino gli diventa naturale; ma in lui di propriamente naturale e originario
vi è solo quello a cui lo sollecita la natura semplice e schietta. Così la
prima ragione della servitù volontaria risulta essere la consuetudine.
Proprio come quei destrieri cortaldi (4) che all'inizio
mordono il freno ma poi ci piglian gusto, e mentre nei primi giorni si mostrano
recalcitranti appena si mette loro sopra la sella, in seguito imparano a
sfilare nelle loro ricche bardature e se ne vanno tutti fieri e orgogliosi dei
loro finimenti.
A volte si sente affermare tranquillamente di essere stati
sempre sottomessi e che già i padri hanno vissuto in queste condizioni; costoro
pensano di essere obbligati a sopportare questo danno, si persuadono l'un
l'altro con degli esempi, e sono loro stessi col trascorrere del tempo a
legittimare il potere di coloro che li tiranneggiano. Ma il passare degli anni,
a ben vedere, non dà certo diritto a comportarsi male, anzi aggrava
l'ingiustizia. E' ben vero che si trova sempre qualcuno più fiero degli altri
che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce
ad abituarsi alla servitù. Costui, come Ulisse che per mare e per terra
cercava continuamente di rivedere il fumo della sua casa, non riesce a
dimenticare i suoi naturali diritti, a non pensare a coloro che l'hanno
preceduto e alla condizione in cui vivevano. Sono proprio persone di questo
tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano
come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma
hanno l'occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si
rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere
dell'avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l'hanno saputo
anche educare con lo studio e la scienza; e quand'anche la libertà fosse andata
completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola
nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà
di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi.
Il Gran Turco si è ben accorto che sono i libri e
l'insegnamento molto più di ogni altra cosa a mettere nel
cuore degli uomini il sentimento di sé, il riconoscimento
della propria dignità e l'odio per il tiranno: per
questo sento dire che nelle sue terre non vi sono molte
persone di scienza e neppure le richiede. Comunque lo zelo di tutti coloro che
malgrado i tempi sono rimasti attaccati alla libertà, per quanto numerosi essi
siano, rimane senza effetto perché non si conoscono tra loro. Sotto la tirannia
ogni libertà di fare, di parlare, e quasi di pensare viene loro tolta: così
rimangono tutti soli e isolati nei loro desideri. Va dunque riconosciuto che
Momo, il dio burlone, non scherzava poi tanto quando trovava da ridire
sull'uomo che aveva creato Vulcano, perché non gli era stata messa una piccola finestra
sul cuore così da poterne leggere i pensieri.
Si dice che quando Bruto e Cassio si misero all'impresa di
liberare Roma o per meglio dire il mondo intero, non vollero che Cicerone,
questo grande uomo pieno di zelo per il bene comune come mai ve ne fu, si
schierasse dalla loro parte, perché ritenevano che avesse il cuore troppo
debole per partecipare ad un evento così decisivo; credevano nella sua buona
volontà ma non facevano affidamento sul suo coraggio. E tuttavia chi vorrà
tornare a riflettere sui fatti del passato e consultare antichi annali,
passando in rassegna tutti coloro che vedendo il proprio paese alla deriva e in
cattive mani si misero all'opera per liberarlo con intenzione sincera e
dedizione totale, ne troverà ben pochi che non abbiano raggiunto lo scopo,
perché la libertà si fa largo per conto suo. Armodio, Aristogitone, Trasibulo,
Bruto il vecchio, Valerio e Diones, tutti quanti concepirono questo giusto
progetto e lo realizzarono felicemente; in questi casi alla buona volontà non manca
quasi mai la fortuna. Anche Bruto il giovane e Cassio riuscirono ad eliminare
la causa della schiavitù; fu invece nel tentativo di riportare la libertà a
Roma che essi morirono, non miseramente (sarebbe veramente una infamia cercare
nella vita o nella morte di questi eroi indegnità e miserie), ma certo con
grave danno, sventura perenne e definitiva rovina della repubblica che, mi
sembra, fu sotterrata con loro. Le imprese successive compiute contro gli
imperatori romani non furono altro che congiure di gente ambiziosa, la quale
non deve certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro,
essendo a tutti evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona,
non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo
a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo, e sono ben
contento che oggi possano essere portati a dimostrazione del fatto che non
bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie.
Ma per tornare al nostro argomento che avevo quasi perso di
vista, la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché
nascono servi e sono allevati come tali. Da qui deriva quest'altro fatto: molto
facilmente sotto la tirannia ci si rammollisce e si diventa effeminati. Fu
Ippocrate, il padre della medicina, ad accorgersi di questo e a scriverlo in
uno dei suoi libri dal titolo "Le malattie" (6), e di questa sua
intuizione dobbiamo essergli assolutamente grati. Questo personaggio aveva
senza dubbio un cuore generoso e lo dimostrò in un'occasione. Poiché il grande
sovrano (7)lo voleva presso di sé e lo sollecitava continuamente con varie
profferte e con grandi donativi, Ippocrate un giorno gli rispose in tutta
franchezza che avrebbe avuto dei problemi di coscienza nel mettersi a curare
dei barbari che volevano uccidere il suo popolo e nel rendersi condiscendente
al loro re che si stava preparando ad assoggettare la Grecia. La lettera che
Ippocrate inviò al re contenente queste affermazioni si può leggere ancora oggi
nelle sue opere e rimarrà per sempre una testimonianza del suo coraggio e del
suo nobile carattere.
E' ormai certo che con la libertà si perde allo stesso tempo
anche il coraggio. Gli uomini sottomessi vanno in battaglia senza alcuna
baldanza e ardimento, affrontano il pericolo l'uno appiccicato all'altro,
intorpiditi, tanto per adempiere ad un obbligo e non si sentono bollire il
sangue nelle vene per l'ardore della libertà che sola fa disprezzare il
pericolo e nascere il desiderio di acquistare l'onore della gloria fra tutti i
compagni con un bel morire. Al contrario fra gente libera si fa a gara per
vedere chi è il migliore, combattendo per sé e per il bene comune, aspettando
tutti di avere la propria parte di bene in caso di vittoria o la parte di male
nella sconfitta; invece la gente asservita non ha più questo coraggio da
guerrieri, anzi non riesce neppure ad essere vivace nelle altre cose, poiché
possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande.
I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi
prendere una simile piega li spingono in questa direzione così da renderli
ancor più fiacchi e indolenti. Senofonte, storico insigne tra i più grandi
della Grecia, scrisse un libretto (8) dove si può trovare il dialogo di Simonide
con Ierone, re di Siracusa, sulle miserie del tiranno. E' un libro pieno di
gravi ma giusti rimproveri, esposti a mio parere nel tono più adatto possibile.
Avesse voluto Iddio che tutti i tiranni, quanti vi sono stati sulla terra, se
lo fossero tenuto davanti agli occhi così da farsene specchio! Sono sicuro che
in questo modo avrebbero potuto riconoscere sulla propria faccia i segni del
vizio e provarne grande vergogna. In questo trattato viene descritta la vita
penosa che trascorrono i tiranni, i quali facendo del male a tutti sono
costretti a temere continuamente di riceverlo da ciascuno. Fra tante cose vien
fatto anche notare che i re malvagi si servono di stranieri presi come
mercenari per fare le guerre, non fidandosi di mettere le armi in mano alla
loro gente cui hanno fatto ogni specie di torto. (Ci sono stati a dire il vero
dei buoni sovrani che hanno assoldato stranieri, alcuni tra gli stessi re di
Francia, anche se più in passato che non oggi; ma con l'unica intenzione di
mantenere in vita il proprio popolo, non preoccupandosi di spendere denaro pur
di risparmiare uomini. Come diceva, se ben mi ricordo, Scipione l'Africano:
preferirei salvare la vita ad un cittadino piuttosto che uccidere cento
nemici.) Ma è certo che i tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in
mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto
di sé alcun uomo di coraggio. Dunque a buon diritto si potrà dir loro quel che
Trasone in una commedia di Terenzio si vanta di aver rinfacciato al domatore
degli elefanti:
«Tu ti reputi molto abile, avendo a che fare con delle
bestie» (9).
Questa astuzia dei tiranni nell'abbrutire i propri sudditi
più che in ogni altro caso si è manifestata in modo evidente nel trattamento
che Ciro riservò agli abitanti della Lidia, dopo essersi impadronito di Sardi,
capitale di quella regione, e dopo aver fatto schiavo il ricchissimo re Creso
che si era rimesso nelle sue mani. Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di
Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un attimo ai suoi
voleri; ma non volendo distruggere una così bella città e neppure essere
obbligato a tenervi di guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione,
ricorse a questo espediente: vi fece collocare bordelli, taverne e giochi pubblici
e bandì un'ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso come
volevano. E questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da
allora non ci fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli
abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di
gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi,
trassero dal loro nome il termine "ludi". Non tutti i tiranni hanno
mostrato così apertamente di voler effeminare i loro sudditi; ma di fatto
quanto Ciro ordinò formalmente gli altri per la maggior parte sono riusciti ad
ottenerlo di nascosto. In effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia
che solitamente si ritrova più numerosa nelle città: è sospettosa nei riguardi di
chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a tutto verso chi l'inganna. Non vi
è uccello che si lasci prendere così agevolmente nella pania o pesce che
abbocchi in fretta all'amo quanto facilmente si facciano allettare dalla
schiavitù tutti i popoli appena ne avvertono il più leggero profumo sotto il
naso. Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull'istante
alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali
esotici, esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo
tipo costituivano per i popoli antichi l'esca per la schiavitù, il prezzo della
loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato
dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli,
inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con
quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a
servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che
imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si
trovano sui libri. A tutti questi stratagemmi i tiranni romani aggiunsero
l'usanza di festeggiare spesso le decurie pubbliche (10) prendendo per la gola
questa gente abbrutita che non aspettava altro; il più accorto e intelligente
fra tutti costoro non avrebbe dato il suo piatto di minestra per scoprire la
libertà della repubblica di Platone. In queste occasioni i tiranni facevano i
generosi distribuendo quarti di grano, qualche sestario (11) di vino e un po'
di sesterzi; ed allora era davvero uno spettacolo penoso sentir gridare viva il
re! Quegli sciocchi non si accorgevano che stavano semplicemente recuperando
una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano ricevendo poteva
essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati. In tal modo nel
giorno di festa la gente raccoglieva sesterzi e gozzovigliava ringraziando
Tiberio o Nerone per la loro generosità per poi essere costretti il giorno dopo
a consegnare i propri beni, i figli, la vita stessa all'avidità, alla lussuria
e alla crudeltà di questi magnifici imperatori, senza osar dire una parola,
muti come un sasso, e senza fare il minimo movimento, immobili come piante. La
plebaglia si è sempre comportata in questo modo: subito disposta a perdersi nei
piaceri che onestamente non potrebbe accettare, insensibile al torto e alle
sofferenze che non dovrebbe ulteriormente sopportare.
Attualmente non c'è nessuno che sentendo parlare di Nerone
non tremi al solo nome di quel mostro tremendo, di quell'orribile e turpe
flagello del mondo; e tuttavia allorché questo incendiario, questo boia, questa
bestia selvaggia morì, in modo disonesto come tutta la sua vita, il famoso
popolo romano, ricordando i suoi giochi e i suoi festini, rimase talmente
dispiaciuto che fu sul punto di portarne il lutto.
Così almeno ci ha lasciato scritto Tacito, storico tra i più
attendibili e straordinariamente serio. Tutto questo non deve sembrar strano
visto che il popolo romano aveva fatto altrettanto qualche tempo prima in
occasione della morte di Giulio Cesare che aveva messo completamente da parte
leggi e libertà, personaggio in cui non mi sembra si sia potuto trovare
qualcosa di valido, dato che la sua stessa umanità solitamente tanto esaltata è
stata più dannosa che non le crudeltà del tiranno più sanguinario che sia mai
vissuto: infatti fu proprio questa sua velenosa dolcezza che indorò la pillola
della servitù al popolo romano.
E così dopo la sua morte questo popolo che aveva ancora la
bocca piena dei suoi banchetti e il ricordo vivo delle sue prodigalità, per
rendergli onore e avere le sue ceneri, fece a gara nell'ammucchiare i banchi
del foro per formarne un rogo; poi eressero una colonna a colui che vollero
considerare padre della patria (così stava scritto sul capitello), e gli fecero
più onore da morto di quanto se ne sarebbe dovuto fare di diritto ad un eroe
vivo, se non addirittura a quegli stessi che l'avevano ammazzato.
Gli imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere
comunemente il titolo di tribuno del popolo, sia perché questo incarico era
considerato sacrosanto, sia per il fatto che era finalizzato alla difesa e alla
protezione del popolo. In questo modo, con il favore dello stato, si
garantivano la fiducia del popolo come se quest'ultimo dovesse accontentarsi
del nome, senza sentire gli effetti concreti della tirannia. E oggi non si
comportano molto meglio coloro che ogni qualvolta compiono un crimine, anche
molto grave, lo ammantano di qualche bel discorso sul bene comune e sull'utilità
pubblica. E tu sai bene mio caro Longa il vasto formulario di cui potrebbero in
molti casi fare elegante uso, ma la stragrande maggioranza dei tiranni non si
affida a troppe sottigliezze sostenendosi piuttosto sulla più grande impudenza.
I re dell'Assiria e dopo di loro anche quelli della Media usavano presentarsi
in pubblico il più raramente possibile per far nascere il dubbio al popolo che
essi fossero qualcosa più che uomini e lasciarlo così in queste immaginazioni,
dato che la gente lavora volentieri di fantasia su quelle cose che non può
giudicare e vedere di persona. Creata così quest'aura di mistero attorno al
sovrano tante nazioni che rimasero a lungo sotto l'impero assiro si abituarono
a servire tanto più volentieri quanto più non sapevano che padrone avessero,
anzi se l'avessero davvero o no, nutrendo timore in base alla credenza in un
essere che nessuno era mai riuscito a vedere. I primi re d'Egitto non si
mostravano quasi mai in pubblico senza portare ora un ramo d'albero, ora
perfino del fuoco sulla testa; e mascherandosi in questo modo e comportandosi
come dei ciarlatani ispiravano con queste stranezze rispetto e ammirazione ai
loro sudditi che se non fossero stati troppo sciocchi o troppo servili
avrebbero dovuto assistere a quella squallida buffonata solo per riderci sopra.
E' davvero pietoso ricordare quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani
di un tempo per impiantare la loro tirannia, di quali mezzucci si siano serviti
trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta per loro, incapace di evitare
qualsiasi trabocchetto che le venisse teso, ingannata con estrema facilità e
tanto più sottomessa quanto più il tiranno si prendeva gioco di lei.
E che dire di un'altra bella favola che i popoli antichi
prendevano per oro colato? Essi credevano fermamente che l'alluce di Pirro re
dell'Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi a
voler rincarare la dose, erano convinti che quel dito, quando alla morte di
Pirro ne venne bruciato il corpo, fosse sfuggito al fuoco e si fosse ritrovato
integro in mezzo alle ceneri. Così il popolo si è sempre fabbricato da solo le
più sciocche fandonie per poi poterci credere. E molte di queste sono state
anche scritte ma in uno stile tale che se ne può facilmente scorgere l'origine
nelle chiacchiere del popolino raccolte agli angoli delle strade. Così si dice
che Vespasiano nel suo viaggio dall'Assiria a Roma dove si recava per
impadronirsi dell'impero abbia fatto sosta ad Alessandria dove compì ogni sorta
di miracoli: raddrizzò gli zoppi, ridiede la vista ai ciechi e fece tante altre
cose meravigliose che potevano essere credute a mio avviso solo da gente più
cieca di quelli che sarebbe riuscito a guarire. E i tiranni stessi trovavano
del tutto strano il fatto che la gente potesse sopportare un uomo che
continuamente la maltrattava; per questo decisero di mettersi davanti la
religione come scudo e, nella misura del possibile, assumere una qualche
sembianza di divinità per non dover rendere conto della propria vita malvagia.
Per questo Salmoneo, se crediamo alla Sibilla di Virgilio, sconta ora in fondo
all'inferno le sue pene per aver ingannato il popolo e aver fatto credere
d'essere Giove:
«Vidi anche i crudeli tormenti di Salmoneo:
Imitava costui le fiamme di Giove e i fragori d'Olimpo;
Passava costui trasportato da quattro cavalli
Agitando una fiaccola per mezzo alle genti dei Greci
Cercando al regno dell'Elide onori divini:
Folle! pensava imitare il bagliore dei lampi
E i nembi col carro di bronzo e il fragor dei cavalli.
Ma un fulmine Giove scagliò dal torbido cielo,
Chè Giove non torce fumose lanciava,
E precipite giù lo travolse con turbine immane» (12).
Ora se costui, che in fondo non era che un povero sciocco,
viene trattato così bene laggiù, credo proprio che tutti coloro i quali hanno
abusato della religione per fare del male saranno trattati ancora meglio.
Anche i nostri sovrani sparsero per la Francia una quantità
di cose tra le più disparate e indefinibili: rospi, fiordalisi, orifiamma (13).
In ogni modo per quel che mi riguarda non voglio passare per miscredente nei
confronti di tutte queste cose poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto
finora ragione d'esserlo, essendoci sempre toccati sovrani tanto buoni in pace
e così prodi in guerra che pur essendo re dalla nascita non sembrano fatti
dalla natura come gli altri bensì, ancor prima di venire al mondo, scelti da
Dio onnipotente per governare e conservare questo regno. Comunque, anche se ciò
non fosse, non ho certo l'intenzione di mettermi a discutere la verità delle
nostre tradizioni e neppure di esaminarle in modo minuzioso, non volendo
privare di questi bei temi la nostra poesia francese che senz'altro saprà
trovare in essi il soggetto per tante esercitazioni e già ora viene migliorata,
anzi rimessa a nuovo dai nostri Ronsard, Baif, Du Bellay; questi grandi poeti
stanno facendo progredire la nostra lingua a tal punto da poter sperare che ben
presto i greci e i latini ci saranno superiori solo per il fatto di essere
stati i primi. E certo farei un gran torto alle nostre rime (uso volentieri
questo termine che a me non dispiace perché, anche se molti l'hanno reso un
fatto puramente meccanico, tuttavia vedo altrettante persone che si sono messe
a rinobilitarlo e a restituirlo agli antichi onori), farei un gran torto,
dicevo, a sottrarre ai poeti i bei racconti di re Clodoveo sui quali già si
esercitò, mi sembra con grande maestria e sicurezza, la vena vivace del nostro
Ronsard nella sua "Franciade". Intendo la sua portata, conosco il suo
spirito acuto e il suo garbo nello scrivere: saprà cavarsela in modo eccellente
con l'orifiamma come già i romani con i sacri scudi «caduti giù dal cielo» di
cui parla Virgilio e riuscirà a trarre buon profitto dalla nostra ampolla così
come gli ateniesi dal canestro di Erisittone (14); farà in modo che tutti
parlino delle nostre armi come del loro ulivo che tengono ancora nella torre di
Minerva. Sarei dunque temerario a voler smentire i testi della nostra
tradizione e cancellare così tutte le tracce che vengon seguite dai nostri poeti.
Ma per tornare all'argomento da cui non so come mi sono
lasciato deviare, non s'è mai dato il caso che i tiranni, in vista della
propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non
solo all'obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri
confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per
abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il
popolo più grossolano e ignorante.
Ma ora arrivo al punto che a mio avviso costituisce
l'origine nascosta del dominio, il sostegno e il fondamento della tirannia. Chi
pensa che le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno
secondo me si sbaglia di grosso. Credo che gli siano d'aiuto più come cerimoniale
o come spauracchio che non per la fiducia che dovrebbe avere in tutto questo
apparato di difesa. Gli arcieri impediscono di entrare a palazzo agli
sprovveduti senza mezzi, non a chi è ben armato e agli uomini d'azione. Tra gli
imperatori romani è facile contare quei pochi che sono riusciti a salvarsi da
qualche pericolo per l'aiuto dei loro soldati più fedeli, al contrario di tutti
coloro, e sono la maggior parte, che sono stati uccisi dalle loro stesse
guardie del corpo. Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere di
fanti, non sono insomma le armi a difendere il tiranno; capisco che al primo
momento è difficile crederlo ma è così. Sono sempre cinque o sei persone che lo
mantengono al potere e gli tengono tutto il paese in schiavitù. E' sempre stato
così: questi cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno e, sia perché si
son fatti avanti da soli sia perché il tiranno stesso li ha chiamati, sono
diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti, ruffiani
dei suoi piaceri, soci nello spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei
personaggi inoltre tengono vicino a sé seicento uomini dei quali approfittano
facendo di loro quel che han fatto del tiranno. I seicento a loro volta ne
hanno seimila sotto di sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno
assegnare loro il governo delle province oppure l'amministrazione del denaro
pubblico così da ottenerne valido sostegno alla propria avarizia e crudeltà,
una volta che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie malefatte al
momento opportuno; d'altra parte facendone di ogni sorta questi seimila possono
mantenersi solo sotto la protezione dei primi e sfuggire così alle leggi e alla
forca. E dopo tutti questi la fila prosegue senza fine: chi volesse divertirsi
a dipanare questa matassa si accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi
milioni formano questa trafila e stanno attaccati al tiranno, proprio come
afferma Giove che nel racconto di Omero si vanta di poter tirare a sé tutti gli
dei dando uno strattone alla catena. Da qui venne l'aumento di potere al senato
sotto Giulio Cesare, l'istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari
incarichi; a ben vedere non certo per riorganizzare la giustizia ma per dare
nuovi punti di appoggio alla tirannia. Insomma tra favori e protezioni,
guadagni e colpi messi a segno, quanti traggono profitto dalla tirannia son
quasi pari a coloro che preferirebbero la libertà. E' come quando, dicono i
medici, in una parte del nostro corpo c'è qualcosa di infetto: se in un altro
punto si manifesta un piccolo male subito si congiunge alla parte malata. Così
appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, e non intendo con
questa un branco di ladruncoli conosciuti da tutti che in una repubblica
possono fare ben poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro che sono
posseduti da un'ambizione senza limiti e da un'avidità sfrenata, si raggruppano
attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e
diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande. Allo stesso
modo si comportano i grandi ladri e i famosi corsari: gli uni fanno scorribande
per il territorio, gli altri pedinano i viaggiatori; i primi tendono imboscate,
i secondi stanno in agguato; questi trucidano e quelli spogliano; e pur
essendoci tra loro vari ranghi in ordine d'importanza, i primi semplici
esecutori, gli altri capi della banda, alla fine però non c'è nessuno di loro
che non abbia avuto la sua parte, se non proprio al bottino principale, almeno
a qualche frutto delle rapine. Si racconta che i pirati della Cilicia si
raccolsero una volta in così gran numero che si rese necessario mandare contro
di loro Pompeo il grande; non solo, ma riuscirono perfino a trascinare nella
loro alleanza molte città tra le più belle e popolose; nei loro porti trovavano
rifugio dopo le varie scorribande e come ricompensa vi lasciavano una parte del
bottino che quelle città si erano impegnate a custodire.
Così il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo
degli altri, e viene difeso proprio da chi, se non fosse un buono a nulla,
dovrebbe temere di essere attaccato; secondo il detto che per spaccare la legna
ci vogliono dei cunei dello stesso legno. Ed ecco i suoi arcieri, le sue
guardie, i suoi alabardieri; certo qualche volta anch'essi sono trattati male dal
tiranno, ma questi miserabili abbandonati da Dio e dagli uomini sono contenti
di sopportare dei danni pur di rifarsi non già su colui che ne è la causa ma su
tutti quelli che come loro sopportano senza poter far nulla. Eppure vedendo
questa gente che striscia ai piedi del despota per trarre profitto dalla sua
tirannia e dalla servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità,
altre volte invece è la loro stupidità che mi fa pena. Perché, diciamo la
verità, che altro può significare avvicinarsi al tiranno se non allontanarsi
dalla propria libertà e abbracciare anzi, per meglio dire, tenersi stretta la
servitù?
Mettano un momento da parte la loro ambizione, lascino
perdere un poco la loro avarizia, poi guardino e considerino attentamente se
stessi: vedranno chiaramente che questi contadini e paesani che essi mettono
sotto i piedi appena possono e trattano peggio dei galeotti e degli schiavi,
benché maltrattati in questo modo, al loro confronto sono tuttavia più felici e
in un certo senso più liberi. Il contadino e l'artigiano, per quanto siano
asserviti, una volta fatto quanto è stato loro ordinato sono a posto; ma quelli
che il tiranno vede vicino a sé, veri e propri birbanti sempre a mendicare i
suoi favori, sono obbligati non solo a fare quello che dice ma anche a pensare
come lui vuole e spesso per accontentarlo devono sforzarsi di indovinare i suoi
desideri. Non è sufficiente che gli obbediscano: devono compiacerlo in tutto
faticando e distruggendosi fino alla morte nel curare i suoi interessi; inoltre
devono godere dei suoi piaceri, abbandonare i propri gusti per i suoi, andar
contro il proprio temperamento fino a spogliarsene del tutto. Sono
obbligati a misurare le parole, la voce, i gesti, gli sguardi; devono avere
occhi, piedi, mani sempre all'erta a spiare ogni suo desiderio e scoprire ogni
suo pensiero.
E questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita
codesta? C'è al mondo qualcosa che risulti essere più insopportabile di una
simile situazione non dico per una persona di nobili origini ma semplicemente
per chiunque abbia un po' di buon senso o quantomeno un'ombra di umanità?
Quale condizione è più miserabile di questa, in cui non si
ha niente di proprio ma tutto, benessere, libertà, perfino, la vita stessa,
viene ricevuto da altri?
Costoro vogliono servire per accumulare dei beni come se
quello che guadagnano fosse loro, mentre non possono dire di possedere neppure
se stessi. E come se qualcuno potesse avere qualcosa di suo sotto un tiranno
vorrebbero dirsi proprietari di quanto hanno ammassato, dimenticando che sono
loro stessi a dargli la forza di togliere tutto a tutti e di non lasciare nulla
a nessuno. Essi sanno che è l'avidità dei beni il motivo per cui gli uomini
vengono assoggettati alla sua crudeltà, che al suo cospetto non vi è delitto
più grande del possedere qualcosa; sanno che il tiranno ama solo la ricchezza e
spoglia di preferenza i ricchi, eppure si presentano davanti a lui come montoni
al macellaio per mostrarsi ben pieni e pasciuti ed eccitare le sue voglie.
Questi favoriti dovrebbero ricordarsi non solo di quei cortigiani che hanno
messo da parte molti beni stando vicini al tiranno ma anche di tutti coloro
che, dopo aver accumulato per un certo periodo, alla fine hanno perso i beni e
la vita stessa; dovrebbero aver presente non solo i tanti che hanno guadagnato
ricchezze ma anche i pochi che sono riusciti a mantenersele. Si facciano
scorrere tutte le storie antiche, si ripensi al tempo passato di cui possiamo
avere memoria; si vedrà chiaramente quanto è grande il numero di coloro che
dopo essersi conquistati con ogni mezzo indegno la fiducia dei principi, o per
aver troppo favorito la loro malvagità, oppure per aver abusato della loro
ingenuità, alla fine sono stati annientati da quegli stessi principi che tanto
facilmente li avevano prima innalzati quanto poi improvvisamente decisero di
abbatterli. E veramente nel gran numero di persone che hanno circondato cattivi
re ve ne sono state ben poche, per non dire nessuna, che non abbiano provato su
se stesse una volta o l'altra la crudeltà del tiranno che in precedenza avevano
aizzato contro gli altri; e spesso dopo essersi arricchiti delle spoglie altrui
all'ombra del trono sono finiti ad arricchire altri delle proprie spoglie.
Anche le persone per bene, se mai sia dato trovarne qualcuna
benvoluta da un tiranno, per quanto siano tra i suoi più favoriti e sappiano
brillare di virtù e di integrità morale così da ispirare un certo rispetto
perfino ai più malvagi quando vi si trovano vicini, ebbene dico che anche
queste persone non riuscirebbero a sopportarlo a lungo ed è necessario che
anch'esse soffrano questo male comune e imparino a loro spese cosa vuol dire la
tirannia. Consideriamo ad esempio un Seneca, un Burro, un Trasea (15), tre
persone per bene, due dei quali per mala sorte furono messi vicini al tiranno
per curarne gli affari, tutti e due stimati e ben voluti da lui; per di più uno
di questi gli aveva fatto da maestro e considerava pegno di amicizia il fatto
di averlo educato nell'infanzia. Ebbene questi tre personaggi con la loro morte
crudele testimoniano a sufficienza quanto poco ci sia da fidarsi del benvolere
di padroni malvagi. E in verità che amicizia ci si può aspettare da uno che ha
il cuore così duro da odiare il proprio regno, il quale dal canto suo non fa altro
che obbedirgli? Cosa ci si può attendere da un essere che non sapendo amare
impoverisce se stesso e distrugge il proprio impero?
Se poi qualcuno volesse dire che costoro sono caduti in
disgrazia perché si sono comportati da persone oneste, osservi con attenzione
tutti quelli che stavano intorno a questo tiranno: vedrà che quanti entrarono
nei suoi favori compiendo ogni sorta di malvagità non durarono più a lungo. Chi
ha mai sentito parlare di un amore così sfrenato, di un attaccamento così
ostinato e morboso da parte di un uomo verso una donna quanto quello di Nerone
nei confronti di Poppea? Eppure in seguito fu lui stesso ad avvelenarla. La
madre Agrippina aveva ucciso Claudio, il proprio marito per mettere il figlio
sul trono dell'impero e non si era sottratta a difficoltà e disagi pur di
accontentarlo. E proprio questo suo figlio, la sua creatura, il suo imperatore
costruito con le sue stesse mani, dopo molti tentativi andati a vuoto riuscì a
toglierle la vita. E non vi fu allora nessuno che non ritenesse fin troppo
giusta una simile punizione, se solo fosse stato un altro a compierla. E chi
mai si è lasciato più manipolare, chi si è comportato più da sempliciotto e da
sciocco dell'imperatore Claudio? Chi più invaghito di una donna se non lui di
Messaline? E alla fine la consegnò nelle mani del boia. L'ottusità è sempre
stata caratteristica dei tiranni quando si tratta di non fare il bene; ma non
so come, alla fine, quel poco d'ingegno che hanno si desta in loro allorché si
tratta di usare crudeltà verso quelle persone che gli sono più vicine. E'
abbastanza nota la battuta atroce di quell'altro tiranno (16) che osservando il
collo scoperto della donna da lui amata perdutamente fino al punto da sembrare
che non riuscisse a vivere senza la sua compagnia, glielo accarezzava
sussurrando dolcemente: «Questo bel collo sarebbe ben presto mozzato sol che io
lo volessi». Ecco perché gli antichi tiranni, per la maggior parte, venivano di
solito ammazzati proprio dai loro favoriti che avendo conosciuto la natura della
tirannia più che tentare di assicurarsi il benvolere del tiranno preferivano
diffidare della sua potenza. Così Domiziano fu ucciso da Stefano, Commodo da
una delle sue amanti, Antonino Caracalla da Macrino e così quasi tutti gli
altri.
E' certamente per questo che il tiranno non è mai amato e
non ama: l'amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra
uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si
mantiene con dei favori ma con l'onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida
dell'altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di
garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non ci può
essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i
malvagi si ritrovano tra loro non vi è compagnia ma complotto: non si vogliono
bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici ma complici.
Ma anche se non ci fossero questi ostacoli sarebbe comunque
difficile ritrovare in un tiranno un amore fedele poiché stando sopra a tutti e
non avendo alcun compagno pari a lui è già fuori dai confini dell'amicizia che
può fiorire solo sul terreno dell'eguaglianza e non procede mai zoppicando ma
si tiene sempre in perfetto equilibrio. Ecco perché si può ben dire che tra i ladri
c'è una specie di fiducia reciproca nello spartirsi il bottino, dato che sono
tutti uguali tra loro e pur non volendosi bene si tengono d'occhio l'uno con
l'altro non volendo, separandosi, diminuire la loro forza. Ma quelli che sono
favoriti dal tiranno non possono in alcun modo far conto su di lui poiché sono
stati loro stessi ad insegnargli che tutto è in suo potere e che per lui non vi
è diritto o dovere che tenga, posto ormai nella condizione di far passare il
proprio arbitrio come ragione, di non avere alcun compagno pari a lui ma di
essere padrone di tutti.
Davanti ad esempi tanto evidenti e ad un pericolo così
incombente è dunque davvero pietoso che nessuno voglia diventare saggio a spese
altrui, che tanta gente si dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce
ne sia neppure uno che abbia l'avvedutezza e il coraggio di dir loro ciò che in
un apologo famoso la volpe rinfaccia al leone che si finge ammalato: «Verrei
volentieri a farti visita nella tua tana; purtroppo vedo molte tracce di animali
che vanno verso di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».
Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno
rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e attratti da questo splendore si
avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non
mancherà di divorarli, allo stesso modo di quel satiro curioso che secondo
un'antica favola vedendo brillare il fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente
impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come la farfalla, di
cui ci parla il poeta toscano (17), che credendo di trarre chissà quale piacere
si avvicina troppo alla fiamma, attratta dal suo chiarore, e ne prova invece
l'altra qualità, quella del bruciore. Ma anche supponendo che questi adulatori
riescano a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano mai
dal re che viene dopo: se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e
comportarsi secondo ragione; se invece è malvagio come il precedente avrà
anch'egli i suoi favoriti che solitamente non si accontentano di prendere a
loro volta il posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti
casi la vita stessa. Com'è dunque possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a
tanti rischi e con ben poche garanzie voglia prendere questo sciagurato posto e
servire un padrone così pericoloso?
Che tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere
occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia avere più timore di lui che
non di qualsiasi altro uomo, stare sempre all'erta con l'occhio e l'orecchio
tesi a spiare da dove verrà l'attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel
cuore dei compagni, denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi
di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle
labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi
scontento.
Ma è ancor più interessante considerare quel che ricavano da
questo grande tormento e quale bene possano aspettarsi da tutti questi loro
affanni e dalla loro vita miserabile. Solitamente il popolo non accusa il
tiranno per il male che gli tocca sopportare bensì coloro che sono messi a
governare. Di costoro i popoli, le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna
eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di
loro riversano un'infinità di oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i
discorsi e le imprecazioni della gente sono contro di loro, ritenuti colpevoli
di ogni sventura, della peste come della carestia; e se qualche volta per salvare
le apparenze questo stesso popolo li onora, dentro di sé li maledice dal
profondo del cuore e li ha in orrore più che le bestie feroci. Ecco la gloria e
l'onore che ricevono per i servizi che compiono verso la gente, la quale anche
se potesse ridurre il loro corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora
insoddisfatta e ben poco alleggerita delle proprie sofferenze. E anche quando
sono scomparsi dalla faccia della terra moltissimi scrittori negli anni
seguenti non mancano certo di denigrare la memoria di questi mangiapopoli; la
loro fama viene completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse
ossa vengono per così dire trascinate e disperse dai posteri come punizione per
la loro vita malvagia, anche dopo morte.
Impariamo dunque finalmente a comportarci bene; ad onore
nostro o per l'amore che portiamo alla virtù, o meglio ancora per l'amore e
l'onore di Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice
delle nostre mancanze, teniamo lo sguardo rivolto al cielo.
Per parte mia penso, e non credo di sbagliarmi, che non ci
sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e
che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro
complici.
NOTE AL TESTO
NOTA 1: Omero, "Iliade", 1. secondo, vv. 204-205a,
trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, a cura di Cesare Pavese, Einaudi, Torino
1950.
NOTA 2: Con tutta probabilità si tratta del predecessore di
La Boétie nel parlamento di Bordeaux. L'invocazione all'amico Longa che si
trova nel manoscritto "De Mesmes" è stata soppressa in quasi tutte le
versioni successive.
NOTA 3: L'autore si riferisce al momento del trapasso nella
storia ebraica dalla fase dei giudici a quella dei re: il popolo ebreo chiede
insistentemente a Samuele di consacrargli un re (che sarà poi Saul). La Bibbia
fa notare che questa richiesta spiacque a Samuele ed a Jahwè: cfr. 1 Sam. 8,4
ss.
NOTA 4: Cavalli ai quali sono state tagliate le orecchie e
la coda.
NOTA 5: Armodio e Aristogitone sono i due giovani che uccisero
Ipparco, figlio di Pisistrato; Trasibulo cacciò i trenta Tiranni da Atene;
Bruto il Vecchio e Valerio riuscirono ad allontanare per sempre i Tarquini da
Roma e ad instaurarvi la repubblica; Dione infine rovesciò dal trono di
Siracusa il tiranno Dionigi.
NOTA 6: In realtà il passo di Ippocrate a cui si riferisce
La Boétie si trova nell'opera "Arie, acque, luoghi".
NOTA 7: Si tratta del re Artaserse di Persia.
NOTA 8: Il libretto di Senofonte è appunto intitolato
"Ierone o della condizione dei sovrani".
NOTA 9: Terenzio, "Eunuco", atto terzo, scena
prima, v. 25.
NOTA 10: Le decurie pubbliche consistevano in elargizioni
fatte dagli imperatori romani alla plebe dell'urbe; il nome deriva dal fatto
che questa distribuzione di viveri a spese del denaro pubblico avveniva a
gruppi di dieci.
NOTA 11: Misura romana che corrispondeva a poco più di mezzo
litro.
NOTA 12: Virgilio, "Eneide", 1. quarto, vv.
585-594; tr. it. a cura di Enzo Cetrangolo in Publio Virgilio Marone,
"Tutte le opere", Sansoni, Firenze 1966.
NOTA 13: La Boétie si riferisce ai vari episodi fantastici
legati ai primi re di Francia. L'orifiamma è lo stendardo di Francia in cui è
dipinta una fiamma in campo dorato; il fiordaliso o i tre gigli è lo stemma
della casa reale francese, secondo la leggenda introdotto da re Clodoveo, che
lo sostituì all'insegna precedente in cui campeggiavano invece tre rettili o
rospi.
NOTA 14: I sacri scudi caduti dal cielo fanno parte di uno
dei miti legati ai primi re di Roma: si dice che sotto Numa Pompilio fosse
caduto dal cielo uno scudo portatore di salvezza e benessere al popolo romano.
Lo stesso significato doveva rivestire il canestro sceso dal cielo, di cui fa
cenno il poeta Callimaco nel suo inno a Cerere; il re Erisittone fu colui che
ne istituì la festa detta delle Panatenaiche.
NOTA 15: Seneca, come è noto, fu il precettore di Nerone
durante la sua giovinezza e in pratica il reggitore del regno per i primi anni;
Afranio Burro fu il prefetto del pretorio, cioè il comandante del palazzo imperiale;
Trasea un senatore, consigliere dell'imperatore.
NOTA 16: Si tratta dell'imperatore Caligola.
NOTA 17: L'accenno è ad un sonetto di Francesco Petrarca.
Titolo originale: "Discours sur la servitude
volontaire". Traduzione di Luigi Geninazzi.
Nessun commento:
Posta un commento