“Fu all’inizio degli anni Ottanta. Una domenica in cui
giocava l’Italia. Partii da Roma armato, con una scorta armata, e questo
documento classificato segretissimo nella cartella. Una relazione completa
sulla strage di Ustica che doveva essere controfirmata dal ministro della
Difesa Giovanni Spadolini e trasmessa urgentemente al presidente del Consiglio
Bettino Craxi. Arrivai alla stazione di Santa Maria Novella a Firenze, da lì
una gazzella dei carabinieri mi portò nella sua residenza a Pian dei Giullari.
Spadolini mi ricevette in biblioteca, indossava una vestaglia da camera rossa.
Mi conosceva bene, lavoravo già da qualche anno nella sua segretaria
particolare, mi chiamava per nome. Gli consegnai il documento. Lui si sedette,
cominciò a leggere. Erano sette o otto pagine: il resoconto dettagliato di ciò
che era accaduto quella sera, con allegate alcune carte del Sismi, il servizio
segreto militare. Si parlava di due Mirage, di un Tomcat, si parlava del Mig.
Mi resi subito conto che quello che c’era scritto non gli piaceva, scuoteva la
testa. Finché a un certo punto sbattè un pugno sulla scrivania. Era infuriato.
Ricordati, Giuseppe - mi disse - non c’è cosa più schifosa di quando i generali
si mettono a fare i politici. Ma alla fine, controvoglia, firmò”.
Il maresciallo Giuseppe
Dioguardi oggi ha 53 anni, ha prestato servizio in Aeronautica fino al
2008. Alla scadenza del suo nullaosta di segretezza, il Cosmic, che è il
livello più alto, è stato ascoltato da Maria Monteleone ed Erminio Amelio, i
due magistrati della Procura di Roma che indagano sulla strage di Ustica. Parte
dell’interrogatorio è ancora secretato, ma il maresciallo ha accettato lo
stesso di raccontare quello che sa. E sa molto. Nei 33 anni che ha trascorso
nell’arma azzurra e alla Difesa, in posizioni di estrema responsabilità e
delicatezza, un filo rosso lo ha tenuto sempre agganciato, spesso da
supertestimone, a questa storia. Fin da quella sera del 27 giugno 1980, quando
si trovò nella sala operativa della Prima regione aerea a Milano. Esattamente
negli istanti in cui il DC9 Itavia veniva abbattuto nel cielo di Ustica.
Come mai quella sera lei era nella sala operativa della
Prima Regione aerea?
“Per puro caso, ero andato a trovare un collega di turno”.
Quindi, seguì tutto in diretta?
“Sì, fin dalla prima comunicazione della base radar di Monte
Venda”.
Che cosa sentì?
“Rimbalzavano notizie confuse. Non si capiva cosa era
successo, dicevano che un aereo era stato abbattuto. C’era molta tensione. E
appena l’ufficiale di servizio comunicò quello che stava succedendo al
comandante della Regiona aerea, che all’epoca era il generale Mura, il Centro
operativo dello Stato Maggiore da Roma alzò il livello d’allarme al grado più
alto in tutte le basi italiane”.
Cosa che non accade per un semplice incidente aereo.
“No. Quel tipo d’allarme scatta solo se c’è un pericolo
concreto per la sicurezza del Paese. Che so, un attacco a una base o una
minaccia dall’esterno al nostro spazio aereo. Per capirci, lo stesso allarme
del giorno dei missili libici su Lampedusa o della notte di Sigonella”.
Dalla prima comunicazione all’allarme quanto tempo trascorse?
“In quella situazione, la sala operativa della Regione aerea
aveva un tempo massimo di cinque minuti per avvertire Roma. Faccia lei i
conti”.
Che altro fece il generale Mura?
“Chiese a chi non era in servizio di uscire subito dalla
sala. Poi la mattina dopo, al circolo, mi chiamò e mi disse che bisognava stare
sereni e tranquilli, che purtroppo erano situazioni che potevano capitare e che
stavano cercando di capire chi aveva provocato cosa”.
Le comunicazioni che ascoltò erano telefoniche?
“Certo. Ma dallo Stato Maggiore di Roma arrivarono anche
messaggi classificati che vennero decrittati e letti”.
Cerchi di essere più preciso.
“Non posso, i dettagli sono nelle parti dell’interrogatorio
secretate dai magistrati. Diciamo che la confusione era provocata dal fatto che
si sapeva che c’erano dei caccia in volo ma non la nazionalità, né la
provenienza o la direzione. E comunque, un allarme c’era già prima
dell’abbattimento…”.
Chi lo aveva lanciato?
“I due piloti che poi sono morti nell’incidente delle Frecce
tricolori a Ramstein nel 1986, Nutarelli e Naldini. Loro hanno incrociato il
DC9 tra Bologna e Firenze e hanno visto quello che si muoveva intorno al
velivolo civile… loro sono rientrati alla base di Grosseto segnalando il
pericolo con la formula da manuale, attivando il microfono senza parlare. E
tutte le sale operative delle tre regioni aeree, che sono collegate da una
linea diretta, stavano cercando di capire. La fase più concitata è andata
avanti per circa un’ora e mezza e l’allarme massimo è stato tolto solo dopo
sette, otto ore”.
I radaristi
militari di Ciampino hanno dichiarato negli interrogatori di aver visto dei
caccia americani, hanno addirittura chiamato l’ambasciata per sapere qualcosa
da loro.
“Nella relazione
del Sismi controfirmata da Spadolini si parlava di due Mirage, e all’epoca quei
caccia li avevano solo i francesi, e di un Tomcat, che era un caccia imbarcato
sulle portaerei americane”.
Possibile che
nessuno dei nostri radar, ad eccezione di Ciampino, li avesse visti e
identificati?
“Mettiamola in
questo modo. Quella sera c’erano dei siti radar aperti, che nel giro di due o
tre anni da quell’evento sono stati chiusi, ufficialmente per un riordino
interno. Uno addirittura dopo sei mesi. E chi ha indagato nella prima fase di
questa inchiesta, o non ha saputo cercare i nastri radar giusti o non li ha
voluti trovare”.
Ma quella notte,
dopo la confusione, si capì come erano andate le cose.
“Le dico di più. La
mattina dopo, al circolo ufficiali, parlavano tutti dell’abbattimento. E
siccome era un sabato, chi stava lì c’era perché aveva lavorato tutta la notte
nella sala operativa o nei centri dove passavano le comunicazioni
classificate”.
Si parlava di
aerei italiani coinvolti, a parte l’F-104 di Nutarelli e Naldini?
“No. E il loro
coinvolgimento fu molto preciso. Vedere un caccia militare sotto la pancia di
un aereo civile non è una cosa normale”.
Se per giunta
non è italiano…
“Il modello non era
italiano. E quando non ci sono nemmeno coccarde che lo identifichino, fai
fatica a non sganciare il pulsante d’allarme”.
Si fa fatica
anche a non credere che almeno una base radar lo abbia visto entrare nel nostro
spazio aereo.
“Probabilmente, lo hanno visto”.
E cancellato…
“Probabilmente”.
Ma nessuno lo ha
mai confessato.
“Gliel’ho detto. Se
eri un militare e avevi a che fare con un documento o un’informazione a
qualunque livello di segretezza, da riservato a segretissimo a top secret che
sia per quelli Nato, e le rivelavi rischiavi fino a venti anni di reclusione.
Ora la norma è cambiata. Ma allora era così. E guardi, non sono state le
minacce o gli ordini dei superiori, che pure ci sono stati, a tappare la bocca
ai militari. Era la paura di andare in galera. Ma la gente sapeva, e le carte
c’erano”.
E sono sparite
per sempre, queste carte?
“Io ho spiegato ai
giudici che ogni documento ha una vita. Molti sono stati distrutti ma molti
esistono ancora. Bisogna saperli cercare. Prenda il giudice Priore. E’ arrivato
a cinque centimetri dalla verità, ma non ha trovato la pistola fumante. I suoi
finanzieri non sono potuti entrare nelle segreterie speciali o nelle stanze o
nei depositi dove c’erano le carte classificate, perché ci vogliono dei
permessi che un magistrato non può dare. E se ci fossero entrati, non avrebbero
saputo cosa cercare e come. Un registro di protocollo classificato non si
distrugge mai nella vita. Ma bisogna trovarlo e poi saperlo leggere. E adesso
prenda me. Dopo Milano sono stato otto anni a Roma nella segreteria particolare
di sei ministri della Difesa, poi a Bari alla Terza regione aerea, sempre col
nullaosta di sicurezza Cosmic che al mio livello in Italia avevamo solo in
ventiquattro. Priore ha chiesto di interrogare i componenti della segreteria
speciale ma il mio nome non è mai stato inserito nell’elenco che gli ha fornito
l’Aeronautica. Sarà un caso?”.
Torniamo a Spadolini, a quella relazione segreta e alla
sua sfuriata.
“Era fuori di sé. Prima di firmare fece anche una
telefonata, a cui però io non ho assistito”.
Ce l’aveva coi generali perché cercavano di giustificare
politicamente quello che era successo?
“C’era un tentativo di girare le carte. D’altra parte anche
De Michelis parlò di carte sopra il tavolo e carte sotto il tavolo. All’epoca i
generali di squadra aerea erano solo tredici e ciascuno di loro aveva una linea
telefonica diretta con un apparecchio cripitato che comunicava con le altre
dodici, una specie di teleconferenza via Skype ante litteram. Qualunque
decisione dovevano prendere e presero, lo fecero insieme, in tempo reale”.
Mai nessuno fuori dal coro?
“Il generale Moneta Caglio. Era un giorno di Pasqua. Vado a
Roma a discutere questa faccenda, mi disse. Prese la macchina, andò a casa del
capo di stato maggiore, ci fu una lite violentissima e lo misero in pensione
con un anno d’anticipo”.
Non condivideva la linea sulla strage di Ustica?
“Esatto. Chi ha gestito questa storia, chi era in
determinati posti di comando e controllo, ha fatto carriere inimmaginabili.
Generali che sono diventati capi di stato maggiore e sottufficiali che hanno
avuto trasferimenti lampo in sedi dove c’era una lista d’attesa di quindici
anni. Chi ha imbrogliato non è stata l’Aeronautica. È stato un numero ben
preciso e ristretto di persone dentro l’Aeronautica. Gli altri ci hanno solo
rimesso”.
Oppure sono morti.
“Oppure. L’ultimo in ordine di tempo è stato il generale
Scarpa. Tre anni fa”.
Trovato nella sua casa di Bari con la faccia tumefatta e
una ferita alla testa.
“Esatto”.
Aveva avuto a che fare con questa storia?
“Diciamo che ci si era trovato vicino”.
Quando i piloti Nutarelli e Naldini sono morti
nell’incidente di Ramstein, nessuno di voi si è fatto qualche domanda?
“Come devo risponderle?”.
Non lo so. Ha fatto un sospiro.
“Ecco. Ma mica è l’unico fatto strano”.
Per esempio?
“Nessuno si chiede mai nulla sul povero generale Giorgieri”.
È stato ucciso dalle Brigate Rosse.
“Era uno dei tredici generali di squadra, che erano tutti
collegati fra loro. Era anche uno dei pochi che non aveva la scorta”.
In quelle pagine che hanno fatto infuriare Spadolini si
parlava anche del Mig.
“Era collegato”.
Perché anni dopo, terminata la sua audizione in
Commissione stragi, disse: “Scoprite il
giallo del Mig e troverete la verità su Ustica”.
“E’ così. Glielo confermo al cento per cento”.
Di quella relazione non si è saputo mai nulla. Sparita.
“Finchè sono rimasto al ministero della Difesa a Palazzo
Baracchini, una copia di quella relazione c’è sempre stata. E so da amici
comuni che fu conservata per molto tempo anche dopo il 1988. Quando fui
trasferito alla segreteria del comandante della Terza regione aerea a Bari e
poi alla segreteria speciale del comandante di regione, anche nelle loro
casseforti c’erano documenti su Ustica. Noi potevamo vederli, leggerli, avevamo
il nullaosta giusto”.
Noi chi, scusi?
“Noi della segreteria speciale, eravamo in otto e non
dipendevamo da nessuno. La sera del 27 giugno, due di noi si trovavano a Monte
Scuro, sulla Sila. Dove poi furono rimandati il 18 luglio a vedere
ufficialmente i resti del Mig che avevano già visto segretamente il 27 giugno”.
Quella sera in cielo il Mig se l’erano perso o no?
(pausa) “Non lo so”.
Però seppero subito dove era caduto.
(pausa) “Non lo so”.
I magistrati le hanno chiesto perché ha aspettato tutti
questi anni per raccontare quello che sa?
“Certo. Lo dico anche a lei. Primo. Perché nel 2010 è
scaduto il mio nullaosta di sicurezza e mi sono sentito finalmente una persona
libera. Secondo. Perché in tutti questi anni, ogni volta che mi parlavano di
Ustica mi sono sentito una merda”.
Fonte: visto su http://www.huffingtonpost.it/
del 23 ottobre 2013
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