Piazza Fontana, 12 Dicembre 1962, attentato senza
colpevoli dopo mezzo secolo. E’ davvero così?
A sentire le solite campane, la responsabilità è dei servizi
segreti deviati, della massoneria, delle trame internazionali, del Grande
Vecchio e chi ne ha più ne metta. Alla fine del giro si conclude “piazza
Fontana è un mistero”, come d’altronde il caso Moro, piazza della Loggia, la
stazione di Bologna, Ustica, Capaci, via D’Amelio e via seppellendo i morti e
la nostra memoria con loro. Eppure basterebbe tirare un filo delle migliaia che
s’intravvedono per avvicinarsi alla verità Anzi c’è uno che alla verità s’è
avvicinato moltissimo, ma…
Nel 2009 e di nuovo nel 2012, Paolo Cucchiarelli pubblicò
“Il Segreto di Piazza Fontana”, un libro che dovrebbero imporre fra i testi
scolastici. I venerati maestri del giornalismo e della cultura un tanto al
chilo finsero di non capire. Taluni fecero peggio, come vedremo. Pochi
ricordano che molti di costoro cofirmarono la “lettera aperta”[1] che
isolò il commissario Luigi Calabresi e lo additò ai killer di Lotta Continua.
Sentiremo, sentimmo, sentiamo questi cofirmatari chiedere scusa? Le parole sono
pietre, talvolta pallottole.
D’altronde, quanto Renato Curcio dichiarò sulla strage, è un
manifesto politico, una chiamata di correo a destra e sinistra: è allo stesso
tempo un invito a tacere e un’ammissione a mezza bocca che le bombe furono due:
una di destra e una di sinistra; cominciarono così il consociativismo e
l’omertà trasversale della politica e del Palazzo, tutto intero. Inutile
chiedere a costoro di Moro, piazza della Loggia, la stazione di Bologna,
Ustica, Capaci, via D’Amelio e via seppellendo i morti e la nostra memoria con
loro.
Renato Curcio: «Piazza Fontana e l’omicidio Calabresi sono
andati in un certo modo e, per ventura della vita, nessuno più può dire come
sono realmente andati. C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che
impedisce ai poteri e a noi di dire che cosa è veramente successo»
Il resto sono chiacchiere con libertà di disinformare, come
d’altronde accade da tempo, dal dopoguerra ai primi anni ’60, alla nascita del
centro-sinistra e da lì alla morte di Luigi Calabresi, prodromo in un certo
senso di quella del presidente Aldo Moro, nell’impazzare di disinformazioni,
talune celeberrime come la parapsicologica Gradoli[2], così grottesca da
non meritare ormai troppa attenzione.
Curioso tuttavia che la disinformazione di decenni addietro
riaffiori sovente in veste di colpo giornalistico, “scoop”, secondo il
gergo prevalente. Rari i giornalisti, rarissimi che chiedano: «Perché non
l’avete detto o scritto prima?». Negligenza che dà agio di confezionare
altre bugie su quella precedente, l’una dietro l’altra, un treno di bugie. Chi
le confeziona? Chi non le vede?
Decenni di democrazia occorsero per comprendere quanto la
disinformazione sia organica al Palazzo. Uno studioso del prossimo millennio
potrà domandarsi come mai gli italiani ci abbiano messo così tanto a
smaliziarsi, nonostante l’aura da furbi. Una lunga scia di scandali infatti,
almeno dal 1893, con Giovanni Giolitti e la saccheggiata Banca Romana, arrivò
sino ai giorni correnti, fra camarille, terrorismi, dossier e liste di varia
attendibilità. Ogni scandalo causò innumerevoli e costose inchieste, tutte
convergenti verso la medesima conclusione: il Palazzo mente o v’è chi mente per
incarico del Palazzo, oppure entrambe le cose.
Fino agli anni ’70 non si parlò di dezinformatsiya[3],
finché non si svelarono le trame dell’Europa orientale. D’altro canto,
“disinformazione” piacque al giornalismo, sempre in cerca di sintesi
immaginifiche, in questo caso per descrivere i torbidi nelle inchieste e nei
processi. È curioso tuttavia che i venerati maestri del giornalismo non abbiano
mai definito “disinformazione” le notizie balle inoculate dalla stampa nella
pubblica opinione. Bufale solidali, con la benedizione della Crusca, dacché “bufala”,
evocante il menare per il naso alla maniera dei bufali, prendere in giro,
sdrammatizza l’altrimenti imbarazzante “disinformazione”. Che dire poi d’un
giornalista che disinforma e uccide?
Decida il lettore se sia più grave una bufala o una disinformazione,
d’altronde a danno di chi? Le parti civili sono sempre le stesse: la povera
gente, gli elettori, i contribuenti, chiunque fronteggi il Palazzo.
Pietro Valpreda assolto con formula dubitativa per tre volte,
l’alibi avallato dalla zia: «Carente di
prova, fondato com’è sulla dichiarazione di Valpreda e della zia, Rachele
Torri, quest’ultima palesemente compiacente e contraddittoria» scrissero
in sentenza. Cornelio Rolandi, tesserato Pci e Cgil, tassista che
riconobbe in Valpreda quello trasportato a Piazza Fontana, subì un linciaggio
bestiale, come occorse a Leonardo Marino, teste chiave contro Adriano
Sofri. Le leggi “su misura”
cominciarono con quella per scarcerare Valpreda.
La disinformazione ai primordi fu lanciata dalle agenzie di
stampa – celeberrima e famigerata “La Stefani” – mediante le veline[4];
oppure dalle residenture[5], comunque percorrendo crocevia
obbligati, in qualche modo banali.
La Stefani. Prima agenzia di stampa italiana, nacque a
Torino nel 1853, con l’appoggio di Francesco Crispi. Fu strumento per
propagandare “I Mille” di Garibaldi. Poi il Fascismo ne fece la sua voce.
In seguito, la testata fu proprietà dell’ordine dei giornalisti dell’Emilia
Romagna; oggi dà il nome al settimanale della scuola di giornalismo di Bologna.
Chi ha memoria tuttora stupisce dei corsi e dei ricorsi di
persone e luoghi e fatti, noti a tutti peraltro. Si pensi all’Ufficio Ricerche
del SID (Sevizio Informazioni Difesa)[6] in via Bissolati, a due passi
dalla sede centrale della FIAT nella Capitale; oppure il ristorante di gran
classe, prossimo all’ambasciata francese, l’uno e l’altra prediletti da
Federico Umberto D’Amato[7], gourmeur de L’Espresso e capo
dell’ufficio Affari Riservati del Viminale[8]. Bufale meccanizzate, eleganti,
informate, ghiotte e multinazionali.
Altri incroci furono più sorprendenti; quelli di Lotta
Continua, per esempio[9]. Lanciò accuse tanto infamanti quanto false
contro il povero commissario Luigi Calabresi[10], incolpandolo della
morte del povero Giuseppe Pinelli[11]. Dezinformatsiya? Meglio
presumere menzogne senza blasone, odio senza classe, piuttosto che un preciso
disegno eversivo. Sarebbe tuttavia via meglio sincerarsene, capire perché un
giornale “Lotta Continua” mentiva spudoratamente; d’altronde non sarebbe questa
la missione di un giornale, quantunque di parte. Perché tutte quelle balle?
Solo per vendere più copie? Suvvia, non è credibile. E perché Calabresi doveva
morire, perché doveva assolutamente morire? Coprirono il povero Calabresi con
una montagna di bugie, un mucchio di menzogne certificate da un indimenticabile
giudice istruttore, Gerardo D’Ambrosio, che prosciolse Calabresi e i colleghi
per la morte di Pinelli. Bufala calunniosa, tuttavia sorretta da 757 firme di
intellettuali, con la «Lettera aperta a L’Espresso sul caso Pinelli». Bufala
firmata, griffata, plurima, laureata.
Dopo aver sparato al commissario, Lotta Continua titolò: “Ucciso
Calabresi il maggior responsabile dell’assassinio di Pinelli”,
inchiavardando la nuova bufala alla precedente[12]. Erano stati proprio
loro a sparare, quelli di Lotta Continua, certificarono due sentenze della
Cassazione, sulle quali s’imbastirono ulteriori bufale: treno di bufale,
puntuale come la morte.
Negli anni più combattuti, Lotta Continua incrociava David
Thorne, destinato a diventare l’ambasciatore USA a Roma da luglio 2009 ad
agosto 2013. D’altronde il suo papà era in ottimi rapporti col presidente
Eisenhower. Un pedigree di classe con una precoce vocazione, certificata
dal suo CV ufficiale “…ha iniziato a coltivare fin dalla sua gioventù una
profonda conoscenza ed ammirazione per la cultura, la politica e la società
italiane”.[13] Fu così approfondita la sua conoscenza della politica
italiana da essere stampatore della comunista rivoluzionaria Lotta Continua, in
via Dandolo 10, a Roma. Qualcuno vada a chiedere a David Thorne: «Ehi, tu!
Visto che hai una profonda conoscenza ed ammirazione per la cultura, la
politica e la società italiane, sapevi di stampare un giornale
assassino? Non lo sapevi? E dove vivevi, sulla Luna?» Bufala stars&strips.
Lotta Continua non alternava solo capitalismo e marxismo,
inframmezzandovi anche il post fascismo. Nel 2007 Adriano Sofri infatti svelò
su Il Foglio che nel 1975-’76 – cioè trent’anni prima – ebbe contatti
con Federico Umberto D’Amato, il riciclato dalla fascistissima DAGR (Divisione
Affari Generali Riservati)[14]. Bufala pluralista, in orbace e gourmant.
Tanto per cambiare, la rivelazione fu un cocktail bufalino:
mezze verità, mezze bugie, tante reticenze. Marco Travaglio ne illuminò
dettagli agghiaccianti:
«… D’Amato non era così sprovveduto da rendere visita a
domicilio all’allora capo di un’organizzazione rivoluzionaria, senza neppure
sincerarsi di non essere ripreso, registrato e dunque in seguito sputtanato da
chi (in teoria) aveva tutto l’interesse a screditare un così altolocato
rappresentante delle istituzioni che Lotta continua si proponeva di abbattere …
Che poi il vertice di Lotta continua fosse coinvolto in almeno un omicidio non
lo dico io: lo dicono due sentenze definitive della Cassazione che indicano in
Sofri, Pietrostefani (tuttora latitante), Bompressi e Marino i responsabili
dell’assassinio del commissario Luigi Calabresi. Il che, almeno sulla carta,
potrebbe spiegare come mai D’Amato si rivolse qualche anno dopo proprio a Sofri
per commissionargli altri omicidi…. D’Amato, figura centrale nei depistaggi su
Piazza Fontana e non solo (la “pista anarchica” e le false veline su Calabresi
addestrato dalla Cia erano farina del suo sacco), è morto nel 1996. Solo Sofri
può spiegare perché mai un personaggio così bene informato si rivolse proprio a
lui, se l’avesse saputo estraneo alla pratica dell’omicidio politico: forse
sapeva di andare a colpo sicuro, senza temere di esser denunciato?»[15]
Bufale killer.
Articolo tratto da
“Disinfornazione di Lotta e di Governo”, di prossima pubblicazione.
Si contano su una mano con tre dita i giornalisti[16]
che obiettarono a Sofri; nessuno comunque con l’implacabile richiamo alla
verità di Travaglio. La Strage di Piazza Fontana del 12 Dicembre 1969,
quarantacinque anni fa, oramai racconta solo la sconcia condizione del
giornalismo italiano. Ecco, teniamo presenti queste modeste note, mentre
LorSignori somministrano la consueta sbobba sentimental-retorica.
Ah, dimenticavo… le vestali del sacro fuoco dell’ordine dei
giornalisti trovano normale che un giornalista menta, menta per uccidere e uccida,
conservando la tessera di giornalista? La tessera di defensor veritatis?
Tutto regolare?
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[1] È il
documento del 10 giugno 1971, sottoscritto da 757 personalità del mondo
politico e intellettuale italiano. Il settimanale L’Espresso (su cui scriveva
pure Federico U. D’Amato dell’Ufficio Affari Riservati, cfr. n.7) pubblicò
l’«Appello contro il commissario Calabresi» il 27 giugno 1971, insieme a un
inchiesta di Camilla Cederna “Colpi di scena e colpi di karate. Gli ultimi
incredibili sviluppi del caso Pinelli”, facendo proprie le tesi calunniose
sostenute da Lotta Continua. Eccone il testo:
«Il processo che doveva far luce sulla morte di Giuseppe
Pinelli si è arrestato davanti alla bara del ferroviere ucciso senza colpa. Chi
porta la responsabilità della sua fine, Luigi Calabresi, ha trovato nella legge
la possibilità di ricusare il suo giudice. Chi doveva celebrare il giudizio,
Carlo Biotti, lo ha inquinato con i meschini calcoli di un carrierismo senile.
Chi aveva indossato la toga del patrocinio legale, Michele Lener, vi ha
nascosto le trame di una odiosa coercizione. Oggi come ieri – quando
denunciammo apertamente l’arbitrio calunnioso di un questore, Michele Guida, e
l’indegna copertura concessagli dalla Procura della Repubblica, nelle persone
di Giovanni Caizzi e Carlo Amati – il nostro sdegno è di chi sente spegnersi la
fiducia in una giustizia che non è più tale quando non può riconoscersi in essa
la coscienza dei cittadini. Per questo, per non rinunciare a tale fiducia senza
la quale morrebbe ogni possibilità di convivenza civile, noi formuliamo a
nostra volta un atto di ricusazione. Una ricusazione di coscienza – che non ha
minor legittimità di quella di diritto – rivolta ai commissari torturatori, ai
magistrati persecutori, ai giudici indegni. Noi chiediamo l’allontanamento dai
loro uffici di coloro che abbiamo nominato, in quanto ricusiamo di riconoscere
in loro qualsiasi rappresentanza della legge, dello Stato, dei cittadini.»
Nessuno di tali firmatari espresse alcun rammarico dopo
l’assassinio di Luigi Calabresi. Al contrario una grande quantità di costoro fu
solidale con gli assassini anche dopo la seconda e definitiva sentenza della
Cassazione.
[2] Il 18 aprile
1978, le forze dell’ordine scoprirono a Roma un appartamento in via Gradoli 96
usato come covo delle Brigate Rosse, grazie a una perdita d’acqua. Il covo era
usato abitualmente da Mario Moretti, che l’aveva fittato sin dal 1975, col
falso nome di “ingegner Mario Borghi”.
“Gradoli” è pure un comune dell’alto Lazio il cui nome
comparve nel corso d’una seduta spiritica (o “parapsicologica” com’è definita
in atti giudiziari), effettuata il 2 aprile 1978, così riferita da Romano Prodi
alla Commissione Moro: «Era un giorno di pioggia, facevamo il gioco del
piattino, termine che conosco poco perché era la prima volta che vedevo cose
del genere. Uscirono Bolsena, Viterbo e Gradoli. Nessuno ci ha badato: poi in
un atlante abbiamo visto che esiste il paese di Gradoli. Abbiamo chiesto se
qualcuno sapeva qualcosa e visto che nessuno ne sapeva niente, ho ritenuto mio
dovere, anche a costo di sembrare ridicolo, come mi sento in questo momento, di
riferire la cosa. Se non ci fosse stato quel nome sulla carta geografica,
oppure se fosse stata Mantova o New York, nessuno avrebbe riferito. Il fatto è
che il nome era sconosciuto e allora ho riferito.»
[3]
“Disinformazione” in russo; la parola entrò nel lessico dopo la fuga in
occidente del generale Ion Mihai Pacepa, alto dirigente della Securitate e
consigliere per la sicurezza dello Stato del presidente della Romania Nicolae
Ceauşescu. A luglio 1978 Pacepa ottenne asilo nell’ambasciata americana a Bonn
dove era stato inviato da Ceausescu per riferire una notizia riservata
all’allora cancelliere Helmut Schmidt. Il generale svelò i metodi scientifici
di dezinformatsiya, adottati dall’intelligence del blocco
orientale per influenzare l’opinione pubblica occidentale. Alcune fra le
magiori operazioni di dezinformatsiya furono: l’infiltrazione nel World
Council of Churches, il consiglio mondiale delle chiese protestanti, per
aizzare le proteste contro gli Stati Uniti; la nascita della Christian Peace
Conference, per diffondere la teologia della liberazione in America latina;
la diffusione dei “Protocolli dei Savi anziani di Sion”; ma soprattutto
il finanziamento e la dezinformatsiya per screditare Pio XII,
dipingendolo come “Papa silente sull’Olocausto” mediante la
sponsorizzazione occulta di “Der Stellvertreter. Ein christliches
Trauerspiel”, “Il Vicario. Una tragedia cristiana”, l’opera di Rolf
Hochhuth. cfr. Giulio Meotti “Disinformatia”
Il Foglio 8 luglio 2013
[4] “Velina”
prende il nome da “carta velina”, fogli particolarmente sottili, allo scopo di
non intasare gli archivi cartacei. Fu la carta usualmente adottata da “La
Stefani”, la prima agenzia di stampa italiana, nata a Torino nel 1853, per
spalleggiare il governo Crispi e successivamente divenuta un braccio operativo
di propaganda, controllo e disinformazione del governo nel Ventennio fascista.
[5] Residentura
è la tipica organizzazione all’estero di intelligence russa (o sovietica
prima del 1991). È diretta dal Rezident, responsabile dell’intelligence
in un determinato paese. La Rezidentura comprende risorse materiali e
umane, Hi-tech e IT, per garantire capacità politica, scientifica, tecnico
operativa, palese e occulta, legale e illegale, comprese le risorse umane e
materiali per agire sulla comunità diplomatica. Le prime frammentarie
conoscenze sulla struttura della Residentura si ebbero con le defezioni
da Est, a partire dalla metà degli anni ’60. Per un lungo periodo la Residentura
che controllava l’Italia fu in Svizzera, nella villa d’una celebre famiglia del
milieu finanziario.
[6] Lo Stato
italiano unitario si dette il Servizio Informazioni Militare (SIM), basato
sull’Arma dei Carabinieri. Nel dopoguerra, dopo l’epurazione, si chiamò prima
SIFAR (Servizio Informazioni Forze Armate) prima e poi SID (Sevizio
Informazioni Difesa); nel 1977 si scisse in Servizio per le Informazioni e la
Sicurezza Democratica (SISDE) e in Servizio per le Informazioni e la Sicurezza
Militare (SISMI), fino alla riforma del 2007, che ha conferito ai due servizi
competenze territoriali: Agenzia Informazioni Sicurezza Interna (AISI) e
Agenzia Informazioni Sicurezza Esterna (AISE). Per approfondimento Virgilio
Ilari “Storia Militare della Prima Repubblica 1943-1993” ed. Nuove Ricerche.
[7]Federico
Umberto D’Amato (Marsiglia, 4 giugno 1919 – Roma, 1° luglio 1996), poliziotto
durante il Ventennio, fu agli ordini di James Angleton, capo dell’OSS (Office
of Strategic Services) dopo l’occupazione di Roma (4 giugno1944). Ai
primordi della NATO, entrò nella Segreteria Speciale Patto Atlantico,
anello di congiunzione con l’intelligence degli Stati Uniti. Dal 1957
nell’Ufficio Affari Riservati del Viminale, vi compì tutta la carriera fino a
divenirne vice direttore nel 1969 e direttore nel novembre 1971. Fu rimosso due
giorni dopo la Strage di Piazza della Loggia del 28 maggio 1974 a Brescia,
inviato a dirigere la Polizia di confine. Era fra gli iscritti alla P2 di Licio
Gelli. Andò in pensione nel 1984. Gastronomo insigne, diresse una rubrica di
cucina per L’Espresso, con lo pseudonimo Federico Godio e ideò la guida dei
ristoranti de L’Espresso. Dopo la sua morte, dopo i funerali, il giudice Carlo
Mastelloni perquisì la sua casa in via Cimarosa a Roma, dove il giudice Pietro
Saviotti aveva disposto una perquisizione nel novembre 1995.
[8] Francesco
Saverio Nitti nel 1919 creò la DAGR (Divisione Affari generali riservati),
articolata in 2 sezioni, per vegliare sulle attività politiche sovversive. Mario
Scelba, allora ministro dell’Interno rifondò l’Ufficio Affari Riservati
nel 1948, ricalcando compiti, struttura e metodi della DAGR del Ventennio,
cooptandovi Federico Umberto D’Amato ib.n6.
[9] P.Laporta “L’ambasciatore
Usa in Italia stampava Lotta continua” ItaliaOGGI 15/10/2011
[10] Luigi
Calabresi (Roma, 14 novembre 1937 – Milano, 17 maggio 1972) Medaglia d’oro al
valor civile alla memoria, commissario capo e poi vice capo dell’Ufficio
politico della questura Milano. Indagava sull’attentato di Piazza Fontana (12
dic.1969). Cadde vittima di un attentato ordito, secondo due sentenze della
Cassazione, da Adriano Sofri, Ovidio Bompressi, Giorgio Pietrostefani e
Leonardo Marino, tutti esponenti di Lotta Continua.
[11] Giuseppe
Pinelli morì il 15 dicembre 1969 precipitando da una finestra della questura di
Milano, dove era trattenuto per accertamenti in seguito all’esplosione di una
“doppia bomba” alla Banca dell’Agricoltura di piazza Fontana (cfr. pag.)
L’inchiesta del giudice istruttore Gerardo D’Ambrosio escluse l’ipotesi
dell’omicidio, giudicandola assolutamente inconsistente.
[12] Per una
esauriente disanima delle bufale intorno alla strage del 12 dicembre 1969, cfr.
Paolo Cucchiarelli, “Il Segreto di Piazza Fontana”, ed. Chiare Lettere (disponibile
e-book). Adriano Sofri, in antitesi a quanto documentato nel libro,
prendendo le mosse dall’uscita d’un film mediocre su piazza Fontana, lanciò un pamphlet
nel web [qui
il testo di Sofri]. Cucchiarelli rispose a Sofri punto per punto [qui
il testo di Cucchiarelli]. Importante anche un articolo di Massimo Fini
“Sofri e Calabresi, vi racconto la storia” Il Fatto Quotidiano 16 gen.2014 [leggi
qui]
[13] Biografia
dell’Ambasciatore David H. Thorne, sul sito ufficiale dell’Ambasciata USA a
Roma.
[14] ib. n.7
[15] Marco
Travaglio, Il Fatto Quotidiano, 2 aprile 2012 qui
una sintesi su DAGOSPIA
[16]
ib.n.12
Fonte: visto su PIEROLAPORTA-OLTRE LA NOTIZIA del 14 dicembre 2014
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