Di Gianluca Marchi
L’Italia deve morire e gli “italiani” crepare con essa.
Non parlo in senso fisico (specifichiamolo subito per chi magari non capisce o
non vuole capire), ma in senso metaforico.
Non ci sono speranze: questo Paese è malato fin dentro le
sue radici e la gente, anche la migliore, ha finito per assuefarsi o ad ammalarsi
con esso. Mi spiace dover contraddire l’amico Salvini, secondo il
quale l’Italia si salva tutta insieme oppure non ce n’è più per nessuno: no,
caro Matteo, questo Stato è marcio e i suoi cittadini (molti di noi compresi)
sono marciti con esso. Non abbiamo più anima, abbiamo perso ogni dignità,
cerchiamo di sopravvivere italianamente sperando di poterci affidare al solito
stellone, che invece è morto e sepolto da tempo. Nutriamo rigurgiti di speranza
nel salvatore di turno della patria, ma è solo un modo per continuare a
rimandare nel tempo la presa di coscienza di quel che siamo diventati: una
cloaca maxima.
Sono forse stato morso dalla tarantola della negatività?
No, la mia è una convinzione che matura da tempo e che i fatti di questi
anni, di questi mesi e degli ultimi giorni non fanno che confermare. Oggi
scopriamo il “cupolone mafioso” che ha messo le mani sulla “capitale corrotta
del paese infetto”, con un un intreccio inestricabile fra politica (nera e
rossa, non fa più nemmeno differenza), imprenditoria e criminalità, ma non
pensiamo affatto di cavarcela convincendoci sia solo un problema di
Roma. Quel che abbiamo appreso essere successo – e chissà quant’altro mai
conosceremo – intorno all’Expo milanese e al Mose veneto ci dice che nemmeno
noi “padani” possiamo più vantare una presunta diversità. E sarebbe troppo
comodo liquidare il problema sostenendo che la colpa è della politica, dove
sono tutti uguali e corrotti. E no, miei cari, questa politica è l’espressione
di gran parte di noi stessi: magari pubblicamente facciamo finta di indignarci,
ma poi, davanti a una necessità personale, corriamo dal primo onorevole o
consigliere regionale che conosciamo, o anche da un semplice consigliere di
circoscrizione e, assicurando voto eterno, e magari qualcosa di più,
imploriamo che ci risolva un certo problema o interceda a nostro
favore. Questo è il “sistema italico” e ci siamo finiti dentro tutti fino al
collo, coscienti o incoscienti che si sia stati in tale precipizio.
Oggi un’amica romana, commentando sconsolata quel che
emerge nella sua città, concludeva il suo amareggiato ragionamento dicendo
“ora confidiamo in Pignatone”, inteso come Giuseppe Pignatone, il procuratore
capo della Repubblica capitolina che ieri si è presentato in prima persona alla
stampa per raccontare la “cupola mafiosa” che stanno scoperchiando, annunciando
che “non è finita qui”. Ma un magistrato non può essere la soluzione alla
cloaca Italia. Lo abbiamo già sperimentato vent’anni fa e non lo furono, la
soluzione, nemmeno Borrelli e il magistrati di Mani Pulite: chiusa la loro
parentesi, tutto è ripreso come prima, anzi peggio di prima.
L’Italia è malata terminale e puzza di decomposizione non
perché lo dicono i pochi indipendentisti rimasti, che vorrebbero andarsene
ma non riescono nemmeno a mettersi d’accordo su come procedere. Lo confermano
le statistiche di ieri che ci danno come Paese più corrotto dell’Europa
occidentale e non solo, e lo ribadiscono gli investitori e gli imprenditori
stranieri che hanno ripreso a impegnarsi in Spagna, in Portogallo e forse
persino in Grecia, ma non Italia perché qui vedono solo sporco e nessun
segnale di cambiamento. Anzi.
All’inizio degli anni Novanta molti di noi, con le
provenienze politiche più diverse, trovammo un motivo di speranza nel progetto
della Lega Nord di disarticolare il “sistema Italia”, di buttarlo a mare per
costruire qualcosa di nuovo. Poi Bossi ha portato la Lega dentro il sistema
marcio, rinunciando ad abbatterlo e le cose sono andate come sappiamo. Oggi mi
convinco che se quel sistema non crepa, nulla di buono ci sarà più per nessuno.
Fonte: visto su MIGLIOVERDE del 5 dicembre 2014
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