Uccisi dal fisco.
Mentre il 10% delle imprese italiane ogni anno chiude i battenti, uno studio di
Assolombarda, Prometeia insieme all’Osservatorio Bocconi mette a nudo la
pressione fiscale in Italia, che non è quella ufficiale che si aggira intorno
al 50%, almeno non per tutti, ma quella che in alcuni settori e per alcune
aziende, quelle manifatturiere in primis, raggiunge
quota 90%.
Nei conti ufficiali infatti, la pressione fiscale per le
famiglie si attesta al 49,5% (ma anche in questo caso bisognerebbe prendere una
famiglia media e mettersi a fare i calcoli reali di un anno per capire
esattamente quanto si paga). Nelle
aziende invece, se si passano al setaccio i redditi ante imposte, si scopre che
il peso del fisco complessivamente è un macigno che uccide.
Lo ha fatto un imprenditore milanese, l’ingegner Fabrizio Castoldi, presidente della Bcs
Group, all’interno della sua impresa che ad Abbiategrasso produce macchine
agricole. Nonostante questo però, il bilancio del fisco – seppure –
positivo – presenta una riduzione netta delle entrate fiscali. Colpa della
crisi? O colpa del socio occulto Stato che pretende di far cassa aumentando le
tasse fingendo di non capire che più spreme e meno riceve?
Il 50% allo Stato, ma senza risorse restano le briciole – La
pressione fiscale per oltre la metà delle società italiane si attesta oltre il
50%.
Per il 10% di queste imprese è addirittura superiore al
100%.
Incrociando i dati con le statistiche nazionali i conti
tornano: il 10% delle aziende italiane muore ogni anno.
Di più, nei giorni scorsi uno studio di Bankitalia ha messo
in luce come la ricchezza degli italiani sia in veloce e inesorabile discesa.
Secondo i dati di Via Nazionale infatti, solo lo scorso anno la ricchezza netta
complessiva è diminuita rispetto all’anno precedente, in termini reali,
dell’1,7%.
Dalla fine del 2007 (ovvero dall’inizio della crisi) la
perdita di ricchezza ha raggiunto quota 8%. E se si guarda ai dati preliminari,
nel primo semestre del 2014 la ricchezza media sarebbe ulteriormente diminuita
dell’1,2% rispetto allo scorso dicembre. Insomma, benché lo stato faccia cassa
con l’aumento delle tasse, l’effetto che si ottiene non è solo quello di
impoverire ulteriormente gli italiani, ma di incassare comunque di meno per
effetto della riduzione drastica della “base imponibile”: la ricchezza,
appunto.
L’imprenditore che si
accorse di lavorare solo per il fisco – Ma il dato più eclatante, la vera
vergogna italiana, arriva dallo studio dell’ingegner Castoldi.
Il presidente della Bcs Group, una società con 700
dipendenti e oltre 100 milioni di fatturato, che produce macchine agricole con
tre impianti in Lombardia ed Emilia, e filiali in Francia, Germania, Spagna,
Portogallo, Cina e India.
Un paio di anni fa propose ad Assolombarda di creare un
gruppo di lavoro per studiare l’impatto delle economie asiatiche, in
particolare quella cinese, nel settore metalmeccanico.
Da lì la duplice sconvolgente scoperta: la prima è che la
tassazione sulle imprese manifatturiere in Italia arriva abbondantemente al 90%
dell’utile, esclusi gli oneri sociali; la seconda è che la sua società ha
subito negli ultimi 5 anni (in piena recessione) una pressione fiscale media
dell’85%.
Castoldi, raccontando la sua esperienza a Panorama, ha anche
avanzato una proposta, quella di una tassazione unica per tutti. E fa la prova,
sulla sua azienda, per dimostrare quanto salirebbe invece il gettito fiscale
con aliquote più basse.
Con un’aliquota al 30%, spiega l’imprenditore, la sua
azienda aumenterebbe il fatturato del 12% e assumerebbe 60 operai con il
risultato che lo stato incasserebbe 3 milioni e 206mila euro (2milioni e
206mila euro di tasse dall’azienda, 250mila euro dai nuovi assunti e 750mila
euro di risparmio sulla cassa integrazione), contro l’incasso di 2milioni
e 231mila euro con un’aliquota al 70%.
Una bella lezione di economia reale, ma c’è da scommetterci
che il governo farà orecchie da mercante…
Fonte: visto su L’Indipendenza del 21 dicembre 2014
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