Che fare in Iraq e Siria? Che l’Occidente non abbia una
strategia per affrontare il rapido precipitare della guerra irachena e di
quella siriana, ormai unificate, è un fatto reso ancor più evidente dalle
timide e incerte iniziative di europei e statunitensi. Abbiamo rimosso la
guerra dal nostro linguaggio e anche se disponiamo paradossalmente della più
sofisticata tecnologia bellica mai posseduta dall’umanità siamo del tutto
incapaci sul piano politico e sociale di impiegarla per vincere i conflitti.
Questo Occidente non è più neppure in grado di chiamare le guerre col loro
nome. In Iraq e in Siria è in atto un conflitto tra sunniti e sciti che vede lo
Stato Islamico (IS) controllare territori abitati dalla popolazione sunnita
combattere contro eserciti e milizie scite di Baghdad e Damasco. Al
fianco dell’IS vi sono Paesi e ambienti finanziari e politici di Paesi
sunniti quali la Turchia e le monarchie del Golfo. Con le forze regolari
siriane e irachene sono saldamente schierati l’Iran e il movimento scita libanese
Hezbollah .
Perché allora non definire il conflitto in atto una guerra di
religione?
Siamo forse così schiacciati dal peso delle parole e delle convenzioni ipocrite che ci siamo autoimposti negli ultimi 40 anni nel nome della correttezza politica da non riuscire a pronunciarle per paura di dover affrontare la realtà? Dopo 13 anni abbiamo già rimosso tutte le lezioni apprese dall’11 settembre 2001 per paura di dover accettare le conseguenze di una guerra che è inevitabilmente, come lo sono state molte delle più grandi e lunghe guerre dell’umanità, uno scontro di civiltà. Inutile fingere di meravigliarsi. La guerra di religione, lo scontro tra sunniti e sciti, era un obiettivo dichiarato di Osama bin Laden e di Musayb al-Zarqawi, leader di al-Qaeda in Mesopotamia, organizzazione jihadista che ha poi originato l’ISIS e oggi lo Stato Islamico. Anche l’eliminazione fisica delle minoranze come cristiani e yazidi rientra da sempre nei programmi pubblicamente annunciati dai jihadisti e del resto le violenze contro i cristiani in Iraq (e in tutto il mondo sunnita) e il loro esodo da Mosul non sono certo cominciati il mese scorso.
Così come non sono certo iniziate con l’uccisione di James Foley le
barbare esecuzioni di ostaggi occidentali da parte di militanti islamici. Ne
abbiamo visti tanti di video del genere negli anni scorsi ma li abbiamo rimossi
imponendoci di credere che fossero la risposta “all’imperialismo di George
Bush” invece che una dimostrazione di odio, un atto di guerra nei confronti
nostri e della nostra civiltà. Che l’Islam sia un problema per il mondo intero
è sotto gli occhi di tutti, soprattutto perché se gli estremisti si fanno
notare molto bene, i cosiddetti “moderati” sembrano avere voce flebile.
Eppure, come ha evidenziato Massimo
Introvigne sulla Nuova Bussola Quotidiana,
l’Occidente è pieno di studiosi dell’Islam pronti a sostenere
interpretazioni buoniste e introspettive della parola “jihad”.
L’Europa finge di accorgersi solo oggi che ci sono islamici che
sterminano cristiani per non dover fare i conti con la sua coscienza e con il
dovere di armarli o difenderli con le sue potenti, deboli armi: potenzialmente
devastanti e tecnologicamente avanzate ma inutili perché non abbiamo il
coraggio di impiegarle né soprattutto ideali per i quali riteniamo necessario
combattere.
Abbiamo perso a tal punto ogni senso d’appartenenza nazionale e
culturale da non trovare un solo motivo, valore o interesse per cui valga
la pena fare una guerra? Se è così l’IS ha già vinto perché i suoi miliziani
(che sono sempre di più anche in Europa) sono pronti a uccidere e morire per la
loro causa. Sarebbe sufficiente leggere, sempre sulla
NBQ, l’analisi di Luigi Santambrogio sui
jihadisti in Europa per comprendere che dobbiamo svegliarci e anche in fretta.
Come ha sottolineato sabato Edward Luttwak in un’intervista a Il
Giornale, l’opinione pubblica in Italia e in Europa si è mobilitata per i
civili palestinesi di Gaza ma non si è contata neppure una manifestazione per i
cristiani iracheni. Merito certo di decenni di cultura terzomondista e di
relativismo culturale ma anche un sintomo evidente di come le leadership e i
popoli occidentali non abbiano neppure la percezione di quali siano gli
interessi strategici da difendere.
Certo gli Stati Uniti possono avere molti
vantaggi a “giocare sporco” anche in questa crisi per favorire il caos nelle
aree energetiche nel momento in cui si avviano diventare il più grande
esportatore di gas e petrolio. Ma noi europei di quel gas e petrolio in Medio
Oriente e Nord Africa abbiamo e avremo bisogno: non possiamo permetterci di non
avere una strategia, di non combattere o di non scegliere da che parte stare.
Eppure proprio questo stiamo facendo, favorendo l’affermazione dei
jihadisti dalla Libia all’Iraq, come se la questione non ci riguardasse. Per
questo oggi non armiamo i cristiani iracheni e aiutiamo i curdi così
blandamente da risultare ininfluenti, con l’ossessione di non irritare Baghdad
e Ankara che temono un Kurdistan indipendente. Al tempo stesso esitiamo a
mobilitarci contro l’IS per non irritare le monarchie sunnite del Golfo che
hanno investito centinaia di miliardi di dollari in Europa e oggi influenzano
in modo sempre più imbarazzante la nostra politica estera.
Fingiamo così di non
sapere che la Turchia, nostro alleato nella NATO, è anche il Paese che ha
ospitato e fornito aiuti alle milizie jihadiste dell’attuale Stato Islamico per
sostenerle nella guerra contro il regime siriano. Cosa che abbiamo fatto anche
noi europei insieme agli americani ponendoci in antagonismo alla Russia, unico
grande Paese rimasto a difendere la cristianità e i valori occidentali contro
l’islamismo.
Meno di un anno or sono Washington e alcuni alleati europei erano
pronti a bombardare Damasco per abbattere Bashar Assad come avevano abbattuto
Muammar Gheddafi spianando la strada ai jihadisti. Oggi in Libia qaedisti e
Fratelli Musulmani stanno vincendo grazie anche al disinteresse dell’Europa e
dell’Italia mentre in Siria rifiutiamo di riconoscere i nostri errori ma
saremo costretti ad aiutare Assad a combattere l’IS. Non perché il regime
siriano sia composto da cherubini ma semplicemente perché è nei nostri
interessi farlo e perché in Medio Oriente e Africa ci conviene fare i conti con
regimi laici, anche se non del tutto simili alla democrazia svizzera, piuttosto
che con Emirati e Califfati che decapitano e torturano gli infedeli.
Nella storia il pragmatismo ha sempre indotto gli Stati a modificare
alleanze e schieramenti, sport in cui l’Italia è stata “maestra” nei due
conflitti mondiali fino al tradimento del Trattato di amicizia con Gheddafi nel
2011. Basti ricordare che la Seconda guerra mondiale iniziò nel 1939 con i
sovietici che si spartivano la Polonia con gli alleati tedeschi e termino con
l’Armata Rossa che occupava Berlino. Allora però c’erano statisti a guidare le
nazioni non gli improvvisati di esile spessore che guidano oggi le cancellerie
europee.
Il realismo militare impone di valutare che solo i curdi e le truppe
siriane sono in grado di fermare lo Stato Islamico.
L’esercito iracheno è allo sbando, non regge il campo di battaglia
mentre nessun Paese occidentale sembra intenzionato a mandare i suoi soldati a
combattere i jihadisti. Come hanno sottolineato esponenti militari a Londra e
Washington la guerra non si vince se non si combattono le forze di Abu Bakr
al-Baghdadi anche in Siria.
“L’IS deve essere sconfitto in Iraq e in Siria
prima che si espanda in tutta la regione”, ha detto Lord Dannatt ex capo di stato
maggiore dell’esercito britannico. Infatti la gran parte dei mezzi pesanti
catturati dai jihadisti falle truppe irachene sono stati portati nelle basi in
Siria strappate all’esercito di Assad, al riparo dai cacciabombardieri
americani. In questi giorni jet americani, iracheni e siriani hanno bombardato
le milizie dell’IS ma lo hanno fatto in ordine sparso, senza coordinamento e in
settori diversi esercitando così una pressione limitata sui jihadisti. Abu Bakr
al-Baghdadi ringrazia.
Foto: Reuters, ISW, Stato Islamico
Fonte: visto su ANALISI E DIFESA del 28 agosto 2014
Link: http://www.analisidifesa.it/2014/08/nessuno-lo-dice-ma-in-iraq-ve-siria-e-guerra-di-religione/
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