Un mio illustre collega storico ripete da anni, in
pubblico e in privato, che ai propri figli, come viatico per comprendere la
vita, e la sua durezza certamente, farà leggere le ultime lettere dei
condannati a morte della resistenza italiana. Ora che l’indipendenza per alcuni
si avvicina e dunque sarà possibile rileggere la storia italiana con maggior
equilibrio, sarebbe da suggerire magari anche la lettura delle ultime lettere
dei condannati a morte dalla resistenza italiana, che di morti innocenti anche
i vincitori, si sa, riempirono le fosse (e la Storia), almeno quando ebbero
cura di seppellirli.
Ma forse sarebbe il caso di far leggere — a grandi e
piccini — le lettere dei condannati a morte della prima grande dittatura
democratica che il mondo abbia per sua sciagura conosciuto, quella del terrore
giacobino. L’occasione viene dall’imminente ricorrenza dei trent’anni dalla
pubblicazione di un lancinante libro di Olivier Blanc, “La dernière lettre”,
appunto, che, uscito in Francia nel 1984, fu prontamente tradotto in italiano
da SugarCo nel 1985, “L’ultima lettera. Le prigioni della Rivoluzione francese
e le ultime lettere dei condannati a morte durante il Terrore”.
Ora, purtroppo il libro si trova solo di seconda mano. Di
Blanc vi è in commercio, almeno in italiano, un solo titolo, “Parigi
libertina al tempo di Luigi XVI” (Sellerio 2003), che, come si capisce subito,
è di argomento assai più neutrale, ed anzi tendenzialmente contrario (nel vago
delle presumibili intenzioni) rispetto a quelle opere di Blanc che hanno
anticipato la decisa demolizione, e messa a nudo, dell’immane macchina di
terrore che trasformò la Francia nel prototipo di ogni dittatura contemporanea
prima e parzialmente anche dopo Termidoro, e la fine dei Robespierre. Blanc è
storico prolifico, che anticipa qui di cinque anni — siamo nel 1984 — il deciso
revisionismo che accompagnò, sempre tenuto ai margini dall’ufficialità, le
celebrazioni nefaste del 1989. Storico prolifico, ma naturalmente fuori del
circuito accademico francese, un circuito vizioso molto attento a non includere
nei ranghi professorali critici della magnifica rivoluzione, ancorché moderati
alla fine, rispetto ad altri, come Blanc stesso.
Il libro di Blanc è accompagnato da una prefazione da uno
tra i primi dei servi accademici della grandeur rivoluzionaria, Michel
Vovelle, che cerca di disinnescare la potenziale bomba di un volume che mette
in chiara luce la mostruosità dell’apparato coercitivo e ladresco della
Convenzione, parlando di “commozione dinanzi ai sentimenti dei nostri antenati
davanti alla morte”, con condiscendenza tutta accademica. Ma insigne
Professore, quei morti, che anche lei colloca tra i “colpevoli di delitti
economici” — ovvero persone disperatamente attente a salvare la proprietà avita
dagli espropri selvaggi di una banda di criminali divenuti burocrati e politici
di Stato, i veri antenati di coloro che in Italia e Francia oggi detengono il
potere, con la medesima disperata avidità — non volevano proprio morire, erano
condannati per supposta o reale esportazione di capitali (che altrimenti
avrebbero loro espropriato), oltreché per essere monarchici o moderati, cosa
che l’insigne professore vede naturalmente come una colpa. Ancestrale.
E dunque forse, diciamo così, per solleticare la
sofisticata storiografia francese di regime, sarebbe utile per qualche suo
allievo analizzarne, poniamo il caso, l’odore: quello della paura prima di
salire sul patibolo, degli escrementi nei pantaloni per coloro che erano preda
della paura, di piscio e sudore, quando accompagnati al patibolo, e le urla
delle crisi isteriche, le lacrime, ad esempio. Quando penso a persone (forse,
per dir così, “persone”) come questo celeberrimo professore, rifletto sempre su
una cosa, che ho da sempre ben chiara: sempre meglio essere l’ultimo degli
uomini liberi, che il primo dei servi.
Un libro agghiacciante: che racconta come dalla legge dei
sospetti del 17 settembre 1793 la Francia sia stata stretta in una morsa
mostruosa, con arresti a catena, suicidi, strazianti tentativi di suicidio,
ingerendo chiodi, anche solo per salvare il poco rimasto (se ci si suicidava
prima della condanna, i beni di solito rimaneva ai discendenti), prigioni
trasformate in luoghi alla Sade, con uso diffuso di oppio per perdere coscienza
dell’orrore, un orrore che forse neanche Sade con tutta la sua “innocenza
selvaggia” poteva immaginare. La festa della forca, con ghigliottine sempre più
attive, con vere e proprie stragi inenarrabili, con il contorno di finte
ribellioni in carcere — per cercare di far fuori perfino prima del processo il
numero più alto di nobili, moderati, o anche solo dissidenti vagamente
identificabili, ma con qualche bene da nazionalizzare, ovvero far piovere nelle
tasche dei deputati della Convenzione e di avvocati ladroni — ed una atmosfera
tale da far apparire, il che è tutto dire, prima il Direttorio poi addirittura
Napoleone come veri liberatori, come una boccata d’aria fresca.
Leggendo le lettere si nota una immensa dignità, di
fronte alla morte, un legame verso la famiglia e la religione di francesi
da sempre cattolici, una volontà di lasciare di sé il miglior ricordo. Lo Stato
giacobino è lo stato alla massima potenza, ovvero lo squallore l’avidità e
l’invidia sociale e la rabbia allo stato puro, il peggio che l’umanità possa
dare. Vi compaiono carcerieri e aguzzini, come in un sabba infernale, avvocati
pronti a pelare vivi i clienti già condannati alla ghigliottina, la caccia ai
sospettati, e perfino a coloro che erano “sospettati di essere sospettati”. La
pagina più vergognosa della storia di Francia, che fa apparire la notte di San
Bartolomeo come una scampagnata e perfino Vichy come qualcosa di tollerabile.
Il prototipo del Nazismo era nato e aveva brevemente vissuto. Da notare che tra
i nemici pronti ad essere
incarcerati, sommariamente processati, e ghigliottinati, non
v’erano sono aristocratici monarchici, o moderati. Vi erano federalisti,
critici della costituzione, preti, poveracci senza arte né parte arrestati perché
uditi esclamare “merda alla nazione” per le vie di Parigi. Ex generali, ex
rivoluzionari “dalla parte sbagliata”, le cui teste rotolarono nel cesto certe
volte con furore orgiastico, il 19, 21, 22 messidoro 146 teste tagliate, dalla
sola prigione del Luxembourg. Quando finisce tutto questo? Paradossalmente, con
il taglio della testa di un proto-comunista troppo puro per questi sciacalli,
Babeuf: nel maggio 1797. Poi il colpo di stato di Settembre. Poi una requie.
Per fortuna, e per gli equilibri che poi sempre caratterizzano la storia, anche
i carnefici divengono vittime, non solo Robespierre, ma sciacalli indegni come
Fouquier-Tinville prendono congedo dalla loro testa sugli stessi patiboli
grazie ai quali si erano immensamente arricchiti. E così diversi burocrati del
male anticipano la fine di Adolph Eichmann. Nessuna pace all’anima loro!
Nella speranza che sia ristampato, e letto da molti, vedo
il libro di Blanc come un atto di accusa perfetto non solo per il regime
fecale e surreale di cui parla, ma contro ogni regime, che costringe individui
innocenti a scrivere “ultime lettere” prima di salire sul patibolo. La fame di
sangue di cotale Leviatano è tale da far impallidire lo stesso Hobbes, lo
stesso Rousseau avrebbe sconfessato i fanatici assassini che si ammantavano del
suo nome per commettere espropri vergognosamente ingiusti.
E ci si domanda finalmente una cosa: ma perché questo
fanatismo assassino? Non sarebbe stato sufficiente incamerare i beni di
questa povera gente? Ovviamente no. Agli occhi del popolo, la loro colpa,
immensa, di essere anti-giacobini, regalisti, federalisti, moderati, di aver
evaso il fisco, di aver messo al sicuro all’estero i propri beni, doveva
meritare pena ben maggiore, ovvero la vita. Il potere disprezza ufficialmente
il denaro, è fatto di asceti rossi — che qui in Italia conosciamo troppo bene,
comandano loro da sempre con salutari alternanze di figure più vitali e pittoresche
— ma poi in segreto per queste ricchezze spasima, bestia infoiata dall’altrui
proprietà, invidiosa dell’altrui libertà, in poche parole, anzi in una,
immonda.
Dunque a migliaia di infelici toglie al contempo la
borsa, quel che realmente interessa, e la vita, onde l’immagine di questi
poveretti sia per sempre maledetta, onde il popolino comprenda che le loro
immani colpe non si possono di certo scontare con semplici confische, sia pure
di palazzi splendidi, di fondi agricoli, di gioielli e collezioni d’arte.
L’avidità del potere, di queste democrazie, è pari solo allo scorno infinito
dei suoi tenutari, alla loro invidia cieca: potrete tagliare anche la testa al
Re, ma non avrete mai portato sulla vostra testa la sua corona. E poi, per
colmo di disgrazia, anche le vostre teste, mai coronate, finiranno a guardarsi
reciprocamente negli occhi nel cestino. Come prima di morire, del resto, quegli
occhi però saranno sbarrati, gelidi e del tutto privi di vita.
Fonte: visto su L’indipendenza del 24 dicembre 2014
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