Al direttore - Dopo l’articolo “Questo Papa non ci piace”, firmato mercoledì 9 ottobre sul Foglio, siamo stati esautorati dalla conduzione delle trasmissioni che abbiamo condotto per dieci anni su Radio Maria, “Incontri con la bioetica” (Palmaro) e “Uomini e letteratura: incontri alla luce del Vangelo” (Gnocchi).
Ci è stato comunicato con una garbatissima telefonata del
direttore padre Livio Fanzaga, nei confronti del quale non muta la nostra
amicizia. Ma questo non cambia la sostanza dei fatti.
Padre Livio ritiene che non si possa essere conduttori di
Radio Maria e, contemporaneamente, esprimere critiche sul Papa.
Pur non condividendo questa linea editoriale, ne prendiamo
atto rimarcando comunque che le nostre critiche a Papa Francesco non contengono
una sola riga che non si attenga alla dottrina cattolica e non sono state
espresse dai microfoni della Radio.
L’atto compiuto nei nostri confronti risulta dunque
abbastanza raro nell’uso giornalistico sia nella sostanza sia nel metodo
colpendo delle opinioni, discutibili certo ma legittime, espresse su un’altra
testata.
Con questo non possiamo però tacere che, per dieci anni,
abbiamo avuto la possibilità di trattare a Radio Maria in assoluta libertà temi
molto scottanti per merito del suo direttore. Ed è proprio ciò che rende più
amaro questo epilogo, di cui vogliamo dare così notizia anche agli ascoltatori
delle nostre trasmissioni.
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Fonte: visto su IL FOGLIO del 11 ottobre 2013
QUESTO PAPA
NON CI PIACE
Le sue interviste e i suoi gesti sono un campionario di
relativismo morale e religioso, l’attenzione del circuito mediatico-ecclesiale
va alla persona di Bergoglio e non a Pietro. Il passato è rovesciato
Quanto sia costata l’imponente esibizione di povertà di
cui Papa Francesco è stato protagonista il 4 ottobre ad Assisi non è dato
sapere. Certo che, in tempi in cui va così di moda la semplificazione,
viene da dire che la storica giornata abbia avuto ben poco di francescano. Una
partitura ben scritta e ben interpretata, se si vuole, ma priva del quid che ha
reso unico lo spirito di Francesco, il santo: la sorpresa che spiazza il mondo.
Francesco, il Papa, che abbraccia i malati, che si stringe alla folla, che fa
la battuta, che parla a braccio, che sale sulla Panda, che molla i cardinali a
pranzo con le autorità per andare al desco dei poveri era quanto di più
scontato ci si potesse attendere, ed è puntualmente avvenuto.
Naturalmente con gran concorso di stampa cattolica e paracattolica
a esaltare l’umiltà del gesto tirando un sospirone di sollievo perché, questa
volta, il Papa ha parlato dell’incontro con Cristo. E di quella laica a dire
che, adesso sì, la chiesa si mette al passo con i tempi. Tutta roba buona per
il titolista di medio calibro che vuole chiudere in fretta il giornale e domani
si vedrà.
Non c’è stata neanche la sorpresa del gesto clamoroso.
Ma, anche questa, sarebbe stata ben
povera cosa, visto quanto Papa Bergoglio ha detto e fatto in solo mezzo anno di
pontificato culminato negli ammiccamenti con Eugenio Scalfari e nell’intervista
a Civiltà Cattolica.
Gli unici a trovarsi spiazzati, in questo caso, sarebbero
stati i “normalisti”, quei cattolici intenti pateticamente a convincere il
prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è
cambiato. E’ tutto normale e, come al solito, è colpa dei giornali che
travisano a bella posta il Papa, il quale direbbe solo in modo diverso le
stesse verità insegnate dai predecessori.
Per quanto il giornalismo sia il mestiere più antico del
mondo, riesce difficile dare credito a questa tesi. “Santità”, chiede per esempio Scalfari nella sua
intervista, “esiste una visione del Bene unica? E chi la stabilisce?”.
“Ciascuno di noi”, risponde il Papa, “ha una sua visione del Bene e anche del
Male. Noi dobbiamo incitarlo a procedere verso quello che lui pensa sia il
Bene”. “Lei, Santità”, incalza gesuiticamente Eugenio, al quale non pare vero,
“l’aveva già scritto nella lettera che mi indirizzò. La coscienza è autonoma,
aveva detto, e ciascuno deve obbedire alla propria coscienza. Penso che quello
sia uno dei passaggi più coraggiosi detti da un Papa”. “E qui lo ripeto”,
ribadisce il Papa, al quale non pare vero neanche a lui. “Ciascuno ha una sua
idea del Bene e del Male e deve scegliere di seguire il Bene e combattere il
Male come lui li concepisce. Basterebbe questo per migliorare il mondo”.
A Vaticano II già
concluso e a postconcilio più che ben avviato, nel capitolo 32 della “Veritatis
splendor”, Giovanni Paolo II scriveva, contestando “alcune correnti del pensiero moderno”, che “si sono attribuite alla coscienza
individuale le prerogative di un’istanza suprema del giudizio morale, che
decide categoricamente e infallibilmente del bene e del male (…) tanto che si è
giunti a una concezione radicalmente soggettivista del giudizio morale”.
Anche il “normalista” più estroso dovrebbe trovare difficile conciliare il
Bergoglio 2013 con il Wojtyla 1993.
Al cospetto di tale inversione di rotta, i giornali fanno il
loro onesto e scontato lavoro. Riprendono le frasi di Papa Francesco in
evidente contrasto con ciò che i papi e la chiesa hanno sempre insegnato e le
trasformano in titoli da prima pagina. E allora il “normalista”, che dice
sempre e ovunque quello che pensa l’Osservatore Romano, tira in ballo il
contesto. Le frasi estrapolate dal benedetto contesto non rispecchierebbero la
mens di chi le ha pronunciate. Ma, ed è la storia della chiesa che lo insegna,
certe frasi di senso compiuto hanno senso e vanno giudicate a prescindere. Se
in una lunga intervista qualcuno sostiene che “Hitler è stato un benefattore
dell’umanità”, difficilmente potrà cavarsela davanti al mondo invocando il
contesto.
Se un Papa dice in un’intervista “io credo in Dio, non in un
Dio cattolico” la frittata è fatta a prescindere. Sono duemila anni che la
chiesa giudica le affermazioni dottrinali isolandole dal contesto.
Nel 1713, Clemente XI pubblica la costituzione “Unigenitus
Dei Filius” in cui condanna 101 proposizioni del teologo Pasquier Quesnel.
Nel 1864, Pio IX pubblica nel “Sillabo” un elenco di
proposizioni erronee.
Nel 1907, San Pio X allega alla “Pascendi dominici gregis”
65 frasi incompatibili con il cattolicesimo. E sono solo alcuni esempi per dire
che l’errore, quando c’è, si riconosce a occhio nudo. Una ripassatina al
“Denzinger” non farebbe male.
Per altro, nel caso delle interviste di Bergoglio,
l’analisi del contesto può persino peggiorare le cose. Quando, per esempio,
Papa Francesco dice a Scalfari che “il
proselitismo è una solenne sciocchezza”, il “normalista” subito spiega che
si sta parlando del proselitismo aggressivo delle sette sudamericane.
Purtroppo, nell’intervista, Bergoglio dice a Scalfari: “Non voglio convertirla”. Ne scende che, nell’interpretazione
autentica, quando si definisce “solenne sciocchezza” il proselitismo, si
intende il lavoro fatto dalla chiesa per convertire le anime al
cattolicesimo.
Sarebbe difficile interpretare il concetto altrimenti, alla
luce delle nozze tra Vangelo e mondo, che Francesco ha benedetto
nell’intervista alla Civiltà Cattolica.
“Il Vaticano II”, spiega il Papa, “è stato una rilettura del Vangelo alla luce della cultura
contemporanea. Ha prodotto un movimento di rinnovamento che semplicemente viene
dallo stesso Vangelo. I frutti sono enormi. Basta ricordare la liturgia. Il
lavoro della riforma liturgica è stato un servizio al popolo come rilettura del
Vangelo a partire da una situazione storica concreta. Sì, ci sono linee di
ermeneutica di continuità e di discontinuità, tuttavia una cosa è chiara: la
dinamica di lettura del Vangelo attualizzata nell’oggi che è stata propria del
Concilio è assolutamente irreversibile”. Proprio così, non più il mondo
messo in forma alla luce del Vangelo, ma il Vangelo deformato alla luce del
mondo, della cultura contemporanea. E chissà quante volte dovrà avvenire, a
ogni torno di mutamento culturale, ogni volta mettendo in mora la rilettura
precedente: nient’altro che il concilio permanente teorizzato dal gesuita Carlo
Maria Martini.
Su questa scia, si sta alzando sull’orizzonte l’idea di
una nuova chiesa, “l’ospedale da campo” evocato nell’intervista a Civiltà
Cattolica dove pare che i medici fino a ora non abbiano fatto bene il loro
mestiere. “Penso anche alla
situazione di una donna che ha avuto alle spalle un matrimonio fallito nel
quale ha pure abortito”, dice sempre il Papa. “Poi questa donna si è risposata e adesso è serena con cinque figli.
L’aborto le pesa enormemente ed è sinceramente pentita. Vorrebbe andare avanti
nella vita cristiana. Che cosa fa il confessore?”.
Un discorso costruito sapientemente per essere concluso da
una domanda dopo la quale si va capo e si cambia argomento, quasi a
sottolineare l’inabilità della chiesa di rispondere. Un passaggio sconcertante
se si pensa che la chiesa soddisfa da duemila anni tale quesito con una regola
che permette l’assoluzione del peccatore, a patto che sia pentito e si impegni
a non rimanere nel peccato. Eppure, soggiogate dalla straripante personalità di
Papa Bergoglio, legioni di cattolici si sono bevute la favola di un problema
che in realtà non è mai esistito. Tutti lì, con il senso di colpa per duemila
anni di presunte soperchierie ai danni dei poveri peccatori, a ringraziare il
vescovo venuto dalla fine del mondo, non per aver risolto un problema non
c’era, ma per averlo inventato.
L’aspetto inquietante del pensiero sotteso a tali
affermazioni è l’idea di un’alternativa insanabile fra rigore dottrinale e
misericordia: se c’è uno, non può esservi l’altra. Ma la chiesa, da sempre, insegna e vive
esattamente il contrario. Sono la percezione del peccato e il pentimento di
averlo commesso, insieme al proposito di evitarlo in futuro, che rendono
possibile il perdono di Dio. Gesù salva l’adultera dalla lapidazione, la
assolve, ma la congeda dicendo: “Va, e
non peccare più”. Non le dice: “Va, e
sta tranquilla che la mia chiesa non eserciterà alcuna ingerenza spirituale
nella tua vita personale”.
Visto il consenso praticamente unanime nel popolo cattolico
e l’innamoramento del mondo, contro il quale però il Vangelo dovrebbe mettere
in sospetto, verrebbe da dire che sei mesi di Papa Francesco hanno cambiato
un’epoca. In realtà, si assiste al fenomeno di un leader che dice alla folla
proprio quello che la folla vuole sentirsi dire. Ma è innegabile che questo viene
fatto con grande talento e grande mestiere. La comunicazione con il popolo, che
è diventato popolo di Dio dove di fatto non c’è più distinzione tra credenti e
non credenti, è solo in piccolissima parte diretta e spontanea.
Persino i bagni di folla in piazza San Pietro, alla
Giornata mondiale della gioventù, a Lampedusa o ad Assisi sono filtrati dai
mezzi di comunicazione che si incaricano di fornire gli avvenimenti unitamente
alla loro interpretazione.
Il fenomeno Francesco non si sottrae alla regola fondamentale
del gioco mediatico, ma, anzi, se ne serve quasi a diventarne connaturale. Il
meccanismo fu definito con grande efficacia all’inizio degli anni Ottanta da
Mario Alighiero Manacorda in un godibile libretto dal godibilissimo titolo “Il linguaggio televisivo. O la folle
anadiplosi”.
L’anadiplosi è una figura retorica che, come avviene in
questa riga, fa iniziare una frase con il termine principale contenuto nella
frase precedente. Tale artificio retorico, secondo Manacorda, è divenuto
l’essenza del linguaggio mediatico. “Questi
modi puramente formali, superflui, inutili e incomprensibili quanto alla
sostanza” diceva “inducono
l’ascoltatore a seguire la parte formale, cioè la figura retorica, e a
dimenticare la parte sostanziale”.
Con il tempo, la comunicazione di massa ha finito per
sostituire definitivamente l’aspetto formale a quello sostanziale, l’apparenza
alla verità. E lo ha fatto, in particolare, grazie alle figure retoriche della
sineddoche e della metonimia, con le quali si rappresenta una parte per tutto.
La velocità sempre più vertiginosa dell’informazione impone di trascurare
l’insieme e porta a concentrarsi su alcuni particolari scelti con perizia per
dare una lettura del fenomeno complessivo. Sempre più spesso, giornali, tv,
siti internet, riassumono i grandi eventi in un dettaglio.
Da questo punto di vista, sembra che Papa Francesco sia
stato fatto per i mass media e che i mass media siano stati fatti per Papa
Francesco. Basta citare il solo esempio dell’uomo vestito di bianco che
scende la scaletta dell’aereo portando una sdrucita borsa di cuoio nera:
perfetto uso di sineddoche e metonimia insieme. La figura del Papa viene
assorbita da quella borsa nera che ne annulla l’immagine sacrale tramandata nei
secoli per restituirne una completamente nuova e mondana: il Papa, il nuovo
Papa, è tutto in quel particolare che ne esalta la povertà, l’umiltà, la
dedizione, il lavoro, la contemporaneità, la quotidianità, la prossimità a
quanto di più terreno si possa immaginare.
L’effetto finale di tale processo
porta alla collocazione sullo sfondo del concetto impersonale di Papato e la
contemporanea salita alla ribalta della persona che lo incarna. L’effetto è
tanto più dirompente se si osserva che i destinatari del messaggio recepiscono
il significato esattamente opposto: osannano la grande umiltà dell’uomo e
pensano che questi porti lustro al Papato.
Per effetto di sineddoche e metonimia, il passo
successivo consiste nell’identificare la persona del Papa con il Papato: una
parte per il tutto, e Simone ha spodestato Pietro. Questo fenomeno fa sì
che Bergoglio, pur esprimendosi formalmente come dottore privato, trasformi di
fatto qualsiasi suo gesto e qualsiasi sua parola in un atto di magistero. Se
poi si pensa che persino la maggior parte dei cattolici è convinta che quanto
dice il Papa sia solo e sempre infallibile, il gioco è fatto. Per quanto si
possa protestare che una lettera a Scalfari o un’intervista a chicchessia siano
persino meno di un parere da dottore privato, nell’epoca massmediatica, l’effetto
che produrranno sarà incommensurabilmente maggiore a qualsiasi pronunciamento
solenne. Anzi, più il gesto o il discorso saranno formalmente piccoli e
insignificanti, tanto più avranno effetto e saranno considerati come
inattaccabili e incriticabili.
Non a caso la simbologia che sorregge questo fenomeno è
fatta di povere cose quotidiane. La borsa nera portata in mano sull’aereo è
un esempio di scuola. Ma anche quando si parla della croce pettorale,
dell’anello, dell’altare, delle suppellettili sacre o dei paramenti, si parla
del materiale con cui sono fatte e non più di ciò che rappresentano: la materia
informe ha avuto il sopravvento sulla forma.
Di fatto, Gesù non si trova più sulla croce che il Papa
porta al collo perché la gente viene indotta a contemplare il ferro in cui
l’oggetto è stato prodotto. Ancora una volta la parte si mangia il Tutto, che
qui va scritto con la “T” maiuscola. E la “carne
di Cristo” viene cercata altrove e ciascuno finisce per individuare dove
vuole l’olocausto che più gli si confà. In questi giorni a Lampedusa, domani
chissà.
E’ l’esito della saggezza del mondo, che san Paolo bandiva
come stoltezza e che oggi viene usata per rileggere il Vangelo con gli occhi
della tv.
Ma già nel 1969, Marshall McLuhan scriveva a Jacques Maritain:
“Gli ambienti dell’informazione
elettronica, che sono stati completamente eterei, nutrono l’illusione del mondo
come sostanza spirituale. Questo è un ragionevole fac simile del Corpo Mistico,
un’assordante manifestazione dell’anticristo. Dopo tutto, il principe di questo
mondo è un grandissimo ingegnere elettronico”.
Prima o poi ci si dovrà pur risvegliare dal grande sonno
massmediatico e tornare a misurarsi con la realtà. E bisognerà anche
imparare l’umiltà vera, che consiste nel sottomettersi a Qualcuno di più
grande, che si manifesta attraverso leggi immutabili persino dal Vicario di
Cristo. E bisognerà ritrovare il coraggio di dire che un cattolico può solo
sentirsi smarrito davanti a un dialogo in cui ognuno, in omaggio alla pretesa
autonomia della coscienza, venga incitato a proseguire verso una sua personale
visione del bene e del male. Perché Cristo non può essere un’opzione tra le
tante. Almeno per il suo vicario.
di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
(Giornalista e studioso
di letteratura il primo, canonista e docente di Bioetica il secondo, gli autori
sono espressione autorevole del mondo tradizionalista cattolico).
Fonte: visto su IL FOGLIO del 8 ottobre 2013
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