mercoledì 16 luglio 2014

SOPRAVVISSUTO A MAUTHAUSEN. TESTIMONIANZA DI LUCIANO BATTISTON: SONO IL MUMERO 126625, ECCO COSA HO IMPARATO A MAUTHAUSEN


Luciano Battiston


a cura di Alessandro Fantin

Luciano Battiston venne deportato nel Lager di Mauthausen nel febbraio del 1945; all’epoca aveva 21 anni. Fu catturato dalla squadra fascista del Capitano Vettorini durante un rastrellamento nel paese in cui viveva, Fagnigola, nel pordenonese. Dopo la permanenza nelle carceri di Pordenone ed Udine, venne stipato in un treno insieme ad altri suoi compaesani e a molta altra gente costretta a partire con lo stesso convoglio da Trieste.
Giunto a Mauthausen, nell’Austria annessa alla Germania nazista con l’Anschluss del 1938, Luciano subì come tutti i deportati nei lager il drammatico e rapido annientamento della personalità: si vide privato dei propri affetti personali, venne denudato, rasato e condotto a fare la “doccia” con molti altri sconosciuti. Da quel momento non ebbe più né nome, né cognome: si chiamò 126625. Venne condotto nei blocchi di quarantena e successivamente fu destinato ai blocchi liberi e impiegato nel trasporto di macigni di pietra sulla “scala della morte”. Dopo un periodo di tempo indefinito, poiché Luciano non ricorda né date, né giorni, fu inviato ai blocchi addetti alla manutenzione del campo.
Qui conobbe, come dice lui, “quel chel ma salvà”: Luigi Bilus, detto Vigi. L’amicizia con Vigi sarà l’unico contatto “umano” nell’universo concentrazionario di Mauthausen. Essi divisero ogni attimo della loro prigionia fatta di botte e qualche momento di sincera e profonda solidarietà, come l’episodio della divisione dei formaggini trovati in una buca da un gruppo di prigionieri russi. Luciano e Vigi fecero un patto: “O casa tutti e do o dentro tutti e do” e cioè “o ritorniamo alle nostre case tutti e due o rimaniamo nel lager assieme”(1). I due amici  furono in seguito trasferiti in due sottocampi di Mauthausen: Amstetten ed Ebensee.
La liberazione avvenne grazie ad una rivolta dei prigionieri russi del campo di Ebensee, quando ormai le SS erano quasi tutte fuggite per l’avvicinarsi delle truppe statunitensi. Il ritorno alle proprie case fu quanto mai rocambolesco. Fu la loro forza di volontà a sorreggerli durante il lungo tragitto, poiché Ebensee da Pordenone dista 300 chilometri; i due deportati arrivarono a destinazione a piedi con i loro corpi ormai molto deperiti, tanto da necessitare di cure ospedaliere adeguate. Luciano pesava 28 chilogrammi! Dopo un anno di convalescenza, ricominciò a vivere.

La testimonianza di Luciano, mio nonno, è stata resa nel corso di varie interviste fatte in più sedute durante il mese di luglio 2006, davanti ad un piccolo registratore. I colloqui si sono svolti nella sua casa a Chions. Nella redazione del testo mi sono avvalso del metodo adottato da Nuto Revelli(2) nelle sue raccolte di fonti orali, dando un ordine cronologico al racconto, tagliando i rami secchi, le ripetizioni, i discorsi incerti o inconcludenti, traducendo e trascrivendo in italiano la narrazione che Luciano aveva fatto in dialetto. Luciano, per raccontare la sua vita e le sue vicissitudini, attinge a dei modelli narrativi caratteristici della cultura in cui è cresciuto e che ha contribuito a formarlo.

Ho individuato nel suo racconto alcuni temi ricorrenti che intrecciandosi danno un’immagine di come egli vede la propria vita. In primo luogo risulta particolarmente importante il tema della sopravvivenza: Luciano racconta che già dalla nascita la sua vita è stata in pericolo, la difficoltà nel venire alla luce è vista come una prima prova che dovrà superare; il problema della sopravvivenza, del riuscire a scampare alla morte è presente anche successivamente. La condanna a morte e soprattutto la deportazione nel lager sono ricordi dove il tema della “sopravvivenza” assumerà un’importanza centrale. In ogni momento del racconto, Luciano sottolinea sempre il fatto di essere riuscito a cavarsela, di essere riuscito a non abbattersi e alla fine di essere riuscito a non soccombere alle avversità.

Il tema dell’aiuto e del conforto spirituale è un altro riferimento importante nel racconto; “qualcuno ti aiuta” rimanda alla fondamentale figura di Vigi che, come afferma Luciano, “lè quel che el mà portà casa”, quello che lo ha riportato a casa. Nel racconto Vigi è una sorta di angelo custode. La deportazione, il viaggio di ritorno e le successive esperienze migratorie, che in questa sede omettiamo, permettono a Luciano di sviluppare con frequenza nel suo racconto non solo l’importanza delle “voci”, del “sentito dire” - motivo di speranza e di resistenza nei momenti più difficili durante la sua permanenza a Mauthausen in attesa della liberazione - ma anche il tema del viaggio, un motivo che lo accompagna, dall’adolescenza fino all’età matura. Le peripezie che il protagonista deve superare durante il rientro dal campo di concentramento - una sorta di “odissea” - costituiscono dunque delle prove da superare per poter sopravvivere.

LA TESTIMONIANZA

Sono stato tre o quattro giorni di nuovo insieme con gli altri ed è venuta la spedizione perché sono stato condannato a morte insieme ad altri tre da Fagnigola, che ti faccio i nomi: io, Camillo Bertolla, Luigi Bilus, Elio Mascherin. Ci hanno caricati in una tradotta. Ma non assieme. Io ero da solo con Burei su un vagone, gli altri su un’altra tradotta che veniva da altri paesi. Lì hanno finito di caricarla: ci hanno messo quaranta dentro su un vagone da bestiame sigillato senza aria e senza luce siamo partiti per la Germania. Ci hanno detto che partivamo per la Germania. Sulle prigioni dicevano che quelli che erano sulle spedizioni in Germania... dicevano che li mandavano a lavorare sui campi, sulle industrie, e siamo partiti anche volentieri perché speravamo di aver finito la prigionia in Italia. Strada facendo a Dogna c’è stato un bombardamento e il nostro treno si è fermato nella galleria, però non ha spento la locomotiva e il fumo è entrato nel vagone e abbiamo dovuto distenderci per terra perché sennò il fumo ci asfissiava e morivamo. Passato il bombardamento siamo partiti per la Germania. Dentro, insieme con me sul mio vagone c’era una persona, non so neanche da che provincia fosse e ci ha detto: “Guardate ragazzi siamo su una brutta strada questo treno porta a Mauthausen”. Non so come avesse saputo di Mauthausen, lo avrà letto da qualche parte, si vede che ha letto dei libri. Ci ha detto di rassegnarci che in Italia non saremo più tornati. Ci ha detto: “Io dentro nel campo non ci entro”. Difatti arrivati a Mauthausen, senza mangiare e senza bere, senza niente, siamo arrivati verso le cinque e mezza della sera... lui, quando hanno aperto le porte del treno, si è buttato con la testa sulle rotaie del treno e si è ucciso da solo, si è suicidato.

Noi abbracciati cinque per cinque siamo entrati nel campo e ci hanno portati in una piazza dentro il campo, là ci hanno detto che se avevamo qualcosa da mangiare o personale di raggrupparle una sull’altra perché ci avrebbero spogliato di tutto. Difatti hanno fatto un appello, che per la strada dei vagoni avevano ricevuto cibo dalle donne perché a Udine sapevano quando arrivavano le tradotte che andavano in Germania e con il mangiare passavano a quelli chiusi nei vagoni dei ferri per aprire i vagoni e scappare. Difatti ci siamo accorti che mancava parecchia gente quando avevano fatto l’appello. Però noi da Fagnigola siamo entrati tutti e cinque là. A gruppi di venti man mano che veniva fatto l’appello ci hanno portato a fare la doccia. Allora, ogni venti persone ci hanno spogliati e lì prima hanno fatto uscire l’acqua calda, bollente, proprio calda, e tutt’a un tratto hanno fatto uscire acqua fredda, gelata: abbiamo avuto una momentanea perdita dei sensi. Dopo qualche minuto, cinque minuti che eravamo lì o dieci che non so perché io dal momento in cui sono stato condannato a morte ho perso la cognizione del tempo, ho perso i giorni, le date... io ero alla disperazione. In velocità ci hanno dato il vestito della zebra, quello là, e in velocità dovevamo vestirci e attraversare tutto il campo e siamo arrivati, e io sono partito con il mio vestito sotto il braccio, nudo, ho attraversato tutto il campo dove c’erano quaranta centimetri di ghiaccio e tutta  acqua perché c’era un blocco di neve e ghiaccio. Ho fatto duecento metri nudo e ci hanno portato al blocco, tutta la tradotta al blocco 22. Là abbiamo passato la notte.

Alla mattina quando hanno suonato la sveglia è arrivato un italiano che era dentro il blocco 2, che si chiamava Pinto di cognome, un triestino. Era lui che non so da quanto era dentro, era dentro il campo, non so se fosse un prigioniero. Si è seduto su un tavolino ed uno alla volta ci diceva venite avanti... avanti uno... avanti un altro e ognuno doveva dargli nome, cognome, mestiere che facevi, lui ti dava il numero di matricola, non esisteva più il nome Battiston Luciano, ma 126625. Dopo passavi avanti da lì, c’era il barbiere: nudi e ti rasavano dalla testa ai piedi e con il rasoio ci facevano una croce sulla testa, era il simbolo che se per caso scappavi sapevano che tu provenivi da Mauthausen. Rasati con la croce fatta con il rasoio della profondità di 3-4 cm. C’erano prigionieri che ti rasavano sempre, perché quando ad una certa ora, all’incirca mezzanotte, venivano a fare il controllo dei pidocchi. Allora dovevi andare su un sgabello, alzare il didietro, in mezzo alle gambe, dappertutto... se per loro in un periodo avevi aumentato i capelli o la barba o i peli del corpo ti passavano dal barbiere e ti rasavano. La croce qua era sempre lucida, rapata al massimo, tutti indistintamente, non ce n’era uno senza la croce. Io non ho mai visto che trovavano pidocchi a qualcuno, io non lo so se li disinfettavano o li mandavano via... passavi su questo scalino, ma la maggior parte delle volte era per non farti dormire, per tenerti in movimento, per non farti riposare, era solo di eliminarti. Non tutte le notti ma a Mauthausen un giorno sì ed un giorno no ti controllavano, dovevi aprire la tuta per vedere se ti era cresciuto il pelo e in tal caso dovevi passare dal barbiere con il rasoio. Mi hanno dato un numero di matricola 126625, era come un braccialetto, come una targa di latta con un filo di ferro che dovevamo metterla sul polso sinistro e sul vestito dalla parte sinistra del cuore e sulla parte alta dei pantaloni dovevamo mettere il nostro numero. Avevo un tondo rosso: “Uomo pericoloso”, io non lo ero, ma per loro... con quello che... è per quello che io ho avuto tutti questi inconvenienti, perché mi hanno classificato dentro il campo uomo pericoloso.

Ora non ci chiamavano più per nome ma per numero, ho fatto cinque giorni al blocco 22, là si dormiva testa-coda. Ho da dire come? La capienza della baracca era di 1.000 persone, la parete era rettangolare. Dalla parte più stretta ci mettevano contro la parete e ci contavano, se avevamo il numero giusto sennò non si stava dentro la baracca. A due metri un’altra fila... ci buttavamo a coltello, in modo che eravamo testa e coda e lì dovevamo dormire tutta la notte. Avevamo i piedi di uno e la testa di un altro. Insomma testa e coda. La baracca era divisa in due settori: Stube A e Stube B, io ero in Stube A.. Alla sera quando ci mettevano a dormire, tutti quanti volevano entrare per primi perché volevano dormire contro la parete, contro il muro della baracca, perché sulla porta della Stube A e Stube B c’era un kapò, lì, che ci faceva la guardia di notte perché doveva esserci un silenzio di tomba. Ma siccome che dentro qualcuno aveva fame e cominciava a fare dei gesti non buoni, se si faceva qualche movimento e uno diceva “ahi”, il kapò partiva sopra di noi di corsa gridando: “RUHE!”, e con due frustini con un piombino faceva tre giri sopra di noi pestandoci dove capitava, testa piedi, dove lui... insomma faceva tre giri, ma essendo sotto muro questo di notte lo si evitava.

Quando c’era un bel silenzio, si aveva bisogno di acqua allora si domandava, si alzava la mano per andare al bagno si diceva “ABORT”. Se il kapò acconsentiva, pian piano, facendosi strada sugli altri, si andava sui gabinetti che tra la Stube A e Stube B c’era una riga di lavandini e water che secondo loro dovevamo lavarci il viso ed andare in gabinetto. Siccome acqua non ce ne hanno mai data e neanche da lavarsi il viso, allora si tirava l’acqua dei water e lì seduti con le mani sotto le gambe prendevamo l’acqua che usciva dal water che era pieno di escrementi e ci si lavava il viso e si beveva l’acqua. Si tornava dentro e si passava la notte.

Lì ho fatto una decina di giorni, dopo questo fanno un altro appello e mi passano al blocco 17. Alla mattina alla sveglia del blocco 17 ci hanno fatto un altro appello. Assieme con altra gente ci hanno portato alla scale della morte. Non so se per loro era un debito della condanna o non so perché, perché per tutto quello che ho patito ho ancora da sapere perché mi hanno condannato, e che sono stato preso... ci hanno portati fuori del campo dov’è la scala della morte. Allora con uno zaino fatto a mo’ di piccola sedia, legati con una catenella di un metro uno dietro l’altro, una decina di noi dovevamo andare giù lì dov’erano la cave di pietra, andar giù per 186 scalini. Là c’era chi ci caricava una pietra, una roccia a ciascuno e dovevamo salire la scala; 186 scalini ma la scala non aveva i scalini fissati con il cemento, erano messi bene ma dovevamo mettere i piedi in modo che le scarpe fossero messe contro la parte interna dello scalino sennò veniva giù lo scalino e cadendo, cadevamo tutti e dieci essendo legati. Io per fortuna i primi giorni ero ancora con una certa forza e per la grandezza ero sempre il primo della squadra e pian piano ordinando il passo di andar su ho fatto 12 giorni. Ho fatto 12 discese e 12 salite. Siamo sempre arrivati tutti assieme. Se si cadeva durante il tragitto degli scalini ci davano il colpo di grazia e lì sotto la scala c’è un laghetto di acqua che saranno cento metri quadri di acqua e quell’acqua lì è in corrispondenza con il Danubio che se i corpi entravano nel lago la pressione dell’acqua lì portava giù per il Danubio. Quindi non serviva che spendessero per il crematorio, perché tutto quello che succedeva fuori dal campo dovevamo portarli dentro. Quelli che erano in coda alla colonna dovevano prendere i morti i feriti e portarli dentro perché non si lasciava niente per la strada, lì li passavano al crematorio. Ho fatto 12 giorni lì, dopo sono passato al blocco n.3.

Al blocco n. 3 sono stato quindi mandato ai blocchi liberi perché il blocco n. 3 faceva la manutenzione del campo e lì ho trovato uno da Fagnigola: Luigi Belus soprannominato Vigi, che preferisco chiamarlo sempre per Vigi perché è quello che mi ha riportato a casa. Allora lì cercavamo di essere attaccati l’un con l’altro. A squadre di dieci, quindici, venti di noi andavamo a fare dei lavori dentro il campo. Il primo lavoro fuori dal campo, soprannominato il “kartoffenmitterbanu”(3), si doveva andare a colmare delle buche dove avevano fatto un deposito di patate in modo che, siccome c’è tanto freddo, facevano uno scavo di due metri per due metri sulla terra e mettevano uno strato di paglia poi uno di patate e via dicendo. Però quando erano finite le patate si doveva colmare le buche appianando così la terra. Allora noi si andava giù a spianare la terra e lì quello che si trovava, codini di patate o di bietole, era il pranzo di mezzogiorno. Alla sera si ritornava dentro in baracca con lo stesso sistema di dormire e di mangiare.

Il mangiare alla mattina era un po’ di... loro dicevano che era il caffé ma era un po’ di acqua torbida che non so nemmeno descrivere che gusto che aveva. Lì si arrivava alla sera. Alla sera si rientrava nel campo, un’altra “suppe” con un pezzettino di pane, di quelle forme come quando vedi il pan carrè, tutto nero, e ce lo dividevamo noi in dieci persone, e con un cucchiaino da caffé di margarina. Allora quella era la cena della notte e ci mandavano a dormire.

Lì ho fatto un periodo, perché ho fatto anche altri lavori, da lì ci portavano al frigorifero: siccome che a Mauthausen c’erano tre campi [forni] crematori, ma durante la giornata tutti e tre i crematori non potevano esser sempre accesi perché non c’erano abbastanza morti sufficienti e allora, tramite dei carri trainati da noi, prendevano i morti del campo e tramite uno scivolo e un portone li buttavano giù in una stanza, e io dentro questo stanzone che era detto il frigorifero prendevo i vestiti, li spogliavo e lì mettevo tutti quanti ammucchiati su un carretto con quattro ruote in modo che quando il carretto era pieno aprivano la camera del frigo e dovevo sistemarli con la testa verso sinistra di modo che quando entravano nel forno entravano prima con la testa: passavano il fuoco ed andavano via. Lì ho fatto un periodo, non so quanti giorni perché lì ho perso la... non avevo né più giornate, né niente, ho perso i sensi.

Ho fatto altri lavori... abbiamo pulito le baracche. Tutte le mattine quando si doveva fare la conta io al blocco tre passavo davanti al portone principale e andavamo nella posizione dove la mattina e la sera dovevamo andare. Passando per lì si vedeva dietro la tenda, perché il portone principale per fuori era una porta ma per dentro all’interno c’era un tendone grigio. Tra il portone e la tenda c’era la serratura fatta da un cerchio con un buco in mezzo dove passava un canevaz che mettevano dentro la testa di un cadavere. Quello con il peso del cadavere teneva l’infisso della porta giù di modo che il portone non si aprisse: serviva da serratura. Tutte le sere veniva cambiato con un altro cadavere. Passando e vedendo quello, era talmente triste che pensavamo tutti: “oggi lè lù e doman me tocca mì”, perché sapevamo che quella era la nostra fine insomma. Lo vedevamo solo per la curiosità dicendo o oggi o domani ci potremmo essere noi.

Sempre a Mauthausen verso sera hanno chiamato fuori dalla baracca una cinquantina di noi prigionieri e siamo andati verso la fine del campo dove c’era una baracca con dentro le attrezzature del campo, ci hanno dato un mural 10x10 [ una trave di lunghezza ] e siamo partiti con un mural sopra la testa per ciascuno e in fila siamo partiti di notte. Dovevamo portarli in un certo posto. Nel frattempo, durante il percorso abbiamo trovato un torrente di acqua e dovevamo attraversarlo. Allora, andando dentro l’acqua la corrente ci avrebbe portato via. Noi non eravamo fisicamente capaci di opporsi alla forza della corrente. Allora io e il mio amico Vigi, che eravamo sempre in testa alla colonna sperando sempre di avere una aggiunta di mangiare, abbiamo pensato una cosa: se andavamo dentro il canale non era facile salvarsi. Abbiamo conficcato la punta della trave sul fondo del torrente, abbiamo preso la rincorsa e con la punta dentro l’acqua andavi dall’altra parte. Chi riusciva a farcela portava i pali a destinazione, gli altri seguivano il flusso d’acqua del torrente. Siamo tornati indietro.

Tornati al campo ci hanno dato un premio: una sigaretta per ognuno. La sigaretta che ci hanno dato l’abbiamo conservata per fare il mercato nero del campo. Nel campo esisteva di tutto, però erano solo cambi fra di noi. Allora a noi interessava roba da mangiare; vendevamo una sigaretta per una scodella di polpe secche di bietole. Mangiavamo un cucchiaio per ognuno in quella giornata lì e lo tornavamo a vendere per una sigaretta in modo da avere il cambio. Mangiando un cucchiaio per ciascuno di burac... era il soprannome, noi lo compravamo per burac... tornavamo a vendere. Però ogni giorno la sigaretta calava perché il mio amico Vigi che fumava diceva che una tirata era come un pezzo di pane. Lui si saziava come appetito. Allora una tirata di sigaretta... io che non ho mai fumato ho fatto uguale a lui, io non ho mai fumato ma ho sempre seguito il consiglio che mi ha dato lui, quindi si fumava, si faceva una tirata, la sigaretta si abbassava fino a che l’abbiamo consumata tutta e in quel periodo lì siamo andati avanti la bellezza di 15-20 giorni mangiando un cucchiaio per ciascuno di burac e tirate di sigaretta: finita la sigaretta abbiamo finito anche le burac.

Certe volte per riuscire a mangiare di più aspettavamo che i kapò buttavano via le immondizie, gli scarti nei bidoni vicini alle cucine: assaltavamo i bidoni, ognuno cercava di arrivare per primo. Sai perché? Perché i kapò vedendoci a fare questa roba qua, ce le davano, ma il primo che arrivava metteva quasi tutto il corpo dentro il bidone, così mangiava di più e non le prendeva, perché i kapò pestavano quelli tutti intorno a lui. Io le ho schivate, ma le ho anche prese.

L’erba l’ho mangiata ad Ebensee perché a Mauthausen c’era ghiaino, buche e terra, il piazzale era fatto di sassi e tutte le mattine quel rullo che era all’entrata del blocco 22 serviva per spianare. La manutenzione del campo era fatta tramite i blocchi liberi e tiravano il rullo tutte le mattine, lo tiravano in 10, 12, 20 pur che andasse avanti. Pulivamo anche le baracche, con il culo quando pioveva! Il kapò ci faceva prendere in mano gli zoccoli e dopo seduti sul pavimento di legno dovevamo asciugare per bene con il didietro. Fa conto che là o piove o nevica sempre.

Un giorno, io e Vigi ed altri tre o quattro, ci hanno caricati su una camionetta e ci hanno portato fuori, quasi ad un chilometro fuori dal campo, dove c’erano due gerarchi della SS che avevano l’abitazione. Una villa bianca, a sinistra del campo. Sono stati portati dei cadaveri, perché il crematorio era rotto: la buca l’abbiamo trovata, però abbiamo coperto i cadaveri, la terra messa a campanile. Man mano che i corpi si decomponevano la terra calava finché tornava piano. Quella è ad un chilometro fuori dal campo, due fosse piene di cadaveri. La prima volta che sono ritornato a Mauthausen sono andato lì per rivederlo, ma soprattutto per portare un mazzo di fiori o una croce, un crocefisso dove ero sicuro che c’erano dei morti. Lì mi hanno assicurato, dentro la direzione del campo che non esiste più, [che] là hanno scavato ed hanno portato al blocco 22 tutti i resti. Quindi ho accettato che là non esistono più i resti dei cadaveri ma li hanno portati al blocco 22... perché il blocco 22 lo hanno trasformato in cimitero.

Io ho potuto conoscere il campo quando mi hanno assegnato al blocco 3, allora là ho visto tutte le baracche, tutta la gente. Alla fine della conta facevano come... dicevano rompete le righe, allora chi a gruppi, chi solo, ognuno aveva il compito di  andare a lavorare. Là sul piazzale tra il crematorio e le baracche era nero di teste. Sono andato al “kartoffenmitterbanu”, sono andato da una parte, sono andato da un’altra, e tanti andavano sulle fabbriche, specialmente i tornitori erano richiesti. La baracca n. 10 erano tornitori: andavano via la mattina, mangiavano in fabbrica; andavano a San Pellegrino dove c’era la fabbrica dei carri armati Tigre. Tornavano a dormire la sera. Fra questi c’era Bepino Pigat che era stato condannato a morte con me. Lui era uno specialista, sapeva lavorare al tornio. Una sera noi del “kartoffenmitterbanu”, io e Vigi, abbiamo portato dentro quattro cinque patate nascoste in mezzo alle gambe e alla sera, siccome erano blocchi liberi, avevamo un periodo di svago da poter andare da una parte ad un’altra. Sapevamo che lui andava in fabbrica e gli abbiamo chiesto di cucinarci le patate in fabbrica. Gliele abbiamo date la sera e lui ci ha detto di sì. È andato a lavorare. Alla sera siamo tornati per riprenderci le patate e ci ha detto che non aveva potuto farle. Siamo tornati la sera dopo, tre giorni, e ci ha detto che il capo gliele aveva portate vie mentre le stava cucinando: noi non abbiamo accettato questo discorso e abbiamo capito che le aveva mangiate lui. Là abbiamo fatto baruffa ci siamo insultati, non siamo più andati a trovarlo, non ci siamo più scambiati parola, tornando in Italia non ci siamo lo stesso più parlati per le patate.

Nel periodo più freddo, invece, mi hanno assegnato con Vigi e altri alla pulizia delle vasche: una era di decantazione, una di purificazione e una di scorrimento. In queste vasche scendeva l’acqua che aveva appena pulito i crematori dalla cenere dei cadaveri. Quando ho lavorato là, il mio lavoro era di rompere con pala o piccone lo strato di schiuma gelata che si formava a pelo d’acqua. E...vabbè te lo dico, ci siamo nutriti di quella roba lì, e se riuscivo portavo pezzi di ghiaccio anche a Elio. Basta però adesso, non ne voglio più parlare perché mi vergogno di ‘sta roba. La gente non sa cos’è la fame. Ti fa diventare una bestia. Se devi mangiare e non hai niente e sei uno contro uno dici: “benon! Fen a pugni, finchè uno dei do”... Basta!

Prima mi chiedevi dell’acqua: mai avuta! Una volta ci hanno portati a lavarci il viso su una specie di lavandino, ma era più una vasca, comunque era piena di acqua e sapone, e noi dovevamo lavarci il viso. Abbiamo cominciato a bere! Ci hanno dato le botte e da quella volta là non ci hanno più portato a lavarci il viso.

Dove adesso c’è il blocco n. 1 c’erano sette baracche una dietro l’altra, c’era 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7. Adesso c’è quella con i letti a castello. Lì ce ne erano altre sette e 4 blocchi interi, con il blocco 22 c’erano 21, 23, 24, che non erano in corrispondenza con niente(4). Chi era là aveva un’autonomia di 40 giorni di sopravvivenza. Dovevano vivere con quello che li passava il campo. Gli davano da mangiare alla loro ora e avevano sempre il compito di andare dentro in baracca e stare in quei tre metri da una baracca ad un'altra tutta la giornata, non far gruppo e che venga notte. Quello era il suo sistema, però erano 40 giorni di sopravvivenza e quello lo ha fatto Elio Mascherin. Lui è sempre stato là. È sopravvissuto, però è venuto a casa anche lui di 28 kg. Lui non conosce niente di Mauthausen: è andato dentro al blocco 22 a mangiare e tornare dentro, per tutto il suo tempo di prigionia. Conosce solo il blocco 22. Parlava con tanti, ma solo un passaggio di parola. Aveva solo il compito di mangiare e dormire tutta la giornata, non ha fatto un passo fuori dal blocco 22.

Io e il mio amico non abbiamo fatto conoscenza con nessuno. Se eri da solo eri sempre con la testa bassa col pensiero della fame e con la morte sempre davanti. Io e il mio amico parlavamo di tutto ma non di casa (perché lui aveva due figli), di sopravvivenza, come dovevamo fare: stai attento là, stai attento qua, guarda che... Lui ha sostenuto meglio la prigionia, sono io che sono caduto. Lui è arrivato a casa arzillo ancora, io invece ero finito. Forse l’età e dopo la costituzione sua... per me era l’età, più carattere. Lui aveva 30-32 anni aveva due figli, uno di 7-8 anni e un altro di 3-4. Avevamo in testa solo la sopravvivenza, sapendo che gli americani e i russi venivano avanti, avevamo la speranza di sopravvivere per la liberazione. Noi cercavamo sempre di sapere qualche novità di quanto avanti venivano per diminuire i giorni, perché la sopravvivenza senza acqua e senza mangiare è di 27 giorni... radio baracca... perché io non sono andato a scuola, ma sopravvivi 27 giorni: non 28 non 25, 27 giorni. Quello che diceva radio baracca si avverava tutto. Quello che dicevano si verificava sempre, perché con noi c’erano dottori, preti, frati, di tutte le nazioni ma tutti assieme, non era da dire che uno era più bravo di un altro, per tutti quanti c’era la sopravvivenza. Sentendo dire che potevi sopravvivere 27 giorni, era un aiuto per vivere, se riesco ad avere qualcosa da mangiare posso vivere per 29 o 30 o 50 giorni. Quello era lo scopo di radio baracca: ci avevano detto che mangiavamo 27 giorni perché mangiando andavi avanti. Dentro o per italiano o per tedesco o per inglese o americano, noi sapevamo giorno per giorno quanto gli americani e i russi venivano avanti, tutto per le scritte dei giornali che le guardie leggevano. Perché c’era quello che sapeva leggere e parlava il tedesco e c’era un passaparola di tutto il campo.

C’era un appello, chiamavano un numero e andavi fuori dal blocco 3. Mi sono sempre trovato con il mio amico e proprio non ci si staccava. Se per caso il kapò prendeva uno, andavamo fuori tutti e due, noi eravamo come una persona, attaccati: al “kartoffenmitterban” mi hanno chiamato e lui attaccato a me è venuto avanti lo stesso. Non c’era numero fisso, indicavano chi dopo la conta avrebbe lavorato e chi no. Quando si era formato il gruppo ti davano un nome, quando loro dicevano “kartpffenmitterbanu”. Noi che sapevamo andavamo via con lui. Andavamo via con un kapò che alzava la mano dicendo “kartoffenmitterbanu” e lo seguivamo.

I kapò erano tutti su una baracca, nel blocco 2 so che erano tutti kapò, le altre non so. Quando noi andavamo al 3 loro erano circondati dai reticolati, li vedevamo dalle finestre. Quando dovevamo fare la conta veniva fuori il kapò, aveva ordini dal campo che gli diceva: “tu vai là”, e tirava fuori la gente. Sul piazzale dove ci contavano, il capo campo era lì tutte le mattine e tutte le sere sopra, sotto l’aquila dove adesso c’è quel piano sopra. Aveva il suo registro e tutti i capo blocco dicevano in tedesco “blocco 3, tanti morti” e lui sapeva quanti ne erano morti durante la giornata, quanti ce ne erano di notte e quanti alla mattina. Gli riferiva tutto il capo blocco. Io l’ho visto là siccome veniva fuori dove adesso c’è la chiesa: quella era la sede del capo campo, c’è una scaletta per andare giù e vicino c’era un’altra scaletta per andare in ufficio. Dicono che c’era la lavanderia, invece la  lavanderia è sotto. Dove c’è la chiesa adesso una volta c’era l’ufficio del capo campo. Nella lavanderia c’erano delle donne ma io non le ho viste mai, perché da quando ho fatto la doccia, da quelle parti là non sono più andato. Io la doccia l’ho fatta una volta sola all’inizio, all’entrata nel campo, quando ci hanno lavato con l’acqua gelata e quella bollente.

A Mauthausen, fuori del campo, all’altezza dove ora hanno eretto il monumento ai prigionieri italiani, a destra mettendosi con le spalle contro il portone, c’era una baracca. A sinistra c’erano tutte le baracche delle SS con i figli e le famiglie. A destra della strada da dove si andava giù per andare alla scala della morte, c’era una baracca: là dentro facevano esperimenti. Levavano sangue, facevano esperimenti fino a portarli all’estremo della vita. Io ed altre persone siamo andati dentro in baracca, li abbiamo portati attraversando tutto il campo e li abbiamo portati nel crematorio... vivi sì, ma all’estremo... facevano solo gesti... gemiti... irriconoscibili... roba da 20 kg... proprio tirati all’estremo. In parte al primo crematorio dove ci sono le docce c’è a sinistra una piastra dove lì i dottori mettevano i corpi dei prigionieri vivi. I dottori facevano l’operazione, tagliavano, facevano esperimenti. Io non li ho visti, ma la prima volta che sono ritornato nel campo c’erano i quadri illustrativi con foto dove tagliavano una gamba e la mettevano nel braccio e viceversa. Dopo, quelli di una certa altezza li facevano diventare piccoli di un metro, una persona di 180 centimetri li facevano diventare tutti piccoli. Fatta l’operazione, c’era un’infermeria di sopra allo stabile dove c’erano crematori e docce, sull’ultimo... al secondo piano, li portavano là, dove venivano medicati. Però là chi entrava non tornava più fuori. Erano privati che eseguivano gli esperimenti, non li ha visti nessuno, c’erano dottori ed assistenti però noi sapevamo: tramite gente che faceva manutenzione, gente nelle cucine sapevamo, noi eravamo tutto un passaparola: qui c’è una cosa, lì ce ne è un’altra. Sapevamo i posti. Però io personalmente non li ho visti, so che là c’erano, però chi entrava non usciva.

Quando noi dal campo di Mauthausen, e poi anche a Stetten, si andava a lavorare incolonnati cinque per cinque sotto braccio, dal campo a dove si faceva manutenzione a lavorare si passava sulle vie del paese di Stetten. Si passava al centro del paese e la gente quando passavamo anche in colonne di duemila persone, si fermavano fuori dalle porte di casa oppure dalle finestre, ci vedevano passare: sapevano che noi dal campo andavamo a lavorare, sapevano anche chi eravamo anche perché eravamo vestiti con le tute, tutti con la tuta con le zebre. Quindi non dire che non sapevano: ci hanno visti tante volte, specialmente a Mauthausen che sono andato al “kartoffenmitterbanu”: lì alla stazione c’era sempre un via vai di persone, c’era solo la strada che divideva la stazione da dove noi lavoravamo, e la gente seduta nel bar vicino era lì che ci guardava. Nel terreno dove eravamo noi ci eravamo fatti il posto per andare al bagno perché con la dissenteria che avevamo eravamo sempre lì ad evacuare. Vedevano tutto quello che facevamo e in che maniera ci trattavano. Noi lavoravamo ma sapevano che eravamo prigionieri del campo.

Dopo un periodo mi hanno chiamato fuori tramite il mio amico e allora, visto la mal parata, io e Vigi abbiamo fatto un giuramento, un patto: “O casa tutti e do o via tutti e do”. Abbiamo diviso assieme perfino l’aria che si respirava, perché altrimenti da soli non si poteva sopravvivere.

Abbiamo fatto il “transport”, un poco a piedi e un poco con un trenino. Si passava per i campi, per le strade, ci sono delle grandi coltivazioni di colza, passavamo per i bordi dei campi e man mano che passavamo ognuno sradicava la colza: siamo arrivati 20 metri, eravamo tantissimi, sempre cinque per cinque. Io essendo davanti ho potuto averne più di una manciata, e le ho prese sia per me che per il mio amico Vigi. Ci hanno fermato, noi le avevamo nascoste, però ci veniva fuori un fiore: ci hanno fatto aprire le tute, ci hanno preso tutto, l’hanno buttato a terra e ci hanno dato delle botte, dei pugni, non ci hanno né fatto male né ucciso però ci hanno... sì, non dovevi mai farti vedere di mangiare, dovevi seguire quello che facevano loro e mangiare quando che loro te lo davano, non prima.

Arrivati all’entrata di Stetten c’era come una sagoma e ci hanno fatto vedere che c’erano una decina di impiccati, in modo che, se sgarravi, se non stavi ai loro ordini, quella era la nostra fine. Là sono stato un periodo. Ci hanno messo a dormire, sempre concentrati in una caserma di cavalleria, ma non c’erano più cavalli, ci hanno messo a dormire sulla foraggiata dove dormivano i cavalli, sullo sterco dei cavalli. Alla mattina si partiva sempre a gruppi di 50-100, non ricordo quanti, si aveva il compito di andare in stazione a colmare i buchi dei bombardamenti, perché la stazione era stata completamente distrutta. Allora là si andava giù, si passava tutto il paese in colonne e ci mettevano a tappare una buca. Su mille persone si aveva una ventina di pale, il resto, o sassi e terra, bisognava da inginocchiati gettarla all’interno delle buche ed essere tutti quanti operanti. Un giorno siamo lì che gettiamo la terra, ed io e questo Vigi stiamo parlando italiano, quello che faceva la guardia, non un kapò, un militare che faceva la guardia, ci ha interpellato e ci ha chiesto se eravamo “italiani”, - “Sì”, gli abbiamo risposto e lui: “Da dove? “ e noi: “Da Pordenone”. Lui dice: “Io sono appena rientrato”, per quello che potevamo capire e lui che parlava poco italiano: “Bello Pordenone, una bella città, si stava bene a Pordenone”, ci diceva che stava bene a Pordenone. Mentre sto parlando con questo militare, il kapò ha visto che non gettavo materiale, è venuto per dietro con il frustino e il piombino e mi ha dato una botta all’altezza della fronte, mi ha rotto la scatola cranica, mi ha dato una frustata che sono caduto a terra. Vigi visto che ero a terra, e per quello che era per terra c’era subito il colpo di grazia, mi ha preso e mi ha messo in piedi. Dopo un po’ di tempo ho riacquistato i sensi e con un po’ di movimento sono arrivato alla sera.

Durante tutti i giorni che eravamo c’erano i bombardamenti e i kapò non ci lasciavano lavorare quando c’erano i bombardamenti. Ci portavano fuori dalla stazione su un boschetto, come nascosti; là ci facevano sedere tutti quanti in riga, ordinatamente, seduti a terra ed aspettare. Allora noi ci si segnava il posto che occupavamo essendo seduti a terra e lì, quello era il nostro pranzo: il tappeto di erba che avevamo segnato attorno. Ci serviva a quello. Un giorno dove ci avevano fatti sedere, c’era come un cespuglio, una pianta e dentro questa pianta, c’era un mazzo di funghi ed una lumaca. Allora Vigi mi dice : “Luciano guarda, ci sono i funghi qua”, “E no - gli ho detto - guarda che sono avvelenati...” e Vigi: “ No, li conosco”; “bene - allora gli ho detto - tu mangi i funghi e io mangio la lumaca”. Abbiamo fatto così, ma io non mi sono accontentato di metterlo in bocca a crudo  com’era, ho cominciato a masticarlo: masticando ha cominciato a fare le bave, le bave hanno cominciato a riempirmi la bocca e non ce la facevo più ad inghiottire, stavo soffocando. Allora Vigi strappando un pezzo della tuta mi ha aperto la bocca e mi ha tolto le bave. Così ho potuto liberarmi, lì è passata la giornata.

Un altro giorno stiamo mettendo giù dei sassi per tappare una buca e viene mezzogiorno, suonano le sirene e le guardie, che si erano portate via il mangiare in uno zainetto, mangiavano: noi dovevamo continuare a lavorare. Io ero vicino a questa guardia che si era messa a mangiare un pezzo di carne con l’osso, ha mangiato la carne ed ha gettato l’osso a un metro da me: io ho fatto un salto per prendere l’osso, visto il mio salto per prendere l’osso con la scarpa mi ha pestato la mano e con la mano tutta rovinata ho dovuto lasciare lì l’osso, non ho potuto nemmeno assaporare quell’osso lì, e sanguinando con la terra ho potuto fermare il sangue, acqua mai avuta! In cinque mesi di campo io non ho mai visto una goccia di acqua, né per bere né per lavarmi il viso, quindi la terra era quella che mi poteva fermare il sangue.

Nel frattempo mi era venuta una dissenteria leggera, quindi si doveva chiedere di andare al gabinetto e in velocità bisognava uscire dalla colonna e con i pantaloni in mano seduti sulle ginocchia si doveva evacuare senza pulirsi e ritornare nella colonna. Una mattina che mi faceva male la ferita a causa della botta in testa, perché mi usciva molto pus, il mio amico ed io abbiamo deciso di farmi fare la visita medica. Ho fatto domanda di andare in infermeria e facendo la fila, perché non c’ero solo io, ma eravamo una ventina di noi, a fianco della coda c’era una baracca con una finestra dove c’erano dei malati che erano dentro in infermeria. Uno dalla finestra della baracca, con il numero e il triangolo rosso distintivo degli italiani, mi ha chiesto: “ Sei italiano tu?”, “ Si”, gli ho risposto e lui mi disse: “Torna indietro... non entrare perché ti tengono dentro e da qua non esci più”, nel momento stavo per svenire dato il caldo, la febbre e i dolori, avevo come un foruncolo, un’infezione forte con dolori, mi sono inginocchiato a terra ed intanto la coda si faceva avanti e mi saltava, io mi sono ripreso, ho preso le mie scarpe e sono tornato indietro. Nel frattempo il mio amico Vigi, visto che ritornavo indietro, è venuto a vedere il perché e siamo ritornati in baracca e abbiamo continuato il nostro lavoro nella baracca ed io ho obbedito a quello che mi ha detto l’uomo nella baracca.

Durante la strada quando si andava dal campo al posto di lavoro lungo la strada c’era l’erba, allora man mano che venivamo avanti io e questo Vigi, io ero sempre a sinistra, il primo dei cinque, il secondo era Vigi e poi altri, man mano che camminavamo vedendo l’erba che secondo me era più commestibile per noi, con la mano sinistra strappavo l’erba e gliela passavo al mio amico di modo che la nascondevamo sotto la tuta e pian piano, ma non dovevamo farci vedere che masticavamo, dovevamo lavorarla in bocca in modo da mandarla giù. Un giorno tornando indietro vedo due o tre piante di cren, allora gli ho detto a Vigi: “Varda lì che lè el cren”, gli ho dato una strappata e abbiamo cominciato a mangiare il cren: e quello ci stava per far morire, perché la foglia del cren ha un gas cattivo, insomma avevamo il gas che ci veniva fuori dagli occhi e dalla bocca, lo abbiamo vomitato altrimenti morivamo, per questo dico che l’erba più cattiva è il cren, le radici si mangiano. L’erba più buona invece sono le radici delle viole.

Un giorno sempre a Stetten in stazione dovevamo portare una rotaia, dall’altra parte c’era un recinto con dei prigionieri militari italiani, catturati l’ 8 settembre, quando c’è stato l’armistizio. Avevano delle loro baracche, si facevano da mangiare, erano trattati meglio di noi. C’era solo una siepe che ci divideva, quando abbiamo potuto parlare assieme, uno di quelli italiani lì che si era portato il mangiare di mezzogiorno, ci ha passato a me e a Vigi un panino dei suoi. Quando l’avevo io in mano il panino ho detto a Vigi: “varda qua che ho un fià de pan”, un altro prigioniero vicino a me mi ha preso il panino e lo ha messo in bocca... io e Vigi lo abbiamo preso per la testa, gli abbiamo tirato fuori il pane dalla bocca, abbiamo fatto una lotta contro uno, insomma lui lo abbiamo lasciato a terra con la bocca aperta perché con la nostra forza lo abbiamo... e abbiamo preso il pane, non so se lo abbiamo... ci interessava solo il pane, eravamo all’estremo dell’appetito, solo parlare di pane avevamo quasi mangiato, solo parlandone ci si riempiva la pancia.

I russi sono i più generosi! Altro che gli ebrei. I russi! Pensa che un giorno intanto che stavamo riempiendo una buca assieme a quattro-cinque russi, uno di questi trova una scatola con dodici formaggini. Sai cos’ha fatto? Li ha divisi! Due a testa! Poteva mangiarseli lui o tra russi. Ne ha dati due anche a me e due a Vigi facendo segno con la bocca di non farci vedere che masticavamo. Un altro giorno a Stetten allora ci dicono: prendete delle pale, eravamo una cinquantina di noi e ci hanno portato in una ferrovia a spalare la neve dalle rotaie perché doveva entrare il treno. Io i Vigi siamo davanti che buttiamo via la neve e una guardia che ci accompagnava, ci parlava in italiano; alle undici si è messo con la gavetta e il gas a spirito e si è acceso il gas. Ha messo la gavetta con acqua e si è lessato le patate, arrivato mezzogiorno ha tirato fuori le patate e le ha spellate, si è messo a mangiare patate: aveva l’acqua delle patate e le bucce, non so il perché ho detto a Vigi: “Vigi va a domandarghe l’acqua e le scorze delle patate” e lui: “Varda che el me da”, era vestito da borghese, era un trentino, uno di quelli dell’Alto Adige, parlava sia il tedesco che l’italiano. Allora Vigi ha lasciato la pala ed è andato a domandare l’acqua; ma invece di dargli l’acqua ha preso il moschetto per la cima e gli ha dato due botte. Vigi ha messo la code in mezzo alle gambe, è tornato da me e mi ha solo ringraziato: “Sutu contento adess?”, ha ripreso la pala e abbiamo continuato a buttar via la neve. Invece di mangiare le ha prese. Non mi ha mai rimproverato, mi ha solo detto: “Sutu contento adess?”. Adesso lui è morto, in Canada, è morto da 4- 5 anni. Dei quattro di Mauthausen siamo ancora in due vivi, io e Mascherin, che faceva il sarto.

Uno dei quattro di Fagnigola, Camillo Bertolla è venuto da Mauthausen con un trenino una giornata a Stetten. Ha fatto una notte sul trenino, ma non è rientrato a Mauthausen. Lui invece di essere montato sul treno è andato sotto il treno, il treno è partito e lui è restato fuori. Alla mattina, non è stato furbo, ha cercato subito una famiglia per mangiare, è andato da una famiglia di Stetten e lì gli ha chiesto da mangiare, lo hanno accettato, gli hanno preparato il caffelatte ma nel frattempo hanno telefonato al campo e sono venuti a prenderlo; lo hanno portato dentro, quello è stato fortunato, ha preso tante di quelle botte, gli hanno rotto le dita delle mani, non lo hanno ucciso, lo hanno riportato al blocco 22 insieme con Elio Mascherin. Dopo è riuscito a venire anche lui a casa ed ha sopportato meglio lui lo  stesso il campo rispetto a Mascherin, perché Camillo, pesava un quintale; a Mauthausen per un periodo gli levavano il sangue. Allora eravamo al blocco 22. A una certa ora alla sera dopo la conta lo hanno chiamato fuori, lui aveva una corporatura... pesava un quintale, una carnagione bianco e rossa, lo hanno chiamato fuori e gli hanno prelevato sangue perché lui è tornato dentro, è lui che ce lo ha detto, io non ho visto, è lui che ce lo ha detto, gli hanno levato del sangue per tre o quattro volte e gli davano un piatto di “suppe”, dopo gli hanno dato da mangiare, gli hanno levato una siringa di sangue per mandare al fronte e lo hanno rimandato in baracca, per tre sere lo portavano là solo perché avevano constatato che aveva sangue da mandare al fronte. Però ha resistito anche lui, perché non so in che blocchi sia stato e non so cos’abbia fatto, non abbiamo più avuto contatti da quando siamo usciti dal campo, erano i primi 8-10 giorni che ero al blocco 22.

Là, al blocco 22, ho fatto un periodo di un mese circa, poi ci hanno sorteggiato per fare un altro “transport” e anche lì abbiamo fatto un tratto a piedi e uno in camionetta: ci hanno portati ad Ebensee.  Ebensee era un campo dove dovevi fare la stessa fine, come negli altri, lì, secondo loro, era un campo per il nostro riposo, per la fine della nostra sopravvivenza. Una notte, sia io che il mio amico Vigi, ci hanno fatti uscire e hanno fatto un appello. Con una squadra di una cinquantina di noi, si andava giù dove hanno fatto la galleria dove c’era la bomba V-1, la V-2 e in sperimentazione la V-3. Quindi noi dovevamo continuare a scavare la galleria e lì lavoravamo. Non eravamo controllati, potevamo entrare ed uscire. Fuori dalla galleria c’erano dei bidoni di catrame e tutti quanti cercavamo di prendere questo catrame caldo che serviva per impedire il passaggio dell’umidità nella galleria e con un sasso mi sono preso una manciata di... e abbiamo cominciato a masticare il catrame; il catrame è gommoso e ci faceva far saliva: la saliva è quella che mi ha tradito, l’ho tenuta in bocca per parecchio tempo e masticando e mandando giù la saliva mi ha corroso la carne, perché carne mangia carne. Quindi dopo un periodo che ero lì ero arrivato proprio allo stento, barcollavo, non parlavo neanche più bene e sempre questo mio amico cercava di procurarmi qualcosa, era sempre accanto a me, come dico è quello che mi ha salvato. Arrivato un giorno passa una squadra delle SS, mi vedono seduto lungo una parete della baracca, ero a testa bassa e si segnano il mio numero di matricola, quindi non avendo più il numero della matricola non avevo più il posto per andare a dormire nella baracca. Per questo che ad Ebensee io risulto morto. Allora tramite il mio amico la sera che siamo entrati in baracca, là si dormiva sui letti a castello, io sotto e lui sopra perché su un letto a castello dormivamo in quattro: quella sera lì si dormiva in cinque, io sotto e lui per sopra. Abbiamo fatto la notte, alla mattina proprio all’ultimo momento, all’ultima giornata hanno dato l’allarme: che si vada sulla piazza d’armi, e là con tutte le lingue, perché là eravamo assembrati di tutte le nazioni, dottori, professori, ingegneri, preti, là non c’era distinzione, avevamo solo un numero e una divisa tutti uguali, sia là che a Mauthausen, e nel momento in cui ci hanno parlato in italiano hanno detto: “Non fate confusione, state buoni che fra qualche giorno gli americani vengono a liberarvi...”. Ed è incominciato il disastro, tutti quanti credevamo di essere già liberi e li abbiamo passato la giornata, non avevamo più posto nella baracca, durante la giornata fuori dal campo la gente che osservava, perché c’erano sempre dei prigionieri che occupavano le cucine o erano addetti alle pulizie, ci  hanno detto che i tedeschi erano con le camionette e con i bidoni di benzina, che circondavano il campo perché alla notte dovevano darci fuoco.

Durante la giornata noi gli americani li abbiamo sentiti che erano sulla collina e che stavano venendo avanti, però non sono venuti a liberarci! I prigionieri russi, prigionieri che erano assieme a noi, avevano un posto di sopravvivenza, erano addetti alla pulizia del campo e avevano il proprio rancio: si facevano da mangiare per conto loro, erano organizzati. Hanno assaltato le garitte delle SS che erano in cima con le mitragliatrici ed hanno disinnescato la corrente degli articolati [reticolati], hanno aperto le cucine dove facevano da mangiare ed hanno aperto le porte: là chi riusciva a camminare poteva andare a prendersi qualcosa e durante la giornata, quando i russi hanno disarmato i tedeschi, il mio amico insieme ad altri hanno rotto la rete e sono riusciti ad evadere. Una volta usciti sono andati nelle case dei borghesi e al ritorno mi ha portato mezzo litro di latte freddo e un uovo e lì abbiamo passato un’altra notte nel campo, perché non avevamo posto, eravamo allo sbando. Alla mattina, visto che gli americani non erano preparati a dar da mangiare a tutta la gente che era nel campo, loro hanno mangiato ma noi no! Allora il mio amico mi ha detto: “Io Luciano non resto dentro, mi vae casa a pie”, e io siccome non ragionavo più, ho sempre obbedito a lui, ci siamo sempre aiutati al massimo, abbiamo deciso di venire a casa a piedi.


NOTE

∗ Alessandro Fantin, nato a Motta di Livenza (Treviso) nel 1983, ha conseguito la laurea di primo livello in storia presso l’Università degli Studi di Venezia “Cà Foscari”. Tesserato con l’ANED di Udine, studia il problema delle deportazioni in particolare nell’area friulana.

1 - In molte altre testimonianze l’amicizia e il reciproco sostegno tra due compagni di sventura, ha consentito la sopravvivenza durante la prigionia; si veda A. Bravo - D. Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti di duecento sopravvissuti, Angeli, Milano 2001.

2 -  N. Revelli, Il mondo dei vinti. Testimonianze di vita contadina, Einaudi, Torino 1977, p. VII. 185

3 -  Kartofelln-mit-banhof: Kommando di lavoro per la copertura delle buche dove erano immagazzinate le patate.

4  - I blocchi 21, 22, 23, 24 erano separati, dal resto del campo, da una cinta muraria. Erano completamente isolati.



Fonte: da  Sopravvissuto  a Mauthausen. Testimonianze di Luciano Battiston, (DEP n.7 / 2007) , a cura di Alessandro Fantin. Universita’ Ca Foscari. 




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