Luciano Battiston
a cura di Alessandro Fantin∗
Luciano Battiston venne deportato nel Lager di Mauthausen
nel febbraio del 1945; all’epoca aveva 21 anni. Fu catturato dalla squadra
fascista del Capitano Vettorini durante un rastrellamento nel paese in cui
viveva, Fagnigola, nel pordenonese. Dopo la permanenza nelle carceri di
Pordenone ed Udine, venne stipato in un treno insieme ad altri suoi compaesani
e a molta altra gente costretta a partire con lo stesso convoglio da Trieste.
Giunto a Mauthausen,
nell’Austria annessa alla Germania nazista con l’Anschluss del 1938,
Luciano subì come tutti i deportati nei lager il drammatico e rapido
annientamento della personalità: si vide privato dei propri affetti personali,
venne denudato, rasato e condotto a fare la “doccia” con molti altri
sconosciuti. Da quel momento non ebbe più né nome, né cognome: si chiamò 126625. Venne condotto nei blocchi di
quarantena e successivamente fu destinato ai blocchi liberi e impiegato nel
trasporto di macigni di pietra sulla “scala della morte”. Dopo un periodo di
tempo indefinito, poiché Luciano non ricorda né date, né giorni, fu inviato
ai blocchi addetti alla manutenzione del campo.
Qui conobbe, come dice lui, “quel chel ma salvà”: Luigi Bilus, detto Vigi. L’amicizia con
Vigi sarà l’unico contatto “umano” nell’universo concentrazionario di
Mauthausen. Essi divisero ogni attimo della loro prigionia fatta di botte e
qualche momento di sincera e profonda solidarietà, come l’episodio della
divisione dei formaggini trovati in una buca da un gruppo di prigionieri russi.
Luciano e Vigi fecero un patto: “O
casa tutti e do o dentro tutti e do” e cioè “o ritorniamo alle nostre
case tutti e due o rimaniamo nel lager assieme”(1). I due amici furono in
seguito trasferiti in due sottocampi di Mauthausen: Amstetten ed Ebensee.
La liberazione avvenne grazie ad una rivolta dei prigionieri
russi del campo di Ebensee, quando ormai le SS erano quasi tutte fuggite per
l’avvicinarsi delle truppe statunitensi. Il ritorno alle proprie case fu quanto
mai rocambolesco. Fu la loro forza di volontà a sorreggerli durante il lungo
tragitto, poiché Ebensee da Pordenone dista 300 chilometri; i due deportati
arrivarono a destinazione a piedi con i loro corpi ormai molto deperiti, tanto
da necessitare di cure ospedaliere adeguate. Luciano pesava 28 chilogrammi!
Dopo un anno di convalescenza, ricominciò a vivere.
La testimonianza di Luciano, mio nonno, è stata resa nel
corso di varie interviste fatte in più sedute durante il mese di luglio 2006,
davanti ad un piccolo registratore. I colloqui si sono svolti nella sua casa a
Chions. Nella redazione del testo mi sono avvalso del metodo adottato da Nuto Revelli(2) nelle sue raccolte di fonti orali, dando un ordine cronologico
al racconto, tagliando i rami secchi, le ripetizioni, i discorsi incerti o
inconcludenti, traducendo e trascrivendo in italiano la narrazione che Luciano
aveva fatto in dialetto. Luciano, per raccontare la sua vita e le sue
vicissitudini, attinge a dei modelli narrativi caratteristici della cultura in
cui è cresciuto e che ha contribuito a formarlo.
Ho individuato nel suo racconto alcuni temi ricorrenti che
intrecciandosi danno un’immagine di come egli vede la propria vita. In primo
luogo risulta particolarmente importante il tema della sopravvivenza: Luciano
racconta che già dalla nascita la sua vita è stata in pericolo, la
difficoltà nel venire alla luce è vista come una prima prova che dovrà
superare; il problema della sopravvivenza, del riuscire a scampare alla morte
è presente anche successivamente. La condanna a morte e soprattutto la deportazione
nel lager sono ricordi dove il tema della “sopravvivenza” assumerà
un’importanza centrale. In ogni momento del racconto, Luciano sottolinea sempre
il fatto di essere riuscito a cavarsela, di essere riuscito a non abbattersi e
alla fine di essere riuscito a non soccombere alle avversità.
Il tema dell’aiuto e del conforto spirituale è un altro
riferimento importante nel racconto; “qualcuno ti aiuta” rimanda alla
fondamentale figura di Vigi che, come afferma Luciano, “lè quel che el mà
portà casa”, quello che lo ha riportato a casa. Nel racconto Vigi è una sorta
di angelo custode. La deportazione, il viaggio di ritorno e le successive
esperienze migratorie, che in questa sede omettiamo, permettono a Luciano di
sviluppare con frequenza nel suo racconto non solo l’importanza delle “voci”,
del “sentito dire” - motivo di speranza e di resistenza nei momenti più
difficili durante la sua permanenza a Mauthausen in attesa della liberazione -
ma anche il tema del viaggio, un motivo che lo accompagna, dall’adolescenza
fino all’età matura. Le peripezie che il protagonista deve superare durante il
rientro dal campo di concentramento - una sorta di “odissea” - costituiscono
dunque delle prove da superare per poter sopravvivere.
LA TESTIMONIANZA
Sono stato tre o quattro giorni di nuovo insieme con gli
altri ed è venuta la spedizione perché sono stato condannato a morte insieme
ad altri tre da Fagnigola, che ti faccio i nomi: io, Camillo Bertolla, Luigi Bilus, Elio Mascherin. Ci hanno caricati in
una tradotta. Ma non assieme. Io ero da solo con Burei su un vagone, gli altri su un’altra tradotta che veniva da
altri paesi. Lì hanno finito di caricarla: ci hanno messo quaranta dentro su
un vagone da bestiame sigillato senza aria e senza luce siamo partiti per la
Germania. Ci hanno detto che partivamo per la Germania. Sulle prigioni dicevano
che quelli che erano sulle spedizioni in Germania... dicevano che li mandavano
a lavorare sui campi, sulle industrie, e siamo partiti anche volentieri perché
speravamo di aver finito la prigionia in Italia. Strada facendo a Dogna c’è
stato un bombardamento e il nostro treno si è fermato nella galleria, però
non ha spento la locomotiva e il fumo è entrato nel vagone e abbiamo dovuto
distenderci per terra perché sennò il fumo ci asfissiava e morivamo. Passato
il bombardamento siamo partiti per la Germania. Dentro, insieme con me sul mio
vagone c’era una persona, non so neanche da che provincia fosse e ci ha detto:
“Guardate ragazzi siamo su una brutta
strada questo treno porta a Mauthausen”. Non so come avesse saputo di
Mauthausen, lo avrà letto da qualche parte, si vede che ha letto dei libri. Ci
ha detto di rassegnarci che in Italia non saremo più tornati. Ci ha detto: “Io
dentro nel campo non ci entro”. Difatti arrivati a Mauthausen, senza mangiare e
senza bere, senza niente, siamo arrivati verso le cinque e mezza della sera...
lui, quando hanno aperto le porte del treno, si è buttato con la testa sulle
rotaie del treno e si è ucciso da solo, si è suicidato.
Noi abbracciati cinque per cinque siamo entrati nel campo e
ci hanno portati in una piazza dentro il campo, là ci hanno detto che se
avevamo qualcosa da mangiare o personale di raggrupparle una sull’altra perché
ci avrebbero spogliato di tutto. Difatti hanno fatto un appello, che per la
strada dei vagoni avevano ricevuto cibo dalle donne perché a Udine sapevano
quando arrivavano le tradotte che andavano in Germania e con il mangiare
passavano a quelli chiusi nei vagoni dei ferri per aprire i vagoni e scappare.
Difatti ci siamo accorti che mancava parecchia gente quando avevano fatto
l’appello. Però noi da Fagnigola siamo entrati tutti e cinque là. A gruppi di
venti man mano che veniva fatto l’appello ci hanno portato a fare la doccia.
Allora, ogni venti persone ci hanno spogliati e lì prima hanno fatto uscire
l’acqua calda, bollente, proprio calda, e tutt’a un tratto hanno fatto uscire
acqua fredda, gelata: abbiamo avuto una momentanea perdita dei sensi. Dopo
qualche minuto, cinque minuti che eravamo lì o dieci che non so perché io dal
momento in cui sono stato condannato a morte ho perso la cognizione del tempo,
ho perso i giorni, le date... io ero alla disperazione. In velocità ci hanno
dato il vestito della zebra, quello là, e in velocità dovevamo vestirci e
attraversare tutto il campo e siamo arrivati, e io sono partito con il mio
vestito sotto il braccio, nudo, ho attraversato tutto il campo dove c’erano
quaranta centimetri di ghiaccio e tutta acqua
perché c’era un blocco di neve e ghiaccio. Ho fatto duecento metri nudo e ci
hanno portato al blocco, tutta la tradotta al blocco 22. Là abbiamo passato la
notte.
Alla mattina quando hanno suonato la sveglia è arrivato un
italiano che era dentro il blocco 2, che si chiamava Pinto di cognome, un triestino. Era lui che non so da quanto era
dentro, era dentro il campo, non so se fosse un prigioniero. Si è seduto su un
tavolino ed uno alla volta ci diceva venite avanti... avanti uno... avanti un
altro e ognuno doveva dargli nome, cognome, mestiere che facevi, lui ti dava il
numero di matricola, non esisteva più il nome Battiston Luciano, ma 126625. Dopo passavi avanti da lì,
c’era il barbiere: nudi e ti rasavano dalla testa ai piedi e con il rasoio ci
facevano una croce sulla testa, era il simbolo che se per caso scappavi
sapevano che tu provenivi da Mauthausen. Rasati con la croce fatta con il
rasoio della profondità di 3-4 cm. C’erano prigionieri che ti rasavano sempre,
perché quando ad una certa ora, all’incirca mezzanotte, venivano a fare il controllo
dei pidocchi. Allora dovevi andare su un sgabello, alzare il didietro, in mezzo
alle gambe, dappertutto... se per loro in un periodo avevi aumentato i capelli
o la barba o i peli del corpo ti passavano dal barbiere e ti rasavano. La croce
qua era sempre lucida, rapata al massimo, tutti indistintamente, non ce n’era
uno senza la croce. Io non ho mai visto che trovavano pidocchi a qualcuno, io
non lo so se li disinfettavano o li mandavano via... passavi su questo scalino,
ma la maggior parte delle volte era per non farti dormire, per tenerti in
movimento, per non farti riposare, era solo di eliminarti. Non tutte le notti
ma a Mauthausen un giorno sì ed un giorno no ti controllavano, dovevi aprire
la tuta per vedere se ti era cresciuto il pelo e in tal caso dovevi passare dal
barbiere con il rasoio. Mi hanno dato un numero di matricola 126625, era come
un braccialetto, come una targa di latta con un filo di ferro che dovevamo
metterla sul polso sinistro e sul vestito dalla parte sinistra del cuore e sulla
parte alta dei pantaloni dovevamo mettere il nostro numero. Avevo un tondo
rosso: “Uomo pericoloso”, io non lo
ero, ma per loro... con quello che... è per quello che io ho avuto tutti
questi inconvenienti, perché mi hanno classificato dentro il campo uomo
pericoloso.
Ora non ci chiamavano più per nome ma per numero, ho fatto
cinque giorni al blocco 22, là si dormiva testa-coda. Ho da dire come? La
capienza della baracca era di 1.000 persone, la parete era rettangolare. Dalla
parte più stretta ci mettevano contro la parete e ci contavano, se avevamo il
numero giusto sennò non si stava dentro la baracca. A due metri un’altra
fila... ci buttavamo a coltello, in modo che eravamo testa e coda e lì
dovevamo dormire tutta la notte. Avevamo i piedi di uno e la testa di un altro.
Insomma testa e coda. La baracca era divisa in due settori: Stube A e Stube B,
io ero in Stube A.. Alla sera quando ci mettevano a dormire, tutti quanti
volevano entrare per primi perché volevano dormire contro la parete, contro il
muro della baracca, perché sulla porta della Stube A e Stube B c’era un kapò,
lì, che ci faceva la guardia di notte perché doveva esserci un silenzio di
tomba. Ma siccome che dentro qualcuno aveva fame e cominciava a fare dei gesti
non buoni, se si faceva qualche movimento e uno diceva “ahi”, il kapò partiva
sopra di noi di corsa gridando: “RUHE!”, e con due frustini con un
piombino faceva tre giri sopra di noi pestandoci dove capitava, testa piedi,
dove lui... insomma faceva tre giri, ma essendo sotto muro questo di notte lo
si evitava.
Quando c’era un bel silenzio, si aveva bisogno di acqua allora
si domandava, si alzava la mano per andare al bagno si diceva “ABORT”.
Se il kapò acconsentiva, pian piano, facendosi strada sugli altri, si andava
sui gabinetti che tra la Stube A e Stube B c’era una riga di lavandini e water
che secondo loro dovevamo lavarci il viso ed andare in gabinetto. Siccome acqua
non ce ne hanno mai data e neanche da lavarsi il viso, allora si tirava l’acqua
dei water e lì seduti con le mani sotto le gambe prendevamo l’acqua che usciva
dal water che era pieno di escrementi e ci si lavava il viso e si beveva
l’acqua. Si tornava dentro e si passava la notte.
Lì ho fatto una decina di giorni, dopo questo fanno un
altro appello e mi passano al blocco 17. Alla mattina alla sveglia del blocco
17 ci hanno fatto un altro appello. Assieme con altra gente ci hanno portato
alla scale della morte. Non so se per loro era un debito della condanna o non
so perché, perché per tutto quello che ho patito ho ancora da sapere perché
mi hanno condannato, e che sono stato preso... ci hanno portati fuori del campo
dov’è la scala della morte. Allora con uno zaino fatto a mo’ di piccola sedia,
legati con una catenella di un metro uno dietro l’altro, una decina di noi
dovevamo andare giù lì dov’erano la cave di pietra, andar giù per 186
scalini. Là c’era chi ci caricava una pietra, una roccia a ciascuno e dovevamo
salire la scala; 186 scalini ma la scala non aveva i scalini fissati con il
cemento, erano messi bene ma dovevamo mettere i piedi in modo che le scarpe
fossero messe contro la parte interna dello scalino sennò veniva giù lo
scalino e cadendo, cadevamo tutti e dieci essendo legati. Io per fortuna i
primi giorni ero ancora con una certa forza e per la grandezza ero sempre il
primo della squadra e pian piano ordinando il passo di andar su ho fatto 12
giorni. Ho fatto 12 discese e 12 salite. Siamo sempre arrivati tutti assieme.
Se si cadeva durante il tragitto degli scalini ci davano il colpo di grazia e
lì sotto la scala c’è un laghetto di acqua che saranno cento metri quadri di
acqua e quell’acqua lì è in corrispondenza con il Danubio che se i corpi entravano
nel lago la pressione dell’acqua lì portava giù per il Danubio. Quindi non
serviva che spendessero per il crematorio, perché tutto quello che succedeva
fuori dal campo dovevamo portarli dentro. Quelli che erano in coda alla colonna
dovevano prendere i morti i feriti e portarli dentro perché non si lasciava
niente per la strada, lì li passavano al crematorio. Ho fatto 12 giorni lì,
dopo sono passato al blocco n.3.
Al blocco n. 3 sono stato quindi mandato ai blocchi liberi
perché il blocco n. 3 faceva la manutenzione del campo e lì ho trovato uno da
Fagnigola: Luigi Belus
soprannominato Vigi, che preferisco chiamarlo sempre per Vigi perché è quello
che mi ha riportato a casa. Allora lì cercavamo di essere attaccati l’un con
l’altro. A squadre di dieci, quindici, venti di noi andavamo a fare dei lavori
dentro il campo. Il primo lavoro fuori dal campo, soprannominato il “kartoffenmitterbanu”(3),
si doveva andare a colmare delle buche dove avevano fatto un deposito di patate
in modo che, siccome c’è tanto freddo, facevano uno scavo di due metri per due
metri sulla terra e mettevano uno strato di paglia poi uno di patate e via
dicendo. Però quando erano finite le patate si doveva colmare le buche
appianando così la terra. Allora noi si andava giù a spianare la terra e lì
quello che si trovava, codini di patate o di bietole, era il pranzo di
mezzogiorno. Alla sera si ritornava dentro in baracca con lo stesso sistema di
dormire e di mangiare.
Il mangiare alla mattina era un po’ di... loro dicevano che
era il caffé ma era un po’ di acqua torbida che non so nemmeno descrivere che
gusto che aveva. Lì si arrivava alla sera. Alla sera si rientrava nel campo,
un’altra “suppe” con un pezzettino di pane, di quelle forme come quando
vedi il pan carrè, tutto nero, e ce lo dividevamo noi in dieci persone, e con
un cucchiaino da caffé di margarina. Allora quella era la cena della notte e
ci mandavano a dormire.
Lì ho fatto un periodo, perché ho fatto anche altri
lavori, da lì ci portavano al frigorifero: siccome che a Mauthausen c’erano
tre campi [forni] crematori, ma durante la giornata tutti e tre i crematori non
potevano esser sempre accesi perché non c’erano abbastanza morti sufficienti e
allora, tramite dei carri trainati da noi, prendevano i morti del campo e
tramite uno scivolo e un portone li buttavano giù in una stanza, e io dentro
questo stanzone che era detto il frigorifero prendevo i vestiti, li spogliavo e
lì mettevo tutti quanti ammucchiati su un carretto con quattro ruote in modo che
quando il carretto era pieno aprivano la camera del frigo e dovevo sistemarli
con la testa verso sinistra di modo che quando entravano nel forno entravano
prima con la testa: passavano il fuoco ed andavano via. Lì ho fatto un
periodo, non so quanti giorni perché lì ho perso la... non avevo né più
giornate, né niente, ho perso i sensi.
Ho fatto altri lavori... abbiamo pulito le baracche. Tutte
le mattine quando si doveva fare la conta io al blocco tre passavo davanti al
portone principale e andavamo nella posizione dove la mattina e la sera
dovevamo andare. Passando per lì si vedeva dietro la tenda, perché il portone
principale per fuori era una porta ma per dentro all’interno c’era un tendone
grigio. Tra il portone e la tenda c’era la serratura fatta da un cerchio con un
buco in mezzo dove passava un canevaz che mettevano dentro la testa di
un cadavere. Quello con il peso del cadavere teneva l’infisso della porta giù
di modo che il portone non si aprisse: serviva da serratura. Tutte le sere veniva
cambiato con un altro cadavere. Passando e vedendo quello, era talmente triste
che pensavamo tutti: “oggi lè lù e doman me tocca mì”, perché
sapevamo che quella era la nostra fine insomma. Lo vedevamo solo per la
curiosità dicendo o oggi o domani ci potremmo essere noi.
Sempre a Mauthausen verso sera hanno chiamato fuori dalla
baracca una cinquantina di noi prigionieri e siamo andati verso la fine del
campo dove c’era una baracca con dentro le attrezzature del campo, ci hanno
dato un mural 10x10 [ una trave di lunghezza ] e siamo partiti con un mural
sopra la testa per ciascuno e in fila siamo partiti di notte. Dovevamo
portarli in un certo posto. Nel frattempo, durante il percorso abbiamo trovato
un torrente di acqua e dovevamo attraversarlo. Allora, andando dentro l’acqua
la corrente ci avrebbe portato via. Noi non eravamo fisicamente capaci di
opporsi alla forza della corrente. Allora io e il mio amico Vigi, che eravamo
sempre in testa alla colonna sperando sempre di avere una aggiunta di mangiare,
abbiamo pensato una cosa: se andavamo dentro il canale non era facile salvarsi.
Abbiamo conficcato la punta della trave sul fondo del torrente, abbiamo preso
la rincorsa e con la punta dentro l’acqua andavi dall’altra parte. Chi riusciva
a farcela portava i pali a destinazione, gli altri seguivano il flusso d’acqua
del torrente. Siamo tornati indietro.
Tornati al campo ci hanno dato un premio: una sigaretta per
ognuno. La sigaretta che ci hanno dato l’abbiamo conservata per fare il mercato
nero del campo. Nel campo esisteva di tutto, però erano solo cambi fra di noi.
Allora a noi interessava roba da mangiare; vendevamo una sigaretta per una
scodella di polpe secche di bietole. Mangiavamo un cucchiaio per ognuno in
quella giornata lì e lo tornavamo a vendere per una sigaretta in modo da avere
il cambio. Mangiando un cucchiaio per ciascuno di burac... era il
soprannome, noi lo compravamo per burac... tornavamo a vendere. Però
ogni giorno la sigaretta calava perché il mio amico Vigi che fumava diceva che
una tirata era come un pezzo di pane. Lui si saziava come appetito. Allora una
tirata di sigaretta... io che non ho mai fumato ho fatto uguale a lui, io non
ho mai fumato ma ho sempre seguito il consiglio che mi ha dato lui, quindi si
fumava, si faceva una tirata, la sigaretta si abbassava fino a che l’abbiamo
consumata tutta e in quel periodo lì siamo andati avanti la bellezza di 15-20
giorni mangiando un cucchiaio per ciascuno di burac e tirate di
sigaretta: finita la sigaretta abbiamo finito anche le burac.
Certe volte per riuscire a mangiare di più aspettavamo che
i kapò buttavano via le immondizie, gli scarti nei bidoni vicini alle cucine:
assaltavamo i bidoni, ognuno cercava di arrivare per primo. Sai perché?
Perché i kapò vedendoci a fare questa roba qua, ce le davano, ma il primo che
arrivava metteva quasi tutto il corpo dentro il bidone, così mangiava di più
e non le prendeva, perché i kapò pestavano quelli tutti intorno a lui. Io le
ho schivate, ma le ho anche prese.
L’erba l’ho mangiata ad Ebensee perché a Mauthausen c’era
ghiaino, buche e terra, il piazzale era fatto di sassi e tutte le mattine quel
rullo che era all’entrata del blocco 22 serviva per spianare. La manutenzione
del campo era fatta tramite i blocchi liberi e tiravano il rullo tutte le
mattine, lo tiravano in 10, 12, 20 pur che andasse avanti. Pulivamo anche le
baracche, con il culo quando pioveva! Il kapò ci faceva prendere in mano gli
zoccoli e dopo seduti sul pavimento di legno dovevamo asciugare per bene con il
didietro. Fa conto che là o piove o nevica sempre.
Un giorno, io e Vigi ed altri tre o quattro, ci hanno
caricati su una camionetta e ci hanno portato fuori, quasi ad un chilometro
fuori dal campo, dove c’erano due gerarchi della SS che avevano l’abitazione.
Una villa bianca, a sinistra del campo. Sono stati portati dei cadaveri,
perché il crematorio era rotto: la buca l’abbiamo trovata, però abbiamo
coperto i cadaveri, la terra messa a campanile. Man mano che i corpi si
decomponevano la terra calava finché tornava piano. Quella è ad un chilometro
fuori dal campo, due fosse piene di cadaveri. La prima volta che sono ritornato
a Mauthausen sono andato lì per rivederlo, ma soprattutto per portare un mazzo
di fiori o una croce, un crocefisso dove ero sicuro che c’erano dei morti. Lì
mi hanno assicurato, dentro la direzione del campo che non esiste più, [che]
là hanno scavato ed hanno portato al blocco 22 tutti i resti. Quindi ho
accettato che là non esistono più i resti dei cadaveri ma li hanno portati al
blocco 22... perché il blocco 22 lo hanno trasformato in cimitero.
Io ho potuto conoscere il campo quando mi hanno assegnato al
blocco 3, allora là ho visto tutte le baracche, tutta la gente. Alla fine
della conta facevano come... dicevano rompete le righe, allora chi a gruppi,
chi solo, ognuno aveva il compito di andare
a lavorare. Là sul piazzale tra il crematorio e le baracche era nero di teste.
Sono andato al “kartoffenmitterbanu”, sono andato da una parte, sono
andato da un’altra, e tanti andavano sulle fabbriche, specialmente i tornitori
erano richiesti. La baracca n. 10 erano tornitori: andavano via la mattina,
mangiavano in fabbrica; andavano a San Pellegrino dove c’era la fabbrica dei
carri armati Tigre. Tornavano a dormire la sera. Fra questi c’era Bepino Pigat che era stato condannato a
morte con me. Lui era uno specialista, sapeva lavorare al tornio. Una sera noi
del “kartoffenmitterbanu”, io e Vigi, abbiamo portato dentro quattro
cinque patate nascoste in mezzo alle gambe e alla sera, siccome erano blocchi
liberi, avevamo un periodo di svago da poter andare da una parte ad un’altra.
Sapevamo che lui andava in fabbrica e gli abbiamo chiesto di cucinarci le
patate in fabbrica. Gliele abbiamo date la sera e lui ci ha detto di sì. È
andato a lavorare. Alla sera siamo tornati per riprenderci le patate e ci ha
detto che non aveva potuto farle. Siamo tornati la sera dopo, tre giorni, e ci
ha detto che il capo gliele aveva portate vie mentre le stava cucinando: noi
non abbiamo accettato questo discorso e abbiamo capito che le aveva mangiate
lui. Là abbiamo fatto baruffa ci siamo insultati, non siamo più andati a
trovarlo, non ci siamo più scambiati parola, tornando in Italia non ci siamo
lo stesso più parlati per le patate.
Nel periodo più freddo, invece, mi hanno assegnato con Vigi
e altri alla pulizia delle vasche: una era di decantazione, una di
purificazione e una di scorrimento. In queste vasche scendeva l’acqua che aveva
appena pulito i crematori dalla cenere dei cadaveri. Quando ho lavorato là, il
mio lavoro era di rompere con pala o piccone lo strato di schiuma gelata che si
formava a pelo d’acqua. E...vabbè te lo dico, ci siamo nutriti di quella roba
lì, e se riuscivo portavo pezzi di ghiaccio anche a Elio. Basta però adesso,
non ne voglio più parlare perché mi vergogno di ‘sta roba. La gente non sa
cos’è la fame. Ti fa diventare una bestia. Se devi mangiare e non hai niente e
sei uno contro uno dici: “benon! Fen
a pugni, finchè uno dei do”... Basta!
Prima mi chiedevi dell’acqua: mai avuta! Una volta ci hanno
portati a lavarci il viso su una specie di lavandino, ma era più una vasca,
comunque era piena di acqua e sapone, e noi dovevamo lavarci il viso. Abbiamo
cominciato a bere! Ci hanno dato le botte e da quella volta là non ci hanno
più portato a lavarci il viso.
Dove adesso c’è il blocco n. 1 c’erano sette baracche una
dietro l’altra, c’era 1, 2, 3, 4, 5, 6, 7. Adesso c’è quella con i letti a
castello. Lì ce ne erano altre sette e 4 blocchi interi, con il blocco 22
c’erano 21, 23, 24, che non erano in corrispondenza con niente(4). Chi era là aveva un’autonomia di
40 giorni di sopravvivenza. Dovevano vivere con quello che li passava il campo.
Gli davano da mangiare alla loro ora e avevano sempre il compito di andare
dentro in baracca e stare in quei tre metri da una baracca ad un'altra tutta la
giornata, non far gruppo e che venga notte. Quello era il suo sistema, però
erano 40 giorni di sopravvivenza e quello lo ha fatto Elio Mascherin. Lui è sempre stato là. È sopravvissuto, però è
venuto a casa anche lui di 28 kg. Lui non conosce niente di Mauthausen: è
andato dentro al blocco 22 a mangiare e tornare dentro, per tutto il suo tempo
di prigionia. Conosce solo il blocco 22. Parlava con tanti, ma solo un passaggio
di parola. Aveva solo il compito di mangiare e dormire tutta la giornata, non
ha fatto un passo fuori dal blocco 22.
Io e il mio amico non abbiamo fatto conoscenza con nessuno.
Se eri da solo eri sempre con la testa bassa col pensiero della fame e con la
morte sempre davanti. Io e il mio amico parlavamo di tutto ma non di casa
(perché lui aveva due figli), di sopravvivenza, come dovevamo fare: stai
attento là, stai attento qua, guarda che... Lui ha sostenuto meglio la
prigionia, sono io che sono caduto. Lui è arrivato a casa arzillo ancora, io
invece ero finito. Forse l’età e dopo la costituzione sua... per me era
l’età, più carattere. Lui aveva 30-32 anni aveva due figli, uno di 7-8 anni e
un altro di 3-4. Avevamo in testa solo la sopravvivenza, sapendo che gli
americani e i russi venivano avanti, avevamo la speranza di sopravvivere per la
liberazione. Noi cercavamo sempre di sapere qualche novità di quanto avanti
venivano per diminuire i giorni, perché
la sopravvivenza senza acqua e senza mangiare è di 27 giorni... radio baracca... perché io non sono
andato a scuola, ma sopravvivi 27 giorni: non 28 non 25, 27 giorni. Quello che
diceva radio baracca si avverava tutto. Quello che dicevano si verificava
sempre, perché con noi c’erano dottori, preti, frati, di tutte le nazioni ma
tutti assieme, non era da dire che uno era più bravo di un altro, per tutti
quanti c’era la sopravvivenza. Sentendo dire che potevi sopravvivere 27 giorni,
era un aiuto per vivere, se riesco ad avere qualcosa da mangiare posso vivere
per 29 o 30 o 50 giorni. Quello era lo scopo di radio baracca: ci avevano detto
che mangiavamo 27 giorni perché mangiando andavi avanti. Dentro o per italiano
o per tedesco o per inglese o americano, noi sapevamo giorno per giorno quanto
gli americani e i russi venivano avanti, tutto per le scritte dei giornali che le
guardie leggevano. Perché c’era quello che sapeva leggere e parlava il tedesco
e c’era un passaparola di tutto il campo.
C’era un appello, chiamavano un numero e andavi fuori dal
blocco 3. Mi sono sempre trovato con il mio amico e proprio non ci si staccava.
Se per caso il kapò prendeva uno, andavamo fuori tutti e due, noi eravamo come
una persona, attaccati: al “kartoffenmitterban” mi hanno chiamato e lui
attaccato a me è venuto avanti lo stesso. Non c’era numero fisso, indicavano
chi dopo la conta avrebbe lavorato e chi no. Quando si era formato il gruppo ti
davano un nome, quando loro dicevano “kartpffenmitterbanu”. Noi che
sapevamo andavamo via con lui. Andavamo via con un kapò che alzava la mano
dicendo “kartoffenmitterbanu” e lo seguivamo.
I kapò erano tutti su una baracca, nel blocco 2 so che
erano tutti kapò, le altre non so. Quando noi andavamo al 3 loro erano
circondati dai reticolati, li vedevamo dalle finestre. Quando dovevamo fare la
conta veniva fuori il kapò, aveva ordini dal campo che gli diceva: “tu vai
là”, e tirava fuori la gente. Sul piazzale dove ci contavano, il capo campo
era lì tutte le mattine e tutte le sere sopra, sotto l’aquila dove adesso c’è
quel piano sopra. Aveva il suo registro e tutti i capo blocco dicevano in tedesco
“blocco 3, tanti morti” e lui sapeva
quanti ne erano morti durante la giornata, quanti ce ne erano di notte e quanti
alla mattina. Gli riferiva tutto il capo blocco. Io l’ho visto là siccome
veniva fuori dove adesso c’è la chiesa: quella era la sede del capo campo,
c’è una scaletta per andare giù e vicino c’era un’altra scaletta per andare
in ufficio. Dicono che c’era la lavanderia, invece la lavanderia è sotto. Dove c’è la chiesa
adesso una volta c’era l’ufficio del capo campo. Nella lavanderia c’erano delle
donne ma io non le ho viste mai, perché da quando ho fatto la doccia, da
quelle parti là non sono più andato. Io la doccia l’ho fatta una volta sola
all’inizio, all’entrata nel campo, quando ci hanno lavato con l’acqua gelata e
quella bollente.
A Mauthausen, fuori del campo, all’altezza dove ora hanno
eretto il monumento ai prigionieri italiani, a destra mettendosi con le spalle
contro il portone, c’era una baracca. A sinistra c’erano tutte le baracche
delle SS con i figli e le famiglie. A destra della strada da dove si andava
giù per andare alla scala della morte, c’era una baracca: là dentro facevano
esperimenti. Levavano sangue, facevano esperimenti fino a portarli all’estremo
della vita. Io ed altre persone siamo andati dentro in baracca, li abbiamo
portati attraversando tutto il campo e li abbiamo portati nel crematorio...
vivi sì, ma all’estremo... facevano solo gesti... gemiti... irriconoscibili...
roba da 20 kg... proprio tirati all’estremo. In parte al primo crematorio dove
ci sono le docce c’è a sinistra una piastra dove lì i dottori mettevano i
corpi dei prigionieri vivi. I dottori facevano l’operazione, tagliavano,
facevano esperimenti. Io non li ho visti, ma la prima volta che sono ritornato
nel campo c’erano i quadri illustrativi con foto dove tagliavano una gamba e la
mettevano nel braccio e viceversa. Dopo, quelli di una certa altezza li
facevano diventare piccoli di un metro, una persona di 180 centimetri li
facevano diventare tutti piccoli. Fatta l’operazione, c’era un’infermeria di
sopra allo stabile dove c’erano crematori e docce, sull’ultimo... al secondo
piano, li portavano là, dove venivano medicati. Però là chi entrava non
tornava più fuori. Erano privati che eseguivano gli esperimenti, non li ha
visti nessuno, c’erano dottori ed assistenti però noi sapevamo: tramite gente
che faceva manutenzione, gente nelle cucine sapevamo, noi eravamo tutto un
passaparola: qui c’è una cosa, lì ce ne è un’altra. Sapevamo i posti. Però
io personalmente non li ho visti, so che là c’erano, però chi entrava non
usciva.
Quando noi dal campo di Mauthausen, e poi anche a Stetten,
si andava a lavorare incolonnati cinque per cinque sotto braccio, dal campo a
dove si faceva manutenzione a lavorare si passava sulle vie del paese di
Stetten. Si passava al centro del paese e la gente quando passavamo anche in
colonne di duemila persone, si fermavano fuori dalle porte di casa oppure dalle
finestre, ci vedevano passare: sapevano che noi dal campo andavamo a lavorare,
sapevano anche chi eravamo anche perché eravamo vestiti con le tute, tutti con
la tuta con le zebre. Quindi non dire che non sapevano: ci hanno visti tante
volte, specialmente a Mauthausen che sono andato al “kartoffenmitterbanu”:
lì alla stazione c’era sempre un via vai di persone, c’era solo la strada che
divideva la stazione da dove noi lavoravamo, e la gente seduta nel bar vicino
era lì che ci guardava. Nel terreno dove eravamo noi ci eravamo fatti il posto
per andare al bagno perché con la dissenteria che avevamo eravamo sempre lì
ad evacuare. Vedevano tutto quello che facevamo e in che maniera ci trattavano.
Noi lavoravamo ma sapevano che eravamo prigionieri del campo.
Dopo un periodo mi hanno chiamato fuori tramite il mio amico
e allora, visto la mal parata, io e Vigi abbiamo fatto un giuramento, un patto:
“O casa tutti e do o via tutti e do”.
Abbiamo diviso assieme perfino l’aria che si respirava, perché altrimenti da
soli non si poteva sopravvivere.
Abbiamo fatto il “transport”, un poco a piedi e un
poco con un trenino. Si passava per i campi, per le strade, ci sono delle
grandi coltivazioni di colza, passavamo per i bordi dei campi e man mano che
passavamo ognuno sradicava la colza: siamo arrivati 20 metri, eravamo
tantissimi, sempre cinque per cinque. Io essendo davanti ho potuto averne più
di una manciata, e le ho prese sia per me che per il mio amico Vigi. Ci hanno
fermato, noi le avevamo nascoste, però ci veniva fuori un fiore: ci hanno
fatto aprire le tute, ci hanno preso tutto, l’hanno buttato a terra e ci hanno
dato delle botte, dei pugni, non ci hanno né fatto male né ucciso però ci
hanno... sì, non dovevi mai farti vedere di mangiare, dovevi seguire quello
che facevano loro e mangiare quando che loro te lo davano, non prima.
Arrivati all’entrata di Stetten c’era come una sagoma e ci
hanno fatto vedere che c’erano una decina di impiccati, in modo che, se
sgarravi, se non stavi ai loro ordini, quella era la nostra fine. Là sono
stato un periodo. Ci hanno messo a dormire, sempre concentrati in una caserma
di cavalleria, ma non c’erano più cavalli, ci hanno messo a dormire sulla
foraggiata dove dormivano i cavalli, sullo sterco dei cavalli. Alla mattina si
partiva sempre a gruppi di 50-100, non ricordo quanti, si aveva il compito di
andare in stazione a colmare i buchi dei bombardamenti, perché la stazione era
stata completamente distrutta. Allora là si andava giù, si passava tutto il
paese in colonne e ci mettevano a tappare una buca. Su mille persone si aveva
una ventina di pale, il resto, o sassi e terra, bisognava da inginocchiati
gettarla all’interno delle buche ed essere tutti quanti operanti. Un giorno
siamo lì che gettiamo la terra, ed io e questo Vigi stiamo parlando italiano,
quello che faceva la guardia, non un kapò, un militare che faceva la guardia,
ci ha interpellato e ci ha chiesto se eravamo “italiani”, - “Sì”, gli abbiamo
risposto e lui: “Da dove? “ e noi: “Da Pordenone”. Lui dice: “Io sono appena
rientrato”, per quello che potevamo capire e lui che parlava poco italiano: “Bello
Pordenone, una bella città, si stava bene a Pordenone”, ci diceva che stava
bene a Pordenone. Mentre sto parlando con questo militare, il kapò ha visto
che non gettavo materiale, è venuto per dietro con il frustino e il piombino e
mi ha dato una botta all’altezza della fronte, mi ha rotto la scatola cranica,
mi ha dato una frustata che sono caduto a terra. Vigi visto che ero a terra, e
per quello che era per terra c’era subito il colpo di grazia, mi ha preso e mi
ha messo in piedi. Dopo un po’ di tempo ho riacquistato i sensi e con un po’ di
movimento sono arrivato alla sera.
Durante tutti i giorni che eravamo c’erano i bombardamenti e
i kapò non ci lasciavano lavorare quando c’erano i bombardamenti. Ci portavano
fuori dalla stazione su un boschetto, come nascosti; là ci facevano sedere
tutti quanti in riga, ordinatamente, seduti a terra ed aspettare. Allora noi ci
si segnava il posto che occupavamo essendo seduti a terra e lì, quello era il
nostro pranzo: il tappeto di erba che avevamo segnato attorno. Ci serviva a
quello. Un giorno dove ci avevano fatti sedere, c’era come un cespuglio, una
pianta e dentro questa pianta, c’era un mazzo di funghi ed una lumaca. Allora
Vigi mi dice : “Luciano guarda, ci sono i funghi qua”, “E no - gli ho detto - guarda
che sono avvelenati...” e Vigi: “ No, li conosco”; “bene - allora gli ho detto
- tu mangi i funghi e io mangio la lumaca”. Abbiamo fatto così, ma io non mi
sono accontentato di metterlo in bocca a crudo com’era, ho cominciato a masticarlo: masticando
ha cominciato a fare le bave, le bave hanno cominciato a riempirmi la bocca e
non ce la facevo più ad inghiottire, stavo soffocando. Allora Vigi strappando
un pezzo della tuta mi ha aperto la bocca e mi ha tolto le bave. Così ho
potuto liberarmi, lì è passata la giornata.
Un altro giorno stiamo mettendo giù dei sassi per tappare
una buca e viene mezzogiorno, suonano le sirene e le guardie, che si erano
portate via il mangiare in uno zainetto, mangiavano: noi dovevamo continuare a
lavorare. Io ero vicino a questa guardia che si era messa a mangiare un pezzo
di carne con l’osso, ha mangiato la carne ed ha gettato l’osso a un metro da
me: io ho fatto un salto per prendere l’osso, visto il mio salto per prendere
l’osso con la scarpa mi ha pestato la mano e con la mano tutta rovinata ho
dovuto lasciare lì l’osso, non ho potuto nemmeno assaporare quell’osso lì, e
sanguinando con la terra ho potuto fermare il sangue, acqua mai avuta! In
cinque mesi di campo io non ho mai visto una goccia di acqua, né per bere né
per lavarmi il viso, quindi la terra era quella che mi poteva fermare il
sangue.
Nel frattempo mi era venuta una dissenteria leggera, quindi
si doveva chiedere di andare al gabinetto e in velocità bisognava uscire dalla
colonna e con i pantaloni in mano seduti sulle ginocchia si doveva evacuare
senza pulirsi e ritornare nella colonna. Una mattina che mi faceva male la
ferita a causa della botta in testa, perché mi usciva molto pus, il mio amico
ed io abbiamo deciso di farmi fare la visita medica. Ho fatto domanda di andare
in infermeria e facendo la fila, perché non c’ero solo io, ma eravamo una
ventina di noi, a fianco della coda c’era una baracca con una finestra dove
c’erano dei malati che erano dentro in infermeria. Uno dalla finestra della
baracca, con il numero e il triangolo rosso distintivo degli italiani, mi ha
chiesto: “ Sei italiano tu?”, “ Si”, gli ho risposto e lui mi disse: “Torna
indietro... non entrare perché ti tengono dentro e da qua non esci più”, nel
momento stavo per svenire dato il caldo, la febbre e i dolori, avevo come un
foruncolo, un’infezione forte con dolori, mi sono inginocchiato a terra ed
intanto la coda si faceva avanti e mi saltava, io mi sono ripreso, ho preso le
mie scarpe e sono tornato indietro. Nel frattempo il mio amico Vigi, visto che
ritornavo indietro, è venuto a vedere il perché e siamo ritornati in baracca
e abbiamo continuato il nostro lavoro nella baracca ed io ho obbedito a quello
che mi ha detto l’uomo nella baracca.
Durante la strada quando si andava dal campo al posto di
lavoro lungo la strada c’era l’erba, allora man mano che venivamo avanti io e
questo Vigi, io ero sempre a sinistra, il primo dei cinque, il secondo era Vigi
e poi altri, man mano che camminavamo vedendo l’erba che secondo me era più
commestibile per noi, con la mano sinistra strappavo l’erba e gliela passavo al
mio amico di modo che la nascondevamo sotto la tuta e pian piano, ma non
dovevamo farci vedere che masticavamo, dovevamo lavorarla in bocca in modo da
mandarla giù. Un giorno tornando indietro vedo due o tre piante di cren,
allora gli ho detto a Vigi: “Varda lì che lè el cren”, gli ho dato una
strappata e abbiamo cominciato a mangiare il cren: e quello ci stava per far
morire, perché la foglia del cren ha un gas cattivo, insomma avevamo il gas
che ci veniva fuori dagli occhi e dalla bocca, lo abbiamo vomitato altrimenti
morivamo, per questo dico che l’erba più cattiva è il cren, le radici si
mangiano. L’erba più buona invece sono le radici delle viole.
Un giorno sempre a Stetten in stazione dovevamo portare una
rotaia, dall’altra parte c’era un recinto con dei prigionieri militari
italiani, catturati l’ 8 settembre, quando c’è stato l’armistizio. Avevano
delle loro baracche, si facevano da mangiare, erano trattati meglio di noi.
C’era solo una siepe che ci divideva, quando abbiamo potuto parlare assieme,
uno di quelli italiani lì che si era portato il mangiare di mezzogiorno, ci ha
passato a me e a Vigi un panino dei suoi. Quando l’avevo io in mano il panino ho
detto a Vigi: “varda qua che ho un fià de pan”, un altro prigioniero vicino a
me mi ha preso il panino e lo ha messo in bocca... io e Vigi lo abbiamo preso
per la testa, gli abbiamo tirato fuori il pane dalla bocca, abbiamo fatto una
lotta contro uno, insomma lui lo abbiamo lasciato a terra con la bocca aperta
perché con la nostra forza lo abbiamo... e abbiamo preso il pane, non so se lo
abbiamo... ci interessava solo il pane, eravamo all’estremo dell’appetito, solo
parlare di pane avevamo quasi mangiato, solo parlandone ci si riempiva la
pancia.
I russi sono i più generosi! Altro che gli ebrei. I russi!
Pensa che un giorno intanto che stavamo riempiendo una buca assieme a
quattro-cinque russi, uno di questi trova una scatola con dodici formaggini. Sai
cos’ha fatto? Li ha divisi! Due a testa! Poteva mangiarseli lui o tra russi. Ne
ha dati due anche a me e due a Vigi facendo segno con la bocca di non farci
vedere che masticavamo. Un altro giorno a Stetten allora ci dicono: prendete
delle pale, eravamo una cinquantina di noi e ci hanno portato in una ferrovia a
spalare la neve dalle rotaie perché doveva entrare il treno. Io i Vigi siamo
davanti che buttiamo via la neve e una guardia che ci accompagnava, ci parlava
in italiano; alle undici si è messo con la gavetta e il gas a spirito e si è
acceso il gas. Ha messo la gavetta con acqua e si è lessato le patate,
arrivato mezzogiorno ha tirato fuori le patate e le ha spellate, si è messo a
mangiare patate: aveva l’acqua delle patate e le bucce, non so il perché ho
detto a Vigi: “Vigi va a domandarghe l’acqua e le scorze delle patate” e
lui: “Varda che el me da”, era vestito da borghese, era un trentino, uno
di quelli dell’Alto Adige, parlava sia il tedesco che l’italiano. Allora Vigi
ha lasciato la pala ed è andato a domandare l’acqua; ma invece di dargli
l’acqua ha preso il moschetto per la cima e gli ha dato due botte. Vigi ha
messo la code in mezzo alle gambe, è tornato da me e mi ha solo ringraziato: “Sutu
contento adess?”, ha ripreso la pala e abbiamo continuato a buttar via la
neve. Invece di mangiare le ha prese. Non mi ha mai rimproverato, mi ha solo
detto: “Sutu contento adess?”. Adesso lui è morto, in Canada, è morto
da 4- 5 anni. Dei quattro di Mauthausen siamo ancora in due vivi, io e Mascherin,
che faceva il sarto.
Uno dei quattro di Fagnigola, Camillo Bertolla è venuto da Mauthausen con un trenino una
giornata a Stetten. Ha fatto una notte sul trenino, ma non è rientrato a
Mauthausen. Lui invece di essere montato sul treno è andato sotto il treno, il
treno è partito e lui è restato fuori. Alla mattina, non è stato furbo, ha
cercato subito una famiglia per mangiare, è andato da una famiglia di Stetten
e lì gli ha chiesto da mangiare, lo hanno accettato, gli hanno preparato il
caffelatte ma nel frattempo hanno telefonato al campo e sono venuti a
prenderlo; lo hanno portato dentro, quello è stato fortunato, ha preso tante
di quelle botte, gli hanno rotto le dita delle mani, non lo hanno ucciso, lo
hanno riportato al blocco 22 insieme con Elio
Mascherin. Dopo è riuscito a venire anche lui a casa ed ha sopportato
meglio lui lo stesso il campo rispetto a
Mascherin, perché Camillo, pesava un quintale; a Mauthausen per un periodo gli
levavano il sangue. Allora eravamo al blocco 22. A una certa ora alla sera dopo
la conta lo hanno chiamato fuori, lui aveva una corporatura... pesava un
quintale, una carnagione bianco e rossa, lo hanno chiamato fuori e gli hanno
prelevato sangue perché lui è tornato dentro, è lui che ce lo ha detto, io non
ho visto, è lui che ce lo ha detto, gli hanno levato del sangue per tre o
quattro volte e gli davano un piatto di “suppe”, dopo gli hanno dato da
mangiare, gli hanno levato una siringa di sangue per mandare al fronte e lo
hanno rimandato in baracca, per tre sere lo portavano là solo perché avevano
constatato che aveva sangue da mandare al fronte. Però ha resistito anche lui,
perché non so in che blocchi sia stato e non so cos’abbia fatto, non abbiamo
più avuto contatti da quando siamo usciti dal campo, erano i primi 8-10 giorni
che ero al blocco 22.
Là, al blocco 22, ho fatto un periodo di un mese circa, poi
ci hanno sorteggiato per fare un altro “transport” e anche lì abbiamo
fatto un tratto a piedi e uno in camionetta: ci hanno portati ad Ebensee. Ebensee era un campo dove dovevi fare la
stessa fine, come negli altri, lì, secondo loro, era un campo per il nostro
riposo, per la fine della nostra sopravvivenza. Una notte, sia io che il mio
amico Vigi, ci hanno fatti uscire e hanno fatto un appello. Con una squadra di
una cinquantina di noi, si andava giù dove hanno fatto la galleria dove c’era
la bomba V-1, la V-2 e in sperimentazione la V-3. Quindi noi dovevamo
continuare a scavare la galleria e lì lavoravamo. Non eravamo controllati,
potevamo entrare ed uscire. Fuori dalla galleria c’erano dei bidoni di catrame
e tutti quanti cercavamo di prendere questo catrame caldo che serviva per
impedire il passaggio dell’umidità nella galleria e con un sasso mi sono preso
una manciata di... e abbiamo cominciato a masticare il catrame; il catrame è
gommoso e ci faceva far saliva: la saliva è quella che mi ha tradito, l’ho
tenuta in bocca per parecchio tempo e masticando e mandando giù la saliva mi
ha corroso la carne, perché carne mangia carne. Quindi dopo un periodo che ero
lì ero arrivato proprio allo stento, barcollavo, non parlavo neanche più bene
e sempre questo mio amico cercava di procurarmi qualcosa, era sempre accanto a
me, come dico è quello che mi ha salvato. Arrivato un giorno passa una squadra
delle SS, mi vedono seduto lungo una parete della baracca, ero a testa bassa e
si segnano il mio numero di matricola, quindi non avendo più il numero della
matricola non avevo più il posto per andare a dormire nella baracca. Per
questo che ad Ebensee io risulto morto. Allora tramite il mio amico la sera che
siamo entrati in baracca, là si dormiva sui letti a castello, io sotto e lui
sopra perché su un letto a castello dormivamo in quattro: quella sera lì si
dormiva in cinque, io sotto e lui per sopra. Abbiamo fatto la notte, alla
mattina proprio all’ultimo momento, all’ultima giornata hanno dato l’allarme:
che si vada sulla piazza d’armi, e là con tutte le lingue, perché là eravamo
assembrati di tutte le nazioni, dottori, professori, ingegneri, preti, là non
c’era distinzione, avevamo solo un numero e una divisa tutti uguali, sia là
che a Mauthausen, e nel momento in cui ci hanno parlato in italiano hanno
detto: “Non fate confusione, state buoni che fra qualche giorno gli americani
vengono a liberarvi...”. Ed è incominciato il disastro, tutti quanti credevamo
di essere già liberi e li abbiamo passato la giornata, non avevamo più posto
nella baracca, durante la giornata fuori dal campo la gente che osservava,
perché c’erano sempre dei prigionieri che occupavano le cucine o erano addetti
alle pulizie, ci hanno detto che i
tedeschi erano con le camionette e con i bidoni di benzina, che circondavano il
campo perché alla notte dovevano darci fuoco.
Durante la giornata noi gli americani li abbiamo sentiti che
erano sulla collina e che stavano venendo avanti, però non sono venuti a
liberarci! I prigionieri russi, prigionieri che erano assieme a noi, avevano un
posto di sopravvivenza, erano addetti alla pulizia del campo e avevano il
proprio rancio: si facevano da mangiare per conto loro, erano organizzati.
Hanno assaltato le garitte delle SS che erano in cima con le mitragliatrici ed
hanno disinnescato la corrente degli articolati [reticolati], hanno aperto le
cucine dove facevano da mangiare ed hanno aperto le porte: là chi riusciva a
camminare poteva andare a prendersi qualcosa e durante la giornata, quando i
russi hanno disarmato i tedeschi, il mio amico insieme ad altri hanno rotto la
rete e sono riusciti ad evadere. Una volta usciti sono andati nelle case dei
borghesi e al ritorno mi ha portato mezzo litro di latte freddo e un uovo e lì
abbiamo passato un’altra notte nel campo, perché non avevamo posto, eravamo
allo sbando. Alla mattina, visto che gli americani non erano preparati a dar da
mangiare a tutta la gente che era nel campo, loro hanno mangiato ma noi no!
Allora il mio amico mi ha detto: “Io Luciano non resto dentro, mi vae casa a
pie”, e io siccome non ragionavo più, ho sempre obbedito a lui, ci siamo
sempre aiutati al massimo, abbiamo deciso di venire a casa a piedi.
NOTE
∗ Alessandro Fantin, nato a Motta di Livenza (Treviso) nel
1983, ha conseguito la laurea di primo livello in storia presso l’Università
degli Studi di Venezia “Cà Foscari”. Tesserato con l’ANED di Udine, studia il
problema delle deportazioni in particolare nell’area friulana.
1 - In molte
altre testimonianze l’amicizia e il reciproco sostegno tra due compagni di
sventura, ha consentito la sopravvivenza durante la prigionia; si veda A. Bravo
- D. Jalla, La vita offesa. Storia e memoria dei Lager nazisti nei racconti
di duecento sopravvissuti, Angeli, Milano 2001.
2 - N. Revelli, Il mondo dei vinti.
Testimonianze di vita contadina, Einaudi, Torino 1977, p. VII. 185
3 - Kartofelln-mit-banhof: Kommando di lavoro per
la copertura delle buche dove erano immagazzinate le patate.
4 - I blocchi 21, 22, 23, 24 erano separati, dal
resto del campo, da una cinta muraria. Erano completamente isolati.
Fonte: da Sopravvissuto a Mauthausen. Testimonianze di Luciano
Battiston, (DEP n.7 / 2007) , a cura di Alessandro Fantin. Universita’
Ca Foscari.
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