di Caterina Annese
Il mio intervento non mira affatto a fornire una disamina
esaustiva e rigorosa del pensiero filosofico di Ipazia e neppure ad esaminare
nel dettaglio i caratteri specifici di quella che si suole definire “corrente
neoplatonica”.
Vorrei piuttosto focalizzare la mia attenzione sulla frequente
definizione di Ipazia come “martire della libertà di pensiero” nonché
sull’interpretazione veicolatane dal pensiero di genere, nei suoi evidenti
limiti teorici.
Tutta la vita di Ipazia, fu votata al pensiero in senso lato
e in senso specifico, settoriale: ciononostante, Ipazia non condusse una
puntuale disamina critica delle opere di Platone e Plotino, non ne fu cioè un’esegeta,
sebbene ereditò una sorta di “purezza” dal e del platonismo, specificandone
perfetto connubio tra scienza e filosofia teorizzato da questa corrente di
pensiero.
Di seguito, fornirò solo alcune delle più rilevanti
testimonianze tratteggiate su di lei: in un epigramma, Pallade scrive di lei:
«[q]uando ti vedo mi prostro, davanti a te e alle tue parole, infatti verso il
cielo è rivolto ogni tuo atto»1.
Questo passo sottolinea da un lato la sua estrema tensione
verso la filosofia, quale trascendenza e aspirazione al “cielo” e dall’altro il
suo agire concreto, la pratica. Ipazia si dedicò, infatti, allo studio della
filosofia come a quello delle arti pratiche, dell’astronomia e delle
matematiche.
Damascio scrive di lei «gettandosi addosso il mantello e
uscendo in mezzo alla città, spiegava pubblicamente a chiunque volesse
ascoltarla Platone o Aristotele o le opere di qualsiasi altro filosofo»2.
Socrate Scolastico rilevava: «la città a buon diritto la amava e la ossequiava,
e i capi prima di prendersi carico di questioni pubbliche, erano soliti andare
da lei»3.
Damascio precisa peraltro che oltre che nell’arte d’insegnare
questa si distinse altresì nella virtù pratica: era, dunque, non solo maestra
di chiara fama, ma anche insigne esponente nella vita politica di Alessandria.
Ciò che caratterizza la figura di Ipazia, nel racconto della
sua vita, risiede proprio nella sua inclinazione al pensiero libero e
inarrestabile: ogni aspetto della sua biografia appare agevolmente
riconducibile ai suoi studi, al suo amore per la filosofia, intesa a sua volta
come problematizzazione e interrogazione del circostante. Seguace di un sistema
eclettico, Ipazia può essere considerata come una gnostica che cercò di
difendere la rinascita del platonismo contro il cristianesimo. I neoplatonici,
che si diffusero dal III al V sec., professavano infatti la fusione di tutte le
chiese in un unico organismo, a sfondo più filosofico che teologico, più
intellettuale che ecclesiale: la tendenza erudita, che aveva gradualmente
conquistato le scuole, era divenuta infatti preponderante, ponendo in secondo
piano la speculazione prettamente metafisica.
Formalmente, le possibilità d’intesa col cristianesimo
sembravano essere maggiori che altrove, ma proprio la sensazione che questa
forma di neoplatonismo potesse costituire un’alternativa valida al
cristianesimo, ne faceva dei cristiani i nemici più accesi, poiché quest’ultimi
mal digerivano l’accentuato interesse del neoplatonismo per le questioni di
carattere scientifico.
Dopo aver introdotto il ruolo storico e contestuale di
Ipazia, vorrei accennare alle ragioni per cui il femminismo ed il pensiero di
genere si impadronirono della sua figura, più per il suo dichiarato valore
simbolico che per quello squisitamente teorico, impiegandone appunto la
summenzionata definizione di martire del pensiero in una chiave del tutto
“personale”, ovvero quella connessa alle rivendicazioni dell’identità di
genere. La figura di Ipazia è stata assunta dal pensiero di genere sia come
capro espiatorio della violenza patriarcale, perpetuatasi a più riprese nel
corso della storia, sia come esempio per quelle donne che intendano promuovere
o condividere iniziative scientifiche e più ampiamente culturali. Ipazia
diviene così, nell’immaginario di molte, baluardo della libertà di pensiero
specificamente femminile, sfidando l’autorità maschile.
Occorre a tal proposito tener conto del fatto che spesso il
pensiero di genere si “impossessa” – nel vero senso della parola – di storiche
figure femminili, al precipuo scopo, più o meno dichiarato, di accreditare e
avallare le proprie tesi, assegnando così un’ulteriore riferimento storico alle
proprie rivendicazioni. D’altra parte, la libertà del pensiero costituisce una
delle tematiche più care alle femministe, che, a partire dagli Women’s
studies, hanno cercato di ripercorrere la costituzione del pensiero delle
donne nella storia, cercando di “riesumare” figure di pensatrici spesso
superficialmente cancellate e oscurate dall’onnipresenza del pensiero maschile.
Ancora oggi, numerose teoriche del pensiero di genere discutono della presenza
e dell’accesso delle donne agli spazi pubblici, che, arendtianamente, si
interpretano come luoghi dell’agire, in cui ciascuno manifesti il
proprio “chi”, “luoghi”, appunto, come la politica, la ricerca, la scienza.
Per tentare di comprendere ciò che induce le teoriche del
pensiero di genere a “sfruttare” il pensiero e la biografia di alcune “grandi
del passato”, fra cui, appunto la stessa Ipazia, tornerò ad analizzarne
ulteriormente, seppur stringatamente, alcuni racconti sulla sua vita,
interpretandoli tuttavia alla luce delle categorie specifiche del pensiero di
genere.
Socrate Scolastico, come si è visto, ne elogiava la parrhesia,
intesa come libertà interiore che, tuttavia, si manifesta costantemente
nell’atto, ovvero nella “parola pubblica”. La sua libertà di parola e azione è
“sacra”, sia perché corrisponde alla sua determinazione “a parlare secondo
verità”, sia perché in tal senso la parola diventa ulteriore e differente
autorità, trasgredendo l’ordine imposto dal genere maschile, di tradizione
secolare, e che in quegli anni fungeva da modello di riferimento per la
costituzione della Chiesa.
Gli impedimenti all’accesso della donna nello spazio
pubblico, scaturivano, in quell’epoca, soprattutto dalla definizione
elaboratane dall’ordine patriarcale: lo spazio pubblico coinciderebbe infatti,
secondo questa prospettiva, con lo spazio riservato esclusivamente agli uomini.
L’ostacolo che impedisce l’azione delle donne nello spazio pubblico acquisisce
pertanto un carattere marcatamente simbolico e necessita, di conseguenza, di
un’opportuna presa di coscienza. Il gesto libero mira a far vacillare la
costruzione maschile: come afferma ancora Socrate scolastico, per Ipazia «non
era motivo di vergogna [...] lo stare in mezzo agli uomini»4
e dunque il suo agire le permette di ridisegnare uno spazio specifico nel quale
la donna può muoversi.
La libertà di Ipazia diventa così, per tutta la tradizione
di studi sulle donne, un evento espressamente politico e di genere: una sorta
di variabile impazzita che esplode in seno all’ordine sociale e simbolico di
stampo patriarcale, attraverso la sua autoaffermazione, o come dichiara la
Arendt, attraverso il proprio gioco nel mondo. Ipazia diventa cosi un
esempio di come, per dirla con Carla Lonzi, il destino imprevisto del mondo
corrisponde ad un ricominciamento del cammino, per percorrerlo nella
prospettiva della donna, intesa come soggetto agente. A sua volta, la Zamboni
puntualizza che Ipazia rappresenta quella forza femminile capace di rinominare
il mondo attraverso i propri sogni e le proprie azioni, cioè,
heideggerianamente, riprendendone possesso attraverso la parola.
Hypatia 1885, Charles
William Mitchell, Laing Art Gallery
Ci sono altri episodi della sua vita che sono stati
utilizzati per sottolineare l’identità di genere di Ipazia: si narra che, di
fronte ad un allievo che si era invaghito di lei, Ipazia lanciò la sua pezza
sporca di sangue mestruale e gli disse: «questo, dunque, ami, o giovane, niente
di bello»5.
Le femministe, a loro volta, intravedono, in questo gesto,
quello della donna capace di “liberarsi” del suo corteggiatore, con creatività,
intelligenza e coraggio. Personalmente, sono piuttosto dell’avviso che il gesto
in oggetto possa essere interpretato in chiave platonica e comunque
squisitamente filosofica: Ipazia intende mostrare la vera natura della
bellezza, inducendo il suo allievo a ritrovare il giusto rapporto con la sua
maestra e trasformando la sua passione per lei in amore per la verità. Al
contrario, il pensiero femminista vi intravede esclusivamente la rivendicazione
della propria identità di genere. Mostrare il proprio sangue diviene una sorta
di presa di coscienza di ciò che un donna è, di ciò che si da di una donna
insieme al suo sesso: né bello né brutto, è un tratto del suo corpo indipendentemente
dalla sua volontà. L’essere donna è un dono che, per sua definizione, non si
può rifiutare, un dato di fatto che stimola e deve stimolare la conoscenza di
sé e del proprio corpo. Quel gesto, che probabilmente fu fatto per mostrare
come un filosofo che aspiri alla purezza non possa desiderare l’amor carnale,
diventa dunque simbolo della rivendicazione femminista del proprio corpo.
Il sangue mestruale, che nella cultura greca, cristiana ed
ebraica, rappresenta la materia che deve essere occultata, perché vile, sporca,
fonte di male e dolore, diviene, peraltro, per i cristiani la giustificazione
dell’esclusione delle donne dal sacerdozio e da qualsiasi forma di ministero.
Di contro, le vergini, per la cultura cristiana, sono donne pure, che
impedivano alla lingua qualsiasi parola discordante, agli occhi qualsiasi
sguardo sfrontato, alle orecchie suoni sconvenienti, indossando abiti modesti e
non lasciando trasparire il riso dal volto, perché create esclusivamente per
essere d’aiuto all’uomo6.
Per le femministe, Ipazia, con il suo gesto, frantuma quest’ordine, entrando
nello spazio pubblico, storicamente maschile, attraverso l’affermazione della
razionalità e attraverso la parola, scontrasi con l’ideale femminile del tempo.
Per quanto riguarda la sua morte, le femministe sono tentate dall’intravedere,
nella sua uccisione, l’ennesima espressione del crimine perpetuatosi, nel corso
della storia, per mano della mentalità patriarcale.
In quest’ottica, il fatto che Ipazia fosse donna costituisce
un dato imprescindibile sia per comprendere le modalità concrete della sua
morte, sia per spiegare la sua importanza simbolica come martire del pensiero.
In prima istanza, occorre chiarire che, nell’ottica di
genere, la definizione di “natura della donna” si radica nel rapporto di
dominio e subordinazione fra uomo e donna, che peraltro si traduce in un
preciso intento. È dunque per motivi strettamente politici che i Padri della
Chiesa avrebbero legittimato un’ideologia oppressiva nei riguardi delle donne,
seppur in nome di Dio. Sebbene non ne furono gl’inventori, quest’ultimi
assegnarono al patriarcato una dimensione cosmica: la donna che osasse
fuorviare dal ruolo assegnatole, per affermare la propria identità, sarebbe
stata immediatamente colpita e punita della società patriarcale.
Per il pensiero di genere, il vero potere della donna
risiede piuttosto in quello di conoscere il mondo, saper agire in esso, nella
piena consapevolezza della propria identità. Così Ipazia, esercitando proprio
questo potere e parlandone agli altri, avrebbe confermato ostinatamente il suo
ruolo di donna nella società. Questo atteggiamento avrebbe a sua volta
atterrito la Chiesa, intendo, soprattutto il fatto che la si ascoltasse e la si
amasse.
Ipazia sarebbe dunque stata eliminata perché reputata un
elemento di palese disturbo, derivante dalla sua conclamata indipendenza,
dall’antagonismo fra poteri – quello imperiale e quello ecclesiastico – che
peraltro s’incarnavano nell’esercizio di due uomini, Oreste e Cirillo,
impedendo così che i due poteri e i due uomini arrivassero a trovare un
compromesso per una conveniente alleanza. A ciò si aggiunga un ulteriore senso
di rivalità provato dall’allora capo della Chiesa alessandrina nei confronti di
quella donna che, stando alla testimonianza di Sinesio, esercitava l’autorità
di una sacerdotessa. La filosofa e il vescovo erano entrambi sprovvisti del
potere della forza; l’efficacia della loro azione dipendeva dall’autorità della
loro parola e dal credito di cui godevano presso i detentori del potere
politico.
Sempre per le femministe, Ipazia ripresenterebbe il ruolo
che la donna rivestiva millenni addietro: la sacerdotessa della Madre Terra, che
con gli strumenti del Sapere e della Logica riesce a trasmettere ai suoi simili
le Verità dell’Universo. In questo senso Ipazia era facilmente assimilabile ad
una strega, come definita nel Malleus maleficarum, sebbene, in realtà,
non fosse null’altro che una donna colta, consapevole e desiderosa di aiutare
l’altro con le sue arti.
Fu Cirillo, vescovo e patriarca di Alessandria, ad ordirne
il martirio; Socrate scolastico e Filostorgio raccontano che la sua
elevatissima cultura sorgeva, in primo luogo, dalla sua rinomata libertà di
pensiero e azione. Fu dunque questa la causa della sua uccisione, la ragione
per cui Cirillo la credette un ostacolo al suo potere.
La sua morte fu brutale, si cercò di annullare il suo corpo
smembrandolo, come a voler cancellare per sempre la sua figura, il suo
pensiero. La mutilazione del suo corpo è per le femministe sinonimo di
accanimento contro questa filosofa proprio in quanto donna.
Anche questo è un esempio della tentazione femminista di
impossessarsi della figura di Ipazia, come martire non del pensiero in quanto
tale, ma del pensiero di genere.
A questa tentazione, una storica italiana della tarda
antichità, Silvia Ronchey, ha risposto con un’analisi storica che spiega il
crimine in esame nei termini di un’effettiva rivalità tra la figura del vescovo
e quella del filosofo in senso lato. La Ronchey nomina Ipazia al maschile.
Interpretare Ipazia sulla scorta delle categorie femministe
diventa così, secondo la Ronchey, un’ulteriore conferma della fissità dei
ruoli, in quanto, così facendo, si rischierebbe di privilegiare esclusivamente
il suo martirio piuttosto che il suo pensiero, come se, cioè, Ipazia fosse
importante solo perché “donna martire” e non martire del pensiero tout court,
al di là della sua caratterizzazione e differenza di genere.
In questa sede, ho cercato di fornirvi, un esempio di come,
spesso l’ideologia femminista utilizzi le proprie categorie per interpretare
figure storicamente rilevanti per le proprie scoperte, per il proprio pensiero,
per il proprio ruolo nella società, per il loro rapporto tra Chiesa e potere,
introducendovi, seppur per grandi linee, la biografia di Ipazia e il suo ruolo
nel pensiero di genere.
Al contempo, da quanto sinora tratteggiato, sorgerebbe
a mio avviso un’ulteriore questione: occorre ricordare Ipazia esclusivamente in
quanto donna, come vorrebbero le femministe, oppure soprattutto in quanto
intellettuale, pensatrice, astronoma, prescindendo cioè dalla sua identità di
genere?
Mi domando peraltro come mai, tenuto conto dell’indubbia
rilevanza della ricerca della verità e dell’agire nel mondo condotti da Ipazia,
sinora, o perlomeno prima dell’uscita di Agorà in
Italia, la sua figura sia stata ricordata solo dal pensiero di genere. Mi
chiedo, cioè, perché non siano stati i filosofi di professione, posto che ne
esistano, “in genere” e non “di genere”, a interrogarsi sulla sua figura, sulla
sua carica simbolica.
D’altra parte, la libertà di pensiero non può essere ridotta
esclusivamente ad una rivendicazione legata al genere, all’identità sessuale,
per quanto quest’ultima occorra pure ad assegnare certe significative
differenze: sono pertanto dell’avviso che Ipazia dovrebbe essere ricordata non
in quanto “donna martire”, ma in quanto filosofa tout court, ovvero per
il suo pensiero piuttosto che esclusivamente per il suo genere. In tal modo
peraltro si accredita una certa vulgata non certo trascurabile secondo cui “la
libertà della donna la si fa esclusivamente in funzione dell’uomo”, ovvero
rientra nelle retoriche, più o meno manifeste, di una certa fallocrazia
imperante.
BIBLIOGRAFIA
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C. Zamboni, Pensare in presenza, Conversazioni, luoghi,
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C. Zamboni, Parole non consumate. Donne e uomini nel
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Fonte: visto su ARIANNA
EDITRICE del 05 febbraio 2014
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