Massimo Fini
LUNGA INTERVISTA A MASSIMO
FINI, SULL'ONESTÀ DEL GIORNALISMO E SULLA FEDELTÀ A SÉ STESSI.
Andrea Coccia
Quando sei convinto di avere un appuntamento a casa di
Massimo Fini alle 6 di sera e alle 4, mentre stai riguardando le domande che ti
sei preparato, il telefono squilla con il suo nome sullo schermo, sei portato a
pensare che l’intervista che stavi aspettando da settimane non sia esattamente
partita con il piede migliore. Prima di rispondere ti schiarisci la voce, poi
scorri il tuo ditone sullo schermo e rispondi: «Sì, pronto, buonasera... sì...
effettivamente... alle 6... non c’è problema... in un quarto d’ora sono lì...».
La prima volta che vidi Massimo Fini fu un pomeriggio di
settembre della prima metà degli anni Duemila, mi sembra il 2004. Eravamo a
Mantova, lui in una delle sue rare apparizioni festivaliere — a presentare Sudditi.
Manifesto contro la democrazia, che era uscito da poco per Marsilio — io
nelle vesti di un giovane volontario del Festivaletteratura, di quelli con la
maglietta blu. Non avevo idea di chi fosse, non lo avevo mai sentito
nominare e men che meno l’avevo sentito parlare o avevo letto qualche suo
articolo. Era un perfetto sconosciuto, ma mi capitò di prestare servizio proprio
al suo evento, e lo ascoltai, seduto per terra, con le gambe formicolanti, per
una bella oretta e mezza. Alla fine, quando mi alzai, ebbi la netta sensazione
di non essere esattamente la stessa persona di quando mi ero seduto. E non
soltanto perché non sentivo più la gamba destra. Nei dieci anni che
separano quella gamba formicolante da quel telefono che vibra sono successe un
sacco di cose: Fini ha scritto altri libri — ma non è più tornato a Mantova —
ha cominciato a scrivere sul Fatto Quotidiano (che all’epoca ancora non
esisteva) e ha fondato un movimento. Io, invece, che intanto sono
decisamente meno giovane e non metto più magliette blu nemmeno durante il
Festival, di Massimo Fini mi sono letto un sacco di libri: cominciando da Sudditi,
che lessi d’un fiato proprio quella sera, passando poi per Il vizio oscuro
dell’Occidente, il Di[zion]ario erotico, La Ragione aveva torto?,
il Mullah Omar e Ragazzo, fino a Il Conformista, piccola
bibbia del giornalismo sulle cui pagine torno spesso, soprattutto nei momenti
di difficoltà. Insomma, Massimo Fini è per me un personaggio dannatamente
affascinante. E lo è per un motivo che insieme è molto semplice e molto raro: è
uno dei pochissimi giornalisti che oggi, in Italia, è dotato di una
straordinaria onestà intellettuale, di un’irriducibile coerenza con se stesso
che viene sempre prima di ogni altra cosa e che lo ha portato spesso a giocarsi
tutto — visibilità, carriera, fama — pur di non sacrificarla. È per tutte
queste cose che il 3 giugno, alle 5 del pomeriggio, accompagnato
dall’immancabile ansia tipica di questi incontri, mi sono ritrovato nel salotto
di Massimo Fini, un salotto stracolmo di libri, impilati sul tavolo, appoggiati
disordinatamente su sedie e tavolini, pigiati nella libreria-muraglia, su
scaffali dalla tassonomia diligentemente etichettata.
«Sono figlio di un giornalista», attacca lui, alla mia
domanda su come ha iniziato a scrivere per i giornali, «ma per ribellismo non
ho voluto fare il lavoro di mio padre, almeno all’inizio. È per questo che da
giovane ho fatto un sacco di lavori diversi. Ho lavorato alla Pirelli — un
lavoro straziante — ho fondato un’agenzia pubblicitaria e molte altre cose».
Uhm, tanti lavori diversi. Mi ricorda qualcosa.
E poi che è successo?
Poi, a un certo punto, il caso ha voluto che la prova
dell’esame di Stato di magistratura alla quale partecipai, a Roma, era
truccata. A quel punto, quando tornai a Milano chiesi agli amici di mio padre —
a cui non avevo mai chiesto la cosa più normale, ovvero di farmi entrare nel mondo
del giornalismo — se quella storia dell’esame di magistratura truccato avesse
potuto interessare qualcuno. A me sembrava una cosa grossa, eppure non ebbi
nessun riscontro: pareva che non interessasse. A quel punto decisi di andare a
bussare alle porte dell’Avanti!, dove non sapevano nulla di me, e proposi la
storia. All’Avanti! mi dissero che in quel momento non c’era nessuno dei suoi
che poteva occuparsene e mi chiesero di provare a scriverlo io. Lo scrissi e
piacque molto. Il direttore, però, mise subito le mani avanti, e mi disse che
non c’erano possibilità di entrare all’Avanti!, che c’era già la coda e
che poi non ero neppure socialista. Ma che se volevo potevo andare lì ogni
tanto, due o tre ore al giorno, per fare esperienza, naturalmente non pagato.
Così capii che questo mestiere, che avevo rifiutato per ribellismo verso mio
padre, in realtà mi piaceva.
Bussare alle porte dei giornali per riuscire a
cominciare, scontrarsi con la fila di persone che per diritti di nascita o di
censo ti precedono, fare esperienza senza essere pagato. Non avrei mai pensato
che la vita di un aspirante giornalista negli anni Sessanta fosse così simile
alla nostra...
L’Avanti! era organo del partito socialista, o
sbaglio? Come ti sei trovato in un contesto del genere?
Ti confesso che è stato certamente il periodo migliore della
mia vita. Lavoravo con facilità, l’Avanti! a quei tempi — a parte una
decina di funzionari di partito che però non contavano un cazzo, che stavano lì
a occupare la sedia e prendersi lo stipendio — era come una piccola squadra di
calcio e quindi ho avuto l’opportunità di seguire casi importanti: il caso
Calabresi, quello Feltrinelli. Il PSI non era al governo e quindi noi avevamo
la massima libertà e l’ambiente mi piaceva un sacco, un ambiente libertario,
interessante. C’era il capocronista — che tra l’altro mi pare che non fosse
neanche socialista, ma comunista — che conosceva tutta la città, c’erano
intellettuali strani, persone decisamente interessanti.
Perché te ne sei andato?
Accadde che mi fecero due proposte. Fu grazie
all’interessamento di Camilla Cederna: una mi arrivò dall’Europeo e
l’altra dall’Espresso. Scelsi l’Europeo e, come tutte le scelte che ho
fatto in vita mia, scelsi in modo completamente irrazionale.
Come cambiò la tua vita all’Europeo?
Per la mia vita lavorativa quella all’Europeo è stata
un’esperienza importantissima: era un grande giornale. Si lavorava ancora
seguendo regole molto severe e c’era la possibilità di viaggiare, anche se io
per la verità mi occupavo soprattutto di Italia. Però da un punto di vista
personale fu un periodo abbastanza difficile. L’ambiente in redazione era cupo,
il direttore — che all’epoca era Tommaso Giglio — era una sorta di sadico padre
padrone. Io in realtà me la sono sempre cavata, in fondo. Ero il più giovane,
mi avevano preso tutti in simpatia, quindi l’ho subita fino a un certo punto,
però c’era un’atmosfera abbastanza pesante. Lì sono rimasto fino al 1976,
quando Giglio se ne andò e cominciarono ad arrivare una serie di direttori abbastanza
scandalosi, fino ai socialisti di Martelli, e da un rigore che era alla base
della storia del giornale, la faccenda si tramutò in una roba comica e
dilettantesca.
In che senso comica?
Ma sì, sai quelle cose molto italiane. Un esempio su tutti:
ricordo un inviato che fu assunto e che pretese che lo fosse anche la sua
ragazza che, per l’amor di dio, aveva anche un bel culo, però non sapeva fare
niente. Insomma, un dilettantismo clamoroso.
Cambiò qualcosa solo all’Europeo o fu un
cambiamento più generale?
Fu un cambiamento totale e definitivo del mondo del
giornalismo e avvenne a metà degli anni Settanta, quando la politica entrò a
piedi uniti nel giornalismo. Prima esistevano ancora i cosiddetti “editori
puri”. Lo erano Rizzoli e Mondadori, per esempio. Poi sono cambiate le cose, e
i politici sono entrati sia direttamente, sia attraverso i comitati di
redazione, che erano spartiti tra schieramenti politici. È da lì che è cambiato
tutto.
Tu come hai vissuto questo cambiamento?
Ho avuto la fortuna di affermarmi in qualche modo prima di
questa storia, verso la fine degli anni Settanta. E infatti nel 1979 me ne sono
andato a spasso, a fare il freelance. Una scelta rischiosissima, insomma.
Certo, la fortuna era che queste redazioni, seppur pletoriche, mi affidavano
dei pezzi. Senza contare che all’epoca mia moglie faceva l’insegnante e portava
lo stipendio a casa. In quel periodo mi misi su un progetto molto interessante
insieme ad Aldo Canale: fondammo un settimanale che si chiama Pagina,
un’operazione interessante, anche se abbiamo molte colpe, lo ammetto.
Si accende una sigaretta, io intanto ne rollo una di
tabacco e l’accendo anch’io. Lasciamo cadere la cenere in un piccolo posacenere
pieno di sigarette spezzate, appoggiato su un libro dalla copertina blu, sporco
di cenere: una vecchia e splendida edizione del Viaggio al termine della notte
di Céline.
Che genere di colpe?
Abbiamo fatto scrivere gente come Giuliano Ferrara, Ernesto
Galli Della Loggia, c’era anche Pigi Battista che era un nostro giovane di
bottega, e molti altri. In realtà è stato un gran bel giornale, soprattutto per
merito di Canale. Solo che a un certo punto, visto che eravamo un settimanale
liberale con venature anarchiche — che erano quelle che portavo io — i
socialisti fecero di tutto per toglierci la poca pubblicità che avevamo. E noi,
che vivevamo grazie ai soldi di Canale, alle vendite — circa 13mila copie, che
non erano affatto male — ma soprattutto grazie alla pubblicità, a quel punto
abbiamo dovuto chiudere. La nostra colpa era semplicemente di non essere un
organo del partito socialista.
E poi?
Poi passai al Giorno, proprio in virtù di Pagina,
perché il direttore Magnaschi — forse il miglior direttore che ho avuto —
leggeva Pagina e gli piacevano molto i miei pezzi, soprattutto le stroncature,
un po’ alla Papini. Mi ricordo che una volta ero disoccupato e stavo sfogliando
un giornale di scommesse ippiche cercando di capire su quale cavallo puntare a
Milano e, proprio in quel momento, mi chiamò Magnaschi proponendomi di scrivere
un pezzo su un’enciclica papale — all’epoca il papa era Karol Wojtila. Gli
serviva il mio pezzo per fare il contraltare laico a un altro pezzo, e io
accettai. Non sapevo un caz... ehm, ero lontano mille miglia da questa cosa,
della storia della Chiesa non sapevo un bel niente, e telefonai a un mio amico
comunista, professore a Savona che, come tutti i comunisti, ne sapeva un sacco
della storia della Chiesa, lui mi diede qualche dritta e io in due ore avevo
scritto il pezzo. Zucconi, per provarmi, mi chiese l’articolo entro le quattro,
io lo feci, andò in pagina e funzionò. Da quel momento iniziai una
collaborazione con il Giorno che proseguì fino a che ci furono Zucconi e
Magnaschi. Fu un ottimo periodo, perché è vero che il giornale era in pratica dell’Eni,
quindi un po’ del Psi e un po’ della Dc, però Zucconi era molto abile, e
riusciva ad accontentare Craxi e contemporaneamente a garantire libertà alla
redazione. Io proprio lì ho scritto le cose più tremende contro la
partitocrazia. Zucconi era un gran volpone, quando qualcuno gli diceva che il
giornale era troppo buono con i partiti, tirava fuori il fatto che lasciava
scrivere me, quando invece aveva delle grane per quello che scrivevo io se la
cavava dicendo che in fondo era una rubrica sola, un punto di vista personale,
mi dava del pazzo e se la cavava così. Insomma, con questo trucchetto delle tre
carte noi alla fine avevamo la nostra libertà.
Hai avuto buoni rapporti con i tuoi direttori?
Sì, e devo dire che anche quelli che non mi hanno amato mi
hanno sempre difeso. C’era un impegno, forse anche un bravura da parte loro,
che ha fatto sì che non avessi mai grossi problemi. Qualcuno mi detestava,
certo, però c’era ancora il concetto del rispetto per il lavoro fatto bene e mi
lasciavano lavorare.
E invece con chi hai avuto problemi?
Con i sindacati e con i colleghi. Con i sindacati perché a
un certo punto hanno appiattito tutto, non valeva più né la qualità né la
quantità del lavoro, e non solo, succedeva anche che tu andavi in giro a
lavorare alle tue inchieste o alle tue storie e quelli che restavano in
redazione tramavano e intrecciavano rapporti avanzando di carriera, mentre tu
te ne rimanevi sempre allo stesso posto. Con i colleghi era una questione di
competizione, cose normali, ma c’erano anche lotte interne, mafiette, cricche e
gruppi di interesse. In ogni caso, tutte queste dinamiche a partire dal 1979
non mi interessarono più molto. Al Giorno mi fecero un contratto che mi
permetteva di essere libero dalla redazione, e tutte queste cose faticosissime
che ti tolgono energia me le sono potute evitare.
Mi racconti della tua esperienza all’Indipendente?
Quella per me è stata l’ultima grande stagione, all’Indipendente
di Feltri, quando non gli era ancora passato sopra il Berlusconismo. Il momento
era molto favorevole. Si era rotto il consociativismo dei partiti, c’era Mani
pulite, un fenomeno che Feltri ha cavalcato alla grande, indulgendo anche su
posizioni molto forcaiole che ha poi cambiato, diventando garantista quando è
andato a lavorare per Berlusconi.
Che tipo di giornale era?
Era un giornale molto aperto, fu per questo che forse riuscì
a coinvolgere lettori provenienti da tanti settori diversi, con diverse idee
politiche, anche. Tra i collaboratori scelti da Feltri c’era chi era di destra
e chi di sinistra, ma il tutto aveva una sua faccia, che era la sua, quella di
Feltri, che aveva inventato il feltrismo e abbiamo vissuto un anno e mezzo
straordinario, con una redazione molto giovane e motivata. Siamo passati da
20mila a 120mila copie nel giro di pochi mesi. Vivevamo in una specie di sogno,
quello di un giornale libero, perché il nostro editore Zanussi era uno che ci
permetteva di fare tutto: pensa che un giorno arrestarono il nostro
amministratore nell’ambito di alcune inchieste di Mani pulite e noi uscimmo con
quel pezzo in prima pagina. Insomma, eravamo liberi sul serio. Solo che un
giorno d’agosto, Feltri mi invita a cena e mi fa la terrorizzante domanda: «ma
se vado al Giornale vieni con me?» E allora io li a spiegargli che era
un errore, da ogni punto di vista, sia professionale che politico, e che lo era
anche per lui. Insomma, finiamo la cena un po’ brilli tutti e due e lui,
bicchiere in mano, alza il calice e dice «ma sì, in culo a Berlusconi, restiamo
all’Indi!». Il giorno dopo aveva firmato.
È curioso, per un trentenne come me, sentir parlare in
questo modo di Feltri, per noi nati negli anni Ottanta lui è solo quello che è
ora. Che cosa è successo?
Per Vittorio ha contato per prima cosa il fatto che non si
dovrebbe mai nascere poveri — al Giornale gli offrivano un miliardo, da
noi prendeva 250 milioni — ma soprattutto aveva capito che Berlusconi era il
più forte in quel momento e dunque decise di lasciare quella straordinaria
avventura. Abbiamo litigato molte volte su questa cosa, gli ho detto di tutto,
anche se poi siamo sempre rimasti in contatto. E devo dire che l’ultima volta
che ci siamo sentiti, mi sembra un annetto fa, anche lui ha ammesso che, in
fondo, era stata una scelta sbagliata. Prima era il Feltri anarchico di destra,
libero e indipendente, poi gli passò sopra il berlusconismo. In quegli anni,
però, successe una cosa ben più grave: fu spazzato via tutto ciò che si era in
qualche modo opposto alla partitocrazia: la Lega, che fu inglobata, Funari,
emarginato, Feltri, comprato, e così andare. Hanno fatto quello che credo
cercheranno di fare con Grillo e con il Movimento 5 Stelle.
Eccoci arrivati alla politica, a Grillo — «siamo amici da
trent’anni» — al Movimento 5 Stelle, ovvero a un potenziale pantano. Per un
attimo mi spaventa l’idea di vedere la conversazione prendere quella strada,
che poco c’entra, anzi quasi per niente, con quello a cui volevo arrivare.
Tornando al giornalismo, che è quello che mi interessa,
che cosa significa essere intellettualmente onesti?
L’onesta intellettuale è un atteggiamento mentale che
dovrebbe rappresentare la normalità. Significa trattare nello stesso modo chi
ti sta simpatico e chi ti sta antipatico. Una cosa se secondo te è sbagliata, o
giusta, lo devi riconoscere indipendentemente da chi la fa. Questo vuol dire essere
coerente e onesto intellettualmente, se no fai l’agitatore, che è un altro
mestiere. Purtroppo oggi quasi tutti i giornali, piccoli o grandi che siano,
sono tutti schierati o da una parte o dall’altra. Certo, questo è un discorso
che riguarda soprattutto gli editorialisti, poi all’interno della redazione c’è
ancora chi fa servizi, cronaca e reportage molto bene. Mi viene in mente Paolo
Rumiz, per esempio. Essere coerenti vuol dire anche che se una volta
affermi una cosa e il giorno dopo il suo contrario, per lo meno devi ammetterlo
e ricordarlo al tuo lettore. Il grande corruttore in questo senso è stato
Eugenio Scalfari, il quale incominciò a dire una cosa per poi dire il suo
contrario sei mesi dopo, finché arrivò all’apice assoluto e, in un articolo su
Bettino Craxi, scrisse una seconda parte in cui riusciva a smentire ciò che lui
stesso aveva detto nella prima. Un tempo questo non sarebbe stato possibile,
perché come diceva Giorgio Bocca esisteva una «società degli eccellenti».
Che cosa intendeva?
È un concetto da prendere con le molle, ma insomma, certe
cose non le potevi fare, se no eri squalificato. Poi è saltato tutto, e infatti
lo vediamo nel giornalismo di oggi, ma anche nella politica. «Stai sereno»,
dice Renzi a Letta, e dopo due giorni gli ha preso il posto. Ecco, almeno per
queste cose, un tempo l’Italia era diversa, c’erano delle regole, anche non
scritte, ma certe cose non le potevi fare. E non solo nel giornalismo anche
nella vita quotidiana. Era un’Italia, quella dei Cinquanta e Sessanta, in cui
l’onestà era un valore per tutti: per la borghesia, se non altro perché dava
credito, per il mondo contadino, in cui se venivi meno alla parola data o a una
stretta di mano venivi escluso dalla comunità, e anche per le classi medie e il
proletariato.
E cosa è cambiato?
Purtroppo, a un certo punto c’è stato un cambiamento
antropologico dell’intera società italiana, e il giornalismo è stato in parte
coinvolto, ma in parte è stato anche corruttore e protagonista.
Quale è stato il punto di rottura?
Il boom economico, l’idolatria del quattrino. L’idolatria
del quattrino ha cambiato gli italiani radicalmente: ora ci si vende per
niente. Lo vediamo tutti i giorni, i recenti scandali che abbiamo visto ne sono
la prova. E non ci si vende mica per grandi cose, tutt’altro. Io capirei anche
una donna che si vende per uno smeraldo che vale un miliardo, abbagliata dalla
ricchezza. Ma una che si vende per una cena in un bel ristorante o per delle
cose ancora più miserabili, cose che anche un barbone rifiuterebbe, non posso
proprio accettarlo. Il dio quattrino è diventato l’unico idolo condiviso di
questo paese. Questa è la verità.
Che responsabilità hanno avuto i giornalisti?
Il giornalismo e gli intellettuali — uh, che brutta parola —
hanno delle responsabilità gravissime, forse maggiori della stessa classe
politica.
Dici che intellettuale è una brutta parola. Perché il
termine “intellettuale” è diventato un insulto in questo paese?
Credo che dipenda dal fatto che gli intellettuali hanno
tradito il loro compito, il loro mestiere. E qual è il mestiere
dell’intellettuale o del giornalista è, per usare una vecchia formula un po’
usurata, quella del cane da guardia del potere, il controllore. Un ruolo che in
alcune parti del mondo ancora esiste, penso agli Stati Uniti, paese che detesto
per molti motivi, ma a cui bisogna dare questo merito: la stampa, o almeno,
delle parti della stampa sembrano ancora avere l’indipendenza minima, quella
che ti permette quando parli dell’Afganistan, per esempio, di criticare
l’operato del tuo governo e del tuo esercito.
E in Italia?
In Italia la stampa ha smesso da molto tempo di fare il suo
mestiere, è totalmente versipelle, ma ci sono esempi di tutti i tipi. Giuliano
Ferrara direi che ne è l’emblema, perché è una persona intelligente, anche se
in questo caso l’intelligenza mi sembra una aggravante più che un’attenuante.
In ogni caso, è questo mondo quello di cui parlo: i Ferrara, i Della Loggia, i
Panebianco, i Battista e via dicendo, sono loro che hanno squalificato il
lavoro del giornalista. Ma ci sono anche esempi positivi, penso ai Rizzo, agli
Stella, che hanno fatto parecchia gavetta e che sono degli ottimi giornalisti.
Il problema è che restano in uno stato di perenne gavetta, non avranno mai il
peso che può avere un editorialista del Corriere della Sera, che poi non si sa
nemmeno più perché debbano essere loro gli editorialisti del Corriere.
Qual è il prezzo che un giornalista paga per difendere la
propria onestà intellettuale?
Come paga? Be’, con la marginalizzazione, l’estromissione,
l’annullamento. Del resto, non si può fare la rivoluzione con la mutua, come
pretendevano quelli del '68. Se ti metti contro devi essere disposto a pagarne
il prezzo e il prezzo è quello. Ma c’è anche da dire che non è quasi mai una
scelta, nel mio caso sta scritto nel Dna, non avrei mai potuto fare altrimenti.
Credi che una nuova generazione di giornalisti possa
cambiare le cose?
È molto difficile. Prima di tutto perché è difficilissimo
entrare. Una volta assumevi il figlio del collega o il nipote di un politico,
ma insieme assumevi anche uno bravo. Adesso quelli bravi fanno molta più
fatica. Ritornando alla mia storia, io ho avuto la fortuna di essermi affermato
un po’ prima di quando cambiarono le cose. Oggi un ragazzo non so come potrebbe
fare. Forse il web sarà utile in questo senso, per creare qualcosa di nuovo e
indipendente, anche se la rete ha tutta una serie di problemi che non rendono
affatto facile emergere. Con l’abbondanza che può offrire il web farsi notare è
sempre più un’impresa eccezionale.
Cosa ne pensi del finanziamento pubblico ai giornali?
La legge che era nata per finanziare i giornali che erano
organi di partito qualcosa di giusto ce l’aveva. Nell’ingenuità dei nostri
padri costituenti, questa legge permetteva di fare un giornale anche a chi non
aveva per forza un potere economico alle spalle. Poi invece è andata a finire
come vediamo oggi: basta un sotterfugio e due parlamentari per aggirare la
legge. È la solita storia italiana, insomma, non è che non ci sono buone leggi,
è che le buone leggi vengono continuamente bypassate e diventano un’altra cosa.
Il problema è sempre la disonestà?
Sì, ma anche se forse tanto seri non lo siamo mai stati, una
volta, almeno a livello popolare, un senso di onestà di fondo lo avevamo, io un
po’ l’ho vissuto. C’era un rispetto delle regole che iniziava addirittura dalla
strada. Per dire, quando eravamo piccoli, nel dopoguerra, noi abbiamo vissuto
per strada e c’erano piccole faide di continuo tra gruppi diversi. Però anche
lì, anche nelle risse tra ragazzini, c’erano delle regole: se uno cadeva per
terra non lo potevi più toccare, non si potevano dare calci, ma solo pugni, se
qualcuno si faceva male sul serio gli si dava una mano. Cominciava da lì, dalla
strada. C’era tutto un mondo di regole, che poi erano le stesse della vecchia
malavita milanese che, fino a Vallanzasca compreso, queste regole le
rispettava: sarà stato pure un codice malavitoso, ma almeno era un codice.
Quella che è sparita è proprio un’etica pubblica condivisa.
Sono anni che ti batti contro il conformismo, in
particolare contro quella specie di professionismo dell’anticonformismo che,
facendo un giro completo, diventa il peggior conformismo. Com’è la situazione
ora?
Non è cambiato poi molto. Ci sono tantissimi finti
anticonformisti in Italia, ci sono sempre stati, e se ne stanno benissimo
incistati in quello che si chiama pensiero unico, che non sanno nemmeno bene
che cos’è.
Qual è il pensiero unico?
È il pensiero uscito dalla rivoluzione industriale, che si
basa su una distinzione netta tra destra e sinistra, che sono in realtà due
facce della stessa medaglia. Questo quando sono onesti intellettualmente.
Quando sono disonesti sembrano anche la stessa faccia, perché fondamentalmente
si conformano al potente del momento. È normale, è quello di cui parlava
Flaiano quando diceva “salire sul carro del vincitore”. Adesso c’è Renzi, prima
c’era Berlusconi, poi chi sa chi ci sarà...
Ti sembra di vedere oggi qualcuno che sfugge da questa
dinamica?
No. Una volta i giornali davano spazio anche a personaggi
eterodossi. Certo li usava come foglia di fico, ma almeno li faceva scrivere.
Pensa all’esempio di Pasolini, che ha scritto cose micidiali sulle pagine del
Corriere della Sera, opinioni eterodosse che oggi non hanno più spazio. Questo
tipo di intellettuale è esistito in Italia per molto tempo. Mi vien da pensare
anche a una parte della carriera di Bocca, o di Montanelli. Adesso però io non
riesco a vedere personaggi di questo genere, di questa statura intellettuale.
Faccio fatica, non me ne vengono in mente, e questo probabilmente perché o non
riescono ad accedere alla professione oppure, se ce la fanno, pagano un prezzo
altissimo, ovvero la quasi completa emarginazione. In ogni caso l’effetto è lo
stesso: non si vedono.
Chi sono i conformisti dell’anticonformismo oggi?
Sono ancora e sempre i finti anticonformisti, sono una
classe di miracolati, è sempre la solita compagnia, il solito giro. E infatti
non sentirai o non leggerai mai nelle loro trasmissioni o nei loro articoli,
qualcosa di diverso dal solito, di eterodosso. Ti faccio un esempio che mi
riguarda: una volta — una sola — sono stato invitato da Ballarò. Era una
puntata con D’Alema e si parlava della guerra in Serbia, che io ho sempre giudicato
inutile e cogliona. Ho spiegato il perché di questa mia convinzione, ovvero
che, al di là del fatto che non avevamo nessun contenzioso con la Serbia e che,
anzi, avevamo sempre avuto rapporti discreti, Milosevic in quel momento era una
specie di gendarme dei Balcani e, proprio grazie all’intervento della Nato, è
stato sostituito da una organizzazione di criminali enormi. E dove fanno i
migliori affari questi gruppi criminali? Ovviamente nel paese ricco più vicino,
ovvero l’Italia. Bene, io a Ballarò non ci sono più tornato. Magari
sbaglio, dicendo queste cose, ma se non mi invitano non è per quello, è perché
queste cose non le vogliono sentire. Insomma, o fai parte della compagnia del
giro, quella dei Fazio, dei Saviano, dei Gramellini, o non avrai spazio. Per
avere spazio devi essere cooptato da qualcuno. Prendiamo l’esempio di Luttazzi,
così non parliamo solo di me, Luttazzi è uno che riempie i palazzetti dello
sport con i suoi spettacoli, e forse interesserebbe a qualcuno se lo facessero
passare in televisione, ma Luttazzi in televisione non ci rientrerà mai più,
perché non fa parte di nessun gruppo, non fa parte della compagnia del giro.
Cosa ne pensi delle scuole di giornalismo?
Secondo me le scuole non servono a niente, semplicemente
perché il giornalismo non è una cosa che si può insegnare. Quando mi chiamano
nei licei o, ma molto più raramente nelle università, a tenere delle lezioni di
giornalismo io non so che dire. Penso che il giornalismo lo si impari
facendolo. Una volta il sistema per entrare nella professione era avere molta
tenacia, bussare a tutte le porte, ma erano tempi diversi, i giornali
assumevano ancora, era più facile. Ora invece è tutto molto più complicato e mi
sembra che le scuole di giornalismo siano lì per cooptare gente cooptabile, ma
non hanno quasi nulla a che fare con l’insegnamento della professione. Il
problema è che molti ragazzi non hanno alternative, perché oggi quasi non ce ne
sono. Un tempo era diverso. Feltri in questo era molto bravo per esempio.
Quando eravamo all’Indipendente, visto che eravamo un piccolo giornale e non
potevamo assicurarci i ragazzi che uscivano dalle scuole, noi leggevamo sempre
i quotidiani locali per trovare firme che ci piacessero, poi li mettevamo alla
prova e se ci piacevano li tenevamo. È un po’ quello che è successo a me, ma
non mi pare che questa strada oggi sia praticabile. Un altro aspetto
preoccupante e molto pericoloso per chi inizia a fare questo lavoro è il
pagamento, che ormai è sceso a quote veramente ridicole, mi pare che si arrivi
addirittura a meno di cinque euro al pezzo. Utilizzano questi ragazzi, fanno
fare loro lavori molto importanti, inchieste o altro, e poi, quando hanno 30-32
anni, che poi è il momento in cui vorresti anche poter decidere qualcosa della
tua vita, ti scaricano e ne prendono altri, tanto ormai alla qualità non bada
più nessuno. È una specie di selezione al contrario, assolutamente pazzesca,
perché chi ha qualche talento a un certo punto se lo va a giocare da qualche
altra parte, e quindi restano quelli che di talento non ne hanno, oppure quelli
che hanno una vocazione e una tenacia talmente forte che resiste a tutto
questo. Ripeto, è estremamente pericoloso mettersi a lavorare in questo
settore, magari lavorarci per cinque o dieci anni pagato pochissimo e, dopo un
po’, ritrovarsi con niente in mano.
Quando hai iniziato era molto diverso?
Anche una volta la gavetta la facevi pagato pochissimo, ma
avevi la certezza, se lavoravi bene, che dopo due o tre anni di gavetta poi il
giornale ti assumeva, quindi poteva veramente considerarsi un investimento. Ora
non è più così.
Credi che l’informazione sia vicina a una fine o a un
nuovo inizio?
Credo che l’informazione sia finita. Non il nostro mestiere,
ma l’informazione. Questo naturalmente è un ragionamento di un vecchio, quindi
magari è da prendere con le pinze, però io ne sono abbastanza persuaso:
l’informazione è finita per eccesso di informazione. È quello che ti insegnano
al primo anno di economia: il primo cucchiaio di minestra ti salva la vita, il
secondo ti nutre, il terzo di fa piacere, ma, alla lunga, il decimo ti uccide.
Noi siamo attraversati di continuo da messaggi, non solo di tipo informativo,
ma anche pubblicitari, per cui non riusciamo più a ritenere nulla di quel che
leggiamo. Qualche anno fa lessi un articolo americano che spiegava come i
giovani cresciuti in era pre-televisiva avessero una quantità di informazioni
molto superiore ai loro coetanei nati dopo. Non parlo di qualità, ma di
quantità. È un processo naturale, oserei dire di difesa. Come non puoi
emozionarti di tutto, così non puoi ritenere tutto. Non credo che sia una morte
definitiva, perché non c’è mai nulla di definitivo, però per gli anni a venire
sono molto pessimista, non per difetto, ripeto, ma per eccesso.
E come si fa a cambiare senza far esplodere i server?
Eh eh eh... l’altro giorno mi hanno intervistato per una
piccola televisione e mi hanno fatto una domanda simile. Io ho risposto che
preferivo stare zitto, non volevo essere arrestato. Sai — e qui superiamo i
confini del giornalismo — i veri cambiamenti avvengono soltanto quando ci si
ritrova in condizioni di crisi veramente profonda. Se ci fosse una crisi
economica veramente forte, e adesso non ci siamo ancora, allora forse le
persone si sveglierebbero e non farebbero come adesso, che tirano a campare. E
questo vale per tutto, non soltanto per l’informazione. L’informazione è un
campo strano: se leggi soltanto quella main stream sai che al 90 per cento è
taroccata, se invece cerchi in rete ti ritrovi con una massa talmente vasta di
informazioni che non sai più nemmeno come gestirla.
Qual è l’errore peggiore che può fare un giornalista?
Non scrivere quello che vede e non dire quello che pensa,
senza dimenticare mai che quello che pensa non è la verità assoluta, visto che
non c’è nessuna verità. La cosa peggiore che può fare un giornalista è non
essere onesto. Io l’ho sempre detto: se in un’inchiesta dovessi scoprire che
mia madre è una puttana, scriverei che mia madre è una puttana. Questo deve
fare il giornalista. Naturalmente non c’è una verità oggettiva, non esiste, ma
questo è un tema più profondo, qui sfociamo nella metafisica. C’è un
bellissimo film degli anni Cinquanta di Akira Kurosawa che si chiama Rashomon.
Kurosawa ti fa vedere la scena di un samurai e di sua moglie che vengono
aggrediti in un bosco. Lei viene stuprata e lui ucciso. Poi c’è il processo, e
al processo ognuno racconta la sua verità. E Kurosawa ti fa vedere ogni volta
la stessa scena, senza cambiare una virgola, ma ogni volta la verità è
diversa. Esiste l’obiettività relativa, non quella assoluta. Se tu dici
che nel 2000 il Mullah Omar ha proibito la coltivazione dell’oppio in
Afghanistan e che nel 2001 la produzione di stupefacenti in Afghanistan è
crollata a quasi zero, dici una verità oggettiva, basata sui dati. Anche se
dici che ora la produzione di oppio dell’Afghanistan è pari al 93% della
produzione mondiale e che i talebani la usano per finanziarsi dici la verità.
Ma se non hai detto la prima parte, non stai facendo buona informazione, la
stai appiattendo. La verità che emerge da una realtà appiattita è una mezza
verità. E le mezze verità sono peggiori delle menzogne.
Si può cambiare il conformismo della maggioranza?
Ora che sono arrivato alla venerabile età di 70 anni posso dirti
che sono molto deluso, e anche molto pessimista. Certo che quando ho iniziato
anch’io pensavo che nel mio piccolo avrei contribuito a cambiare le cose, ma
con il tempo mi sono reso conto che non è così, o almeno non è stato così.
Anzi, le cose sono andate di male in peggio. È anche vero però che la delusione
è responsabilità di chi si illude. Io ho sempre inseguito, non solo nel
giornalismo, ma anche nella vita, cose di questo genere. L’utopia di certo non
paga, ma nemmeno cose meno ambiziose dell’utopia.
Che rapporto c’è tra l’idea che hai di una storia prima
di incontrarla sul posto e quello che poi ti trovi di fronte?
Quando vai sul posto e la realtà che incontri corrisponde
esattamente alla realtà che ti sei immaginato, allora stai sbagliando qualcosa.
Perché la realtà non è mai quella che tu stando a casa tua e leggendo quello
che ti pare ti puoi immaginare. Una cosa del genere mi è capitato in Sudafrica,
c’erano decine di articoli sulla situazione, ma erano tutti uguali, potevano
essere scritti da dovunque, da Washington o da Roma. La realtà che mi trovai di
fronte quando arrivai sul posto era un po’ diversa da quella che si raccontava,
era più complessa del quadretto che vedeva i bianchi come dei mascalzoni e i
neri come delle vittime. Era anche così, certamente, ma non era solo così. Vale
il principio fondamentale del nostro mestiere, quello che disse una volta Nino
Nutrizio, direttore de La Notte: «il giornalismo si fa prima coi piedi,
poi con la testa». Prima devi andare sul posto, osservare, parlare, ascoltare
eccetera. È solo dopo che viene la testa.
Se dovessi indicare i tuoi maestri, che nomi faresti?
Prima di tutto Curzio Malaparte, poi, come personaggio più
abbordabile e più vicino direi Giorgio Bocca. Poi ce ne sono altri, sotto traccia,
come Buzzati, Flaiano, Prezzolini, se dovessi far vedere a un ragazzo come si
scrive su un giornale farei leggere loro, e poi Montanelli, se non altro per
l’eleganza e la chiarezza dell’esposizione.
Un'ultima domanda, forse la più difficile: qual è il
peggior errore che può fare un uomo?
Non essere coerente con se stesso. Ora mi spiego con un
esempio estremamente crudo. Io sono convinto che si debba essere all’altezza
delle proprie cattive azioni, anche delle peggiori. Voglio dire, ciò che per me
è intollerabile è il mafioso che scioglie un bambino nell’acido e poi, la sera,
va a un club e si commuove sentendo My Way di Frank Sinatra. Preferisco, a
questo tipo di personaggio, un nazista che è crudele, ma è crudele
coerentemente, fino in fondo. È il tradimento che tu fai a te stesso la cosa
peggiore che puoi fare come uomo: tradire se stessi vuol dire non essere
uomini, e non ne vale la pena. Ho avuto recentemente una polemica con il solito
Feltri, che mi ha fatto un ritratto in cui mi ha definito un grande giornalista
mancato. «Sì», gli ho risposto io, «può essere, però ho preferito essere un
giornalista mancato che un uomo mancato». Una scelta difficile, è vero, infatti
come vedi non vivo in una reggia. E mi fanno ridere quelli che mi dicono che è
facile parlare dal mio salotto, che vengano a vederlo, il mio salotto... eh eh
eh...
Sono passate quasi tre ore da quando sono entrato in
quella casa piena di libri, mi sono già fumato tre sigarette e bevuto due
bicchieri di vino — un buon rosso — insieme a Fini. Spengo il registratore, mi
alzo e faccio per dirigermi alla porta. Ma prima mi fermo, tiro fuori dallo
zaino una copia usurata e pesante de Il Conformista e gliela
porgo. Slegando la bicicletta, proprio davanti al portone di Fini, mi è
venuto in mente che non la facevo mai da ragazzo, questa cosa del chiedere gli
autografi. Poi ho pensato una cosa stupida, che forse si iniziano a chiedere
gli autografi quando si passa i trent’anni perché è l’esatto momento in cui si
capisce sul serio quanta fretta abbia il tempo
Fonte: srs di Andrea
Coccia, da LINKIESTA del 15 giugno 2014
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