Le motivazioni della sentenza di morte, contenuta nel
Giornale di Udine del 22 novembre 1866, ad un mese esatto dal plebiscito, e che
prevedeva l’eliminazione forzata di «questi
slavi» erano improntate ad una viscerale insofferenza nei confronti dello
«straniero» e ad un palese senso di superiorità nei confronti di altre culture.
Il tutto mascherato da un viscido paternalismo che mascherava il profondo
razzismo radicato in certe correnti del Risorgimento che avevano prevalso sulle
idee federaliste, la solidarietà e la fratellanza tra i popoli oppressi.
Verso gli slavi del Friuli, scriveva benignamente il Giornale di Udine, diretto dal
giornalista e uomo politico friulano Pacifico
Valussi, che pure, assieme a Nicolò
Tommaseo, guardava con interesse al mondo slavo e comprendeva la necessità
di mettersi in relazione con esso, «non
faremo però nessuna violenza; ma adopereremo la lingua e la coltura di una
civiltà prevalente quale è l’italiana per italianizzare gli Slavi in Italia,
useremo speciali premure per migliorare le loro sorti economiche e sociali, per
educarli, per attirarli a questa civiltà italiana, che deve brillare ai
confini, tra quelli stessi che sono piuttosto ospiti nostri. Bisogna insomma
che coll’agricoltura, coll’istruzione delle scuole e de’ libri, con ogni mezzo
più adatto trasformiamo quelle poche popolazioni».
Si trattava di un programma vasto, piuttosto vago, ma
preciso nelle sue finalità: italianizzare queste popolazioni con interventi in
campo scolastico, economico e sociale.
Vediamo in quale modo esso è stato realizzato ed a quali
risultati ha portato.
In campo culturale ci furono interventi più di facciata che
di sostanza. Nel 1867 gli amministratori di San Pietro con delibera n. 479, su
proposta del sindaco, decidevano di cambiare il nome del capoluogo in San Pietro al Natisone, cancellando,
così, l’antico «degli Slavi» del
quale i loro antenati andavano fieri.
Dieci anni dopo l’annessione, nel 1876, il Consiglio
scolastico provinciale di Udine deliberava di trasferire da Cividale a San
Pietro al Natisone la Scuola magistrale di grado inferiore «allo scopo di
preparare le giovanette slovene, desiderose di avviarsi alla carriera
dell’insegnamento elementare… San Pietro era il centro distrettuale degli otto
comuni componenti la Slavia friulana
e il Governo si propose di costituirvi una sede di cultura e di diffusione di
italianità. Questo proposito diventa una realtà viva e palpitante nel 1877 con
la istituzione di una Scuola magistrale e rurale biennale.
Contemporaneamente, pure per iniziativa del Governo, veniva
annesso alla Scuola un convitto, amministrato e diretto dalla stessa direttrice
della Scuola magistrale e veniva aggiunta una scuola Unica modello per le
esercitazioni di tirocinio… Nell’anno 1883 la Scuola Magistrale rurale prese la
denominazione di Scuola normale di grado inferiore (biennale) e fu soppressa la
scuola preparatoria provinciale. Le conseguenze gravi che… derivarono alle
giovanette slave (le quali, per mancanza di una scuola elementare di grado
superiore, si vedevano chiuse le porte di ingresso nella Scuola magistrale
istituita per loro) spinsero il Governo a istituire nel 1887 la scuola
elementare di grado superiore (4.a e 5.a elementare)» (cfr. Petricig, Note
biografiche e di commento a “Slavia Italiana” di Carlo Podrecca, Trieste 1978,
p. 54).
La Scuola magistrale di San Pietro fu la seconda in
provincia di Udine, che allora comprendeva anche quella di Pordenone. Una
scuola, dunque, per preparare le maestre da inviare come zelanti missionarie a
convertire i fanciulli dalle tenebre dell’inciviltà slava alla luce della
civiltà latina!
Ma quali risultati ebbe questa scolarizzazione? Molto scarsi
e, per assurdo, perfino contrari alle finalità per le quali era stata
promossa.
La rete scolastica era da costruire quasi dalle fondamenta.
Nel 1860, quindi sotto il Lombardo-Veneto, nel distretto di San Pietro degli Slavi c’erano appena
quattro scuole «elementari minori» ed esclusivamente maschili. Un’inezia per il
tanto decantato buon governo austriaco, che fin dal 1775, con una legge
promulgata da Maria Teresa, aveva istituito una rete capillare di scuole anche
nelle zone rurali.
Quella legge prevedeva tre tipi di scuola: la Normalschule, istituita in ogni Land;
la Hauptschule, almeno una in ogni
distretto; la Trivialschule, una in
ogni paesino e in ogni parrocchia rurale. Tutti i bambini dei due sessi
dovevano frequentarla tra i 6 e i 12 anni. In campagna, i bambini fino agli 8
anni dovevano frequentare la scuola estiva, da Pasqua alla fine di settembre,
mentre quelli tra gli 8 e i 12 frequentavano la scuola invernale, dal 1°
dicembre al 31 marzo, in modo da poter dare una mano nei lavori agricoli
estivi. C’erano speciali corsi di ripasso: due ore ogni domenica dopo la messa,
per i giovani fra i 13 e i 20 anni (cfr. Edward Crankshaw, Maria Teresa
d’Austria, vita di un’imperatrice, Milano 1982).
L'Austria estese nel regno Lombardo – Veneto il proprio
sistema scolastico. La legge di Maria Teresa venne riformata da un regolamento
andato in vigore il 7 dicembre 1818 che prevedeva tre tipi di scuole: – le
scuole elementari minori (due anni, a carico delle casse comunali); – le scuole
elementari maggiori (tre anni per le femmine, quattro per i maschi, a carico
dell'erario); – le scuole elementari tecniche (attivate non prima di dieci
anni, destinate ai maschi e a carico dell'erario). L'istruzione elementare era
obbligatoria dai sei ai dodici anni, anche se non di rado le amministrazioni
comunali, per le quali pesante era l'onere di provvedere alle necessità
economiche, cercavano di non ottemperare a quanto previsto dalla legge.
L’Italia si affacciò nella Slavia, dunque, quando la popolazione
era in grande maggioranza analfabeta. Ma dopo dieci anni di sforzi per radicare
la scolarizzazione i risultati non cambiarono granché. È vero che nell’anno
scolastico 1875/1876 le aule scolastiche erano in totale 16 (8 per i maschi, 2
per le femmine e 6 miste), ma la frequenza degli alunni era semplicemente
disastrosa.
Nelle Valli del Natisone c’era la più alta evasione
scolastica di tutta la provincia di Udine: dei 424 maschi in età scolastica ben
228 (il 53,75 per cento) non frequentavano le lezioni e in maggior numero erano
le femmine a disertarle: su 377 rimanevano a casa addirittura 290, il 76,89 per
cento! (cfr. Corbanese, cit, p. 191). Un disastro per le autorità che avevano
puntato sull’eliminazione di questi slavi attraverso la cultura!
Solo il distretto di Pordenone si avvicinava ai dati della
Slavia: a non frequentare le scuole era il 48,57 per cento dei maschi e il 73
per cento delle femmine. Ma se facciamo il paragone con il distretto di Ampezzo
(zona montuosa e disagiata forse più della Slavia) notiamo un’abissale
differenza: i maschi evasori erano appena il 9,19 per cento, le femmine il
32,66 per cento.
Con questi dati è facilmente intuibile che l’analfabetismo era
diffusissimo.
In base al censimento del 1881, quindici anni dopo l’annessione
all’Italia, il distretto di San Pietro registrava il 79,35 per cento di
analfabeti, occupando il 197° posto tra i 284 circondari del Regno (la media
nazionale era di 67,26 per cento, quella della provincia di Udine del 62,45 per
cento); gli analfabeti oltre i sei anni erano il 75,59 per cento (198° posto in
Italia) (cfr. Musoni 1895: 8). In quell’anno negli otto comuni delle Valli del
Natisone c’erano 27 scuole (San Pietro 7, Tarcetta 3, Savogna 4, Rodda 3, S.
Leonardo 3, Grimacco 3, Drenchia 2, Stregna 2).
Ma quali le possibili cause di tanto disinteresse per
l’istruzione? Probabilmente la difficoltà maggiore era rappresentata dal
rapporto conflittuale che aveva la scuola con la lingua slovena locale, che era
usata in famiglia, nei rapporti quotidiani e in chiesa, dove da secoli era la
lingua “ufficiale” accanto al latino. L’impatto con la scuola doveva essere
traumatico per l’alunno che non trovava nessun collegamento tra di essa e la
vita quotidiana, il mondo degli affetti e delle relazioni, gli insegnamenti e
le pratiche religiose che in quell’ambiente esclusivamente rurale rivestiva una
grande importanza in quanto scandiva i ritmi della vita.
Lo stesso Musoni fu costretto ad ammettere: «L’istruzione,
però, come viene impartita, non raggiunge lo scopo che si propone: lo scopo
cioè di far apprendere la lingua italiana» (Musoni 1895: 9).
Fonte: visto su SLOV.IT
del 31 maggio 2011
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