Uno studio sulle iscrizioni funerarie ha ricostruito
le storie di alcune donne assassinate dai mariti. A conferma di un retaggio
culturale che affonda le radici nei secoli davvero difficile da estirpare
Quando la scorsa primavera fu uccisa dall’ex fidanzato, che dopo
averla accoltellata le diede fuoco mentre era ancora in vita, Fabiana Luzzi non
aveva ancora 17 anni. Proprio come Prima
Florenzia, gettata nel Tevere da suo marito Orfeo. Un tragico destino che accomuna due adolescenti che si erano
appena affacciate alla vita ma separate fra loro da quasi duemila anni.
Di Prima Florenzia,
vissuta al tempo della Roma imperiale, non si sa praticamente nulla. Non c’è
modo di capire cosa possa aver spinto il consorte a ucciderla e se fu poi
condannato per l’orrendo delitto. L’unica cosa rimasta della sua triste sorte
sono le poche righe fatte incidere dalla famiglia in una iscrizione funeraria
ritrovata nella necropoli di Isola Sacra, a Fiumicino, dove abitava: “Restuto Piscinese e Prima Restuta posero a
Prima Florenzia, figlia carissima, che fu gettata nel Tevere dal marito Orfeo.
Il cognato Dicembre pose. Ella visse sedici anni e mezzo”.
A riportare alla luce questa storia è uno studio condotto da Anna
Pasqualini, docente di Antichità romane per oltre 40 anni tra l’università
dell’Aquila e quella di Tor Vergata. Analizzando lo sterminato corpus di
epigrafi latine ritrovate nei territori in cui si estendeva l’impero (in tutto
circa 180 mila), l’archeologa ha ricostruito una serie di casi di femminicidio
dell’antica Roma. Un’indagine che mostra come la nostra società - in tema di
violenza sulle donne - non sia poi così cambiata nel corso del tempo. A
conferma di un retaggio culturale difficile da sradicare e che nonostante le
campagne di sensibilizzazione non pare
attenuarsi , visto che con le 177 donne uccise nel 2013
(erano 159 nel 2012) ormai in Italia si conta quasi un assassinio ogni due
giorni.
Dall’oblio dei secoli è riemersa anche la vicenda di Giulia Maiana, che viveva nell’odierna
Lione. “Donna specchiatissima uccisa
dalla mano di un marito crudelissimo”, la definisce l’epitaffio
commissionato dal fratello Giulio
Maggiore e da suo figlio Ingenuinio
Gennaro. Anche di lei si sa poco, se non che fu sposata per 28 anni ed ebbe
due figli che, quando fu ammazzata, avevano 18 e 19 anni. Una lunga casistica
che contempla anche casi di rapine finite nel sangue, come la piccola e “sfortunatissima Giulia Restuta, uccisa a dieci anni a causa dei gioielli” che
indossava.
«Si tratta di tutte donne della classe media, le cui famiglie
potevano permettersi almeno una piccola epigrafe» spiega Pasqualini. «Possiamo
presumere tuttavia che nelle fasce più povere della società la situazione fosse
ancora peggiore, visto che storicamente i comportamenti degli strati superiori
si riflettono sempre all’ennesima potenza in quelli inferiori».
Non mancano nemmeno casi di femminicidio che vedono protagonisti personaggi celebri o donne ricche, tanto da essere citati perfino dagli autori classici. E se nelle sue Confessioni Agostino di Ippona riferisce delle numerose donne che addosso “portavano segni di percosse che ne sfiguravano addirittura l’aspetto”, lo storico Tacito racconta negli Annali la storia di Ponzia Postumina, vissuta al tempo di Nerone, indotta “con ricchi doni all’adulterio” dal tribuno della plebe Ottavio Sagitta e poi ammazzata al termine di una notte di passione trascorsa fra “litigi, preghiere, rimproveri, scuse ed effusioni”. Riconosciuto colpevole, Sagitta fu condannato per omicidio all’esilio su un’isola e dopo 13 anni - nel 70 dopo Cristo - poté rientrare a Roma grazie alla revoca del bando emesso nei suoi confronti.
Chi invece scampò del tutto alla condanna - probabilmente grazie agli agganci politici - fu il retore Erode Attico (la vicenda è raccontata da Filostrato nelle Vite dei sofisti), che fece picchiare dal proprio liberto Alcimedonte la moglie Annia Regilla, colpevole ai suoi occhi di chissà quale mancanza. La donna, all’ottavo mese di gravidanza, morì a causa di parto prematuro indotto dalle percosse ma Erode, portato in giudizio dal cognato Bradua, fu assolto per insufficienza di prove.
Una storia che ricorda da vicino quella di Poppea, moglie di Nerone, anche lei morta durante la gravidanza a causa di un calcio in ventre sferratole dall’imperatore, che peraltro aveva già fatto uccidere la madre Agrippina e la prima moglie Ottavia.
DIVORZIO E STALKING AL TEMPO DELL’IMPERO
Su alcuni aspetti, però, la società romana era assai più avanzata
della nostra. E se la Repubblica italiana ha dovuto attendere fino al 1970 per
vedere l’introduzione del divorzio, nell’antica Roma bastava che uno dei due
coniugi dichiarasse conclusa la “affectio
maritalis” (la volontà di essere sposati) perché il matrimonio venisse
sciolto. Circostanza ricorrente nelle classi agiate, come mostrano i casi di
molte donne cantate da poeti - dalla Lesbia di Catullo alla Cinzia di Properzio - che
cambiavano marito a ogni piè sospinto ed erano molto libere. Anche
sessualmente, come mostra il caso di Eppia,
moglie di un senatore dell’età di Nerone che - racconta Giovenale -
lasciò la famiglia e fuggì con un gladiatore di cui si era innamorata.
Le donne ricche infatti non avevano peso politico né diritto di voto
ma dal punto di vista economico erano abbastanza privilegiate: potevano
ricevere eredità proprio come gli uomini e possedere beni in proprio, anche se
avevano bisogno di un tutore maschio. Sebbene, con vari escamotage, riuscissero
ad avere una quasi completa libertà d’azione. E se in epoca repubblicana
l’ideale muliebre prevedeva che la donna si limitasse a badare alla casa, ad
allevare i figli e a dedicarsi al lavoro della lana, in età imperiale
acquisirono margini di autonomia abbastanza ampi, tanto che durante il
principato di Augusto c’erano anche quelle che esercitavano l’attività
di avvocato.
Insomma, una società in cui la violenza era incomparabile rispetto
ai nostri standard ma anche così evoluta da prevedere - a partire dal II secolo
avanti Cristo - una legge per perseguire il corteggiamento troppo insistente:
si chiamava edictum de adtemptata
pudicitia e a suo modo può essere considerato l’antenato dello stalking.
Un reato meno grave, però, se la vittima era una schiava, vestiva come tale o
come una prostituta (a prescindere se lo fosse effettivamente).
Segno, osserva Pasqualini, che già in epoca romana la presunta
provocazione femminile dovuta all’abbigliamento costituiva per l’uomo quella
discolpa che ancora oggi viene invocata ( e a volte
riconosciuta ) nei tribunali. D’altronde di che
meravigliarsi, se fino al 1981 il codice penale in Italia ancora riconosceva
delle attenuanti al delitto d'onore?
Fonte: srs di PAOLO FANTAUZZI
da L’Espresso.it del 23 giugno
2014
Nessun commento:
Posta un commento