Il popolo italiano non è mai stato razzista. Il popolo
friulano, presso il quale sono nato, e il popolo veneto, presso il quale mi
sono stabilito, non sono mai stati razzisti.
Al contrario: il Patriarcato di Aquileia, come crocevia di
popoli delle tre principali stirpi europee - la neolatina, la germanica, la
slava - e la Repubblica di Venezia, come crocevia di commerci - fra Occidente e
Oriente, fra Nord e Sud del continente - vantano entrambi una storia
plurisecolare di incontri, di scambi, di apertura verso qualunque popolo e
qualunque fede.
E ciò vale anche per le altre regioni e per le altre
popolazioni d’Italia, sia quella continentale, sia quella peninsulare ed
insulare.
Nel Sud vi sono addirittura delle oasi linguistiche greche e
albanesi, relitti di intere popolazioni che, molti secoli addietro, fuggirono
dalla Penisola Balcanica invasa dai Turchi e si trasferirono in Italia, per
vivere in pace e in sicurezza.
Fra XIX e XX secolo, poi, furono gli Italiani a prendere la
via dell’emigrazione, sia temporanea che permanente, sotto la spinta crudele di
una modernizzazione che imponeva nuovi ritmi di vita e nuove modalità di
produzione: a centinaia di migliaia, a milioni.
Emigranti friulani e veneti costruirono la ferrovia
transiberiana e contribuirono a realizzare il Canale di Suez e il Canale di
Panama, la ferrovia transcontinentale americana, le dighe più grandi del mondo,
dal Sud America all’Africa; coltivarono le savane e fecero fiorire i deserti,
con un prodigio di dedizione e amore.
Ovunque si fecero rispettare e stimare per le loro doti di
grandi lavoratori, per la sobrietà, per il loro spirito di sacrificio; non
sempre vennero ricompensati come avrebbero meritato, anzi, in certi casi
vennero spogliati di tutto; quelli che tornarono a casa, comunque, portarono
con sé un prezioso bagaglio di esperienze umane, di tolleranza, di capacità di
dialogo con le altre culture.
Mai gli Italiani si sono mostrati razzisti, lo ripetiamo:
non avrebbero potuto, considerata la loro storia, la loro civiltà, la loro
istintiva accoglienza e la loro generosità, legata ai valori religiosi e
patriarcali delle vecchie famiglie contadine.
Da qualche tempo, però, le cose stanno cambiando; e non per
colpa loro.
Una immigrazione strabocchevole, selvaggia, indiscriminata, sta
mettendo a durissima prova il loro tradizionale senso di ospitalità, la loro
naturale benevolenza verso l’altro: una immigrazione che non è stata proposta,
ma imposta e calata dall’alto, come un diktat, e gestita come peggio non si
sarebbe potuto, mostrando una dissennata tolleranza verso qualunque
comportamento deviante, a cominciare dal fato stesso dell’immigrazione
clandestina.
Non è che tutti gli immigrati si comportino male, sia
chiaro; ma il numero di quelli che si comportano male è alto, troppo alto; e a
ciò si aggiungono la faciloneria, il pressapochismo, l’incomprensibile
permissivismo di cui i governi, di destra e di sinistra, hanno dato prova nel
corso degli ultimi tre decenni. Troppo spesso gli stranieri non vengono qui in
atteggiamento umile e rispettoso, ma con arroganza e quasi con sfida: aprono
moschee abusive, praticano il commercio clandestino, adottano stili e
comportamenti quotidiani irrispettosi della quiete e della tranquillità dei
loro vicini di casa; il tutto nella maniera più aperta e sfacciata e, quasi
sempre, senza che giunga la benché minima reazione da parte delle pubbliche
autorità, vuoi per carenza di uomini e mezzi delle forze di sicurezza, vuoi per
un ben preciso disegno politico.
Interi quartieri delle nostre città sono ormai abbandonati a
se stessi, in balia di spacciatori di droga e prostitute, terrorizzati da
quotidiani scontri fra bande di malviventi stranieri o, nel migliore dei casi,
da quotidiani episodi di ubriachezza, di risse, di microcriminalità: al punto
che i residenti, la sera specialmente, ma ormai anche di giorno, hanno paura ad
uscire di casa.
La situazione va peggiorando di giorno in giorno e se
qualcuno si azzarda a farla presente, si vede immediatamente bollato di
razzismo e ridotto al silenzio, sotto una montagna di frasi fatte e insipide a
base di diritti umani, di civiltà, di arricchimento culturale; stuoli di
economisti ci spiegano che di questi immigrati noi abbiamo assoluto bisogno
(strano, vista la disoccupazione ormai dilagante) e frotte di politici e di
pretesi intellettuali ci rintronano gli orecchi con i loro ditirambi sulla
bellezza della società multietnica e multiculturale.
Si vede che la rivolta di Los Angeles nel 1992, quella delle
banlieue francesi nel 2005 e quella di Londra del 2011 non hanno insegnato
nulla a nessuno.
Intanto, in molte classi delle nostre scuole la presenza di
alunni stranieri è diventata così numerosa, che i nostri figli vi si trovano in
minoranza, quasi tollerati e costretti ad adeguarsi a programmi scolastici penosamente
ridotti, visto che molti dei loro compagni stranieri non padroneggiano neppure
i rudimenti della nostra lingua; e alcune solerti maestre decidono di
rinunciare al presepio e ai canti di Natale, per non offendere l’altrui
sensibilità.
Un preside della mia zona ha voluto regalare, con i soldi
della scuola, una bicicletta nuova a un alunno marocchino che aveva cercato di
rubare quella di un compagno: eppure, a parte il messaggio sommamente
antieducativo che è stato dato, ci sono anche dei bambini italiani che devono
rinunciare alla bicicletta, perché i genitori non possono comperargliela; anche
da noi esistono la povertà e l’indigenza, senza che ciò autorizzi moralmente al
furto.
Ebbene, tutto ciò non ha niente a che fare con l’accoglienza
e con lo spirito di fratellanza: è un suicidio culturale, puramente e
semplicemente. Il rispetto dovuto alle altre culture è una cosa ben diversa e
dovrebbe andare congiunto, fino a prova contraria, con il rispetto che esse
devono alla nostra, cioè a quella che ha accolto e sfamato tanti dei loro
membri.
Quei signori che parlano e blaterano di integrazione e ci
decantano le meraviglie della società multietnica non sanno letteralmente di
che cosa stanno parlano: o sono immensamente, totalmente ignoranti e
sprovveduti, oppure sono in malafede e vogliono farci trangugiare una minestra
che non serve alla nostra salute e al nostro benessere, ma che risponde semmai
agli occulti interessi di qualche potere invisibile, che sta perseguendo un suo
inconfessabile disegno di dominio globale, passando sulla testa dei liberi
cittadini.
Vorrei citare una esperienza diretta per rendere più chiaro
il discorso, anche se chiunque, purtroppo, potrebbe citarne di simili. Un mio
amico ristoratore è stato truffato, l’altro giorno, da una numerosa famiglia di
zingari: quattordici persone che si sono presentate a pranzo, si sono fatte
servire e poi, al momento di pagare, con la scusa che la carta di credito non
funzionava, se ne sono andate promettendo che avrebbero saldato, mentre sono
sparite senza più farsi vedere.
Un episodio quasi insignificante, se vogliamo, specialmente
se confrontato ad altri in cui emerge anche l’elemento della violenza; e,
tuttavia, un episodio che si aggiunge a una serie di altri episodi analoghi,
tutti caratterizzati da un fatto evidente: quando si incontrano bruscamente due
culture, in una delle quali fregare il prossimo è una cosa bella e buona ed una
in cui si praticano il rispetto e l’onestà, la seconda, inevitabilmente,
soccombe.
Quel mio amico è una persona niente affatto razzista, né
potrebbe esserlo, essendo nato all’estero e avendo vissuto, egli stesso, per
tanti anni da emigrante. Tutti i clienti sono uguali, per lui: il ricco e il
povero, l’Italiano e lo straniero; con tutti è gentile e disponibile e si fa in
quattro per servirli nel migliore dei modi, senza alcuna discriminazione. Il
lavoro è la sua passione e il tratto umano e gentile è la sua caratteristica
più evidente.
Però, dopo una serie di episodi spiacevoli come quello
appena ricordato, la sua fiducia nel prossimo e la sua benevolenza verso il
diverso stanno incominciando a scricchiolare. L’amarezza e lo scoraggiamento
sono aggravati dalla consapevolezza che lo Stato, sempre lento quando si tratta
di intervenire a difesa della legalità, è tuttavia prontissimo a farlo, quando
si tratta di trovare il pelo nell’uovo per erogare multe o per esigere sempre
nuove tasse e balzelli.
Fino a che punto devono arrivare le cose, prima che ci si
renda conto che stiamo giocando col fuoco e che, presto o tardi, ci bruceremo
malamente?
Perché una moschea abusiva viene tollerata dai sindaci e dai
prefetti, come niente fosse, mentre la più piccola irregolarità da parte di un
cittadino italiano viene subito sanzionata con multe pesantissime o con il
deferimento all’autorità giudiziaria?
Perché uno straniero, entrato illegalmente nel nostro Paese,
non appena ottiene lo status di rifugiato (e lo ottengono quasi tutti, a
migliaia, a decine di migliaia ogni anno), ha diritto a un generoso sussidio di
mantenimento, ovviamente a spese del contribuente; mentre certi nostri
pensionati possono anche crepare di fame o venire sfrattati in qualsiasi
momento, per l’impossibilità di pagare l’affitto di casa?
Si stanno creando le condizioni per spingere un popolo
accogliente e generoso, come l’italiano lo è sempre stato, a diventare
prevenuto, diffidente, maldisposto verso gli stranieri: e di tutto ciò bisogna
ringraziare i nostri folli demagoghi che, con irresponsabile leggerezza, hanno
spalancato le porte del nostro Paese, così, da un giorno all’altro, a masse di
immigrati delle più diverse provenienze, i quali, sovente, assumo atteggiamenti
da conquistatori, più che da ospiti.
Se anche fosse vero che la nostra economia ha bisogno di
manodopera straniera, dovrebbero essere il governo a stabilire quanti e di
quale provenienza, fissando un tetto massimo per ciascuna etnia e badando, come
è giusto e naturale anzitutto agli interessi del nostro Paese.
Gli immigrati cinesi, per fare un esempio, non investono un
euro che sia uno nella nostra economia: per il loro commercio si riforniscono
direttamente in Cina e poi vendono le merci a prezzi stracciati, facendo una
concorrenza insostenibile ai nostri commercianti. Intanto, nei laboratori
clandestini, operai e operaie cinesi lavorano in condizioni disumane
quattordici ore al giorno per una paga di pochi euro: ed ecco spiegato il
“miracolo” di quei prezzi così incredibilmente bassi.
Se, poi, si chiede loro di rispettare le regole e di non
parcheggiare abusivamente nel centro cittadino, eccoli pronti a scatenare una
rivolta in piena regola, come quella di Milano del 2007, innalzando le bandiere
della Repubblica Popolare Cinese sulle barricate, mentre le autorità di Pechino,
per bocca del loro ambasciatore, si permettevano di intromettersi e
raccomandare “moderazione” al nostro governo.
La domanda che dovremmo farci, più che legittima, è quale
vantaggio ricavi l’economia italiana da tutto ciò. Qualcuno, certamente, si metterà
a strepitare che badare ai nostri interessi è una forma di bieco egoismo
nazionale: certo che lo è; ma quale Stato degno di questo nome non pone i
propri interessi al di sopra di ogni altra considerazione?
Se non si vuole essere ipocriti, non è esattamente quello
che ognuno di noi fa riguardo alla propria famiglia: prima si preoccupa della
sicurezza e del benessere dei suoi cari e poi, se può, anche di quelli degli
altri?
Non c’è nulla di male, nulla di vergognoso e, tanto meno,
nulla di razzista in un simile modo di ragionare: e chi afferma il contrario o
è uno sciocco, o è in malafede.
I nodi stanno venendo al pettine, non possiamo permetterci
di perdere altro tempo.
L’immigrazione va
frenata, controllata, gestita in maniera responsabile; bisogna fare di tutto
per incoraggiare gli immigrati a tornare nei Paesi di provenienza, anche
incentivandoli economicamente, in modo che possano impiantare a casa loro delle
piccole attività commerciali o acquistare un pezzo di terra da lavorare.
Non possiamo farci carico di tutta la miseria del mondo, di
tutte le guerre che infuriano, di tutte le foreste che scompaiono o di tutti i
deserti che avanzano. Se non vogliamo scomparire anche noi.
Fonte: srs di Francesco Lamendola, da Arainna Editrice del 31/agosto/2011
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