mercoledì 19 gennaio 2011

DESERT STORM: Parla il pilota Gianmarco Bellini
«Per lo Stato non ho combattuto in Iraq»

Il colonnello dell'aeronautica Gianmarco Bellini

Il 18 gennaio 1991 il Tornado pilotato da Gianmarco Bellini fu abbattuto e i due ufficiali furono fatti prigionieri. Vent'anni dopo negati i riconoscimenti. Oggi nel curriculum ufficiale del pilota veronese non c'è traccia della missione e della prigionia. Risulta «a disposizione del comandante di corpo»

Venti anni dopo l'eroe della prima guerra del Golfo presenta il conto. «Il mio aereo è stato abbattuto dagli iracheni in combattimento, ho fatto 47 giorni di prigionia subendo torture fisiche e psicologiche, ho ricevuto una medaglia d'argento al valor militare, ma ufficialmente non sono mai stato in guerra. Però ho fiducia nelle istituzioni e sono sicuro che tutto questo verrà presto riconosciuto».


A parlare è il colonnello Gianmarco Bellini, il pilota del Tornado abbattuto dagli iracheni il 18 gennaio 1991. Con lui il suo navigatore, Maurizio Cocciolone, il cui volto tumefatto apparso in tv con la tuta da prigioniero sconvolse l'Italia.
«Ricordo bene quei giorni», dice Bellini all'Ansa. «Eravamo otto equipaggi di Tornado schierati ad Al Dhafra, la crema dell'Aeronautica militare. Tutti perfettamente addestrati. Quando il 16 gennaio il Parlamento ha dato il via libera all'impiego delle bombe sapevamo che presto sarebbe arrivato il momento».
E il «momento» arrivò l'indomani. L'obiettivo era «un deposito di munizioni in Kuwait».

Gli otto aerei italiani decollano insieme ad altri trenta di vari Paesi, ma a causa della turbolenza l'unico che riesce a fare rifornimento in volo è Bellini, non a caso considerato un pilota dalle capacità eccezionali.
«Eravamo rimasti soli, ma ci siamo diretti lo stesso sul target e l'abbiamo centrato. Cinque bombe, sganciate da 40 metri di altezza». Ma l'antiarea irachena risponde «in modo rabbioso». L'aereo, colpito alla coda, è ingovernabile. «Ci siamo catapultati due secondi prima che precipitasse ed è un miracolo se siamo vivi», racconta il top gun di Crosare di Pressana, nel Basso Veronese.

Da quel momento la memoria di Bellini ha un buco di dieci giorni, probabilmente perchè è stato «pesantemente drogato. Quando torno a ricordare», spiega, «mi trovo in una cella singola, fredda e sporca, sofferente per le fratture. Ricordo gli interrogatori: non volevano sapere chissà che segreti, ripetevano solo che mi avrebbero ucciso. Avevo una luce sparata in faccia e mi arrivavano botte da persone che non riuscivo a vedere». Il 23 febbraio anche quel palazzo, a Baghdad, viene bombardato. I prigionieri, nel seminterrato, si salvano. Vengono portati via, incappucciati. «Poi la guerra finisce e il 3 marzo siamo stati ripuliti alla meglio e liberati».

IL NAVIGATORE. Di Cocciolone, il suo ufficiale navigatore, Bellini non aveva saputo più niente. «L'ho rivisto sulla nave ospedale dove ci hanno portato. È stato un momento toccante». Quell'esperienza tremenda ha cambiato a entrambi la vita. «Siamo tornati a volare insieme, pochi mesi dopo. Ma le nostre strade si sono poi separate. Non posso dire di essere suo amico, però ci sentiamo ogni tanto», dice il pilota.
Oggi Cocciolone è in servizio a «Italnamsa», una struttura della Difesa, mentre Bellini - dopo vari incarichi in Italia, Inghilterra e negli Usa - è al Jfc Naples, il comando Nato di Bagnoli. I suoi colleghi di corso, in cui si è piazzato secondo, sono generali dal 2007. Lui, a 53 anni, uno dei migliori piloti italiani, resta sempre il colonnello Bellini. Anche e soprattutto perché nel suo stato di servizio non c'è traccia né di guerra, nédi prigionia, né di ferite in combattimento. In quel periodo lui risulta solo «a disposizione del comandante di corpo».

INCARICHI. «Potevo anche stare alle Maldive, sarebbe stata la stessa cosa», ironizza. Il problema non riguarda naturalmente la sua Forza armata, che gli è sempre stata vicina e gli ha affidato anche incarichi prestigiosi, come il comando dello Stormo caccia di Ghedi, ma è normativo. L'Italia all'epoca non era ufficialmente in guerra con l'Iraq e dunque, semplicemente, non esistono prigionieri o feriti di guerra italiani.
Questo Bellini lo trova «ingiusto».
«Io mi sento fiero di aver aiutato quel popolo ad essere libero, eppure quella è una guerra ignorata», dice. «L'Italia è un Paese serio e dovrebbe uscire da questi sotterfugi alla 8 settembre. È una mancanza di rispetto nei confronti di chi ha operato, di chi ha sofferto e della Forza armata: il potere aereo è stato decisivo nel chiudere la partita in pochi giorni e con un numero ridotto di vittime. Che tutto questo non venga riconosciuto mi fa star male». Ma oggi «finalmente», afferma Bellini, «le cose stanno cambiando, forse grazie proprio alla nostra esperienza: in Afghanistan non si parla più ipocritamente di missione di pace, i soldati laggiù sono tutelati dal codice penale militare di guerra ed io sono convinto che anche a tutti quelli che hanno operato nel Golfo verrà dato il giusto riconoscimento».
In effetti, la questione è «all'attenzione» del ministero della Difesa, come è stato precisato in risposta a una recente interrogazione parlamentare proprio sul «caso Bellini». 
E sono molti quelli d'accordo con il pilota italiano abbattuto in Iraq 20 anni fa. Su Facebook è nato il gruppo «Gianmarco Bellini prigioniero di guerra» e, in un paio di giorni, gli iscritti erano già 3.300.

MISSIONE E PRIGIONIA

 L'immagine di Cocciolone dopo la cattura diffusa dalla tv irachena

Il pilota e il navigatore. Gianmarco Bellini e Maurizio Cocciolone: in comune oltre alla missione ebbero la prigionia in Iraq, poi le loro vite e le loro carriere sono state diverse. Nel 1998 Cocciolone diventa comandante della base di Bovolone, il 72° Gruppo intercettatori, poi si sposta in Europa con vari incarichi e da dieci anni vive a Roma. Nel 2005 ha curato la pianificazione operativa di una base avanzata in Afghanistan, attivato una base aerea e per otto mesi, a Herat, è stato comandante della Task Force Aquila e vice comandante della base avanzata Nato. Attualmente è assegnato all'organizzazione nazionale di coordinamento dell'agenzia NAMSA della Nato.
Di quel che accadde vent'anni fa ne ha parlato recentemente in un'intervista: «prima c'era troppo trambusto, non ero preparato e la stessa Aeronautica non era in grado di gestire un evento mediatico così». Ed era rimasto in disparte. Parla di sé, delle torture subite durante la prigionia, delle lesioni permanenti causate dalle botte, delle scosse elettriche. «Ho fatto il mio dovere al meglio delle mie possibilità in totale fedeltà alle istituzioni». Ma al rientro, nessun aiuto, nessun supporto.

1 commento:

Stradella ha detto...

terrificante. stato ingrato. riconoscimenti non dati per opportunità legale e burocratica.
io ho fatto l'obiettore di coscienza, ma rispetto lescelte di chi ha voluto fare il lavoro di soldato. Mi ricordo che all'epoca conobbi un ex militare di leva reso invalido da un incidente sotto leva, mai riconosciuto degno della invalidità, costretto a lottare per vivere. Mi convinse a non fare il militare di leva.