Victory palestinese
Per duemila anni la Palestina è stata il segno della
concordia e della tolleranza tra le varie confessioni ed etnie (unica parentesi
i turbolenti Regni Crociati del Medio Evo). Poi, nel 1948 a seguito di una
semplice deliberazione dell’ONU a carattere consultivo, in spregio al diritto
internazionale e al principio dell’autodeterminazione dei popoli (la
popolazione non fu neppure interpellata con un referendum), le potenze
vincitrici del secondo conflitto mondiale decisero di donare metà della Palestina
agli ebrei con il pretesto che questi erano originari di quei luoghi e come
forma di risarcimento per aver subito la persecuzione hitleriana (in realtà per
lavarsi la coscienza a costo zero scaricandolo sui palestinesi).
Gli ebrei, preso possesso di quelle terre, cacciarono con la
forza chi le abitava da sempre: 900mila palestinesi furono costretti ad
abbandonare le loro case per fare posto ai nuovi arrivati e 530 villaggi furono
completamente distrutti per impedirne il ritorno e molti altri sostituiti con
insediamenti per soli ebrei. Neppure i cimiteri, luoghi sacri per i musulmani,
furono risparmiati.
Lo spirito colonialista e di supremazia razziale del
movimento sionista è condensato nello slogan, poi ripreso dal futuro Primo
Ministro Israeliano Golda Meir: « Una terra senza un popolo,
un popolo senza terra». In queste parole si coglie la totale indifferenza
ebraica verso la popolazione palestinese che non viene neppure considerata,
come se non esistesse.
Forti dell’appoggio incondizionato degli americani e,
inizialmente, anche dei sovietici, gli ebrei si abbandonarono a vere e
proprie stragi e atti di puro terrorismo come il massacro del villaggio
palestinese di Deir Yassin del 9 aprile 1948 ad opera del gruppo terrorista
IRGUM (i cui leader politici erano Begin e Shamir) che causò la morte di 254
tra vecchi, donne e bambini (1) e
l’assassinio, avvenuto il 16 settembre dello stesso anno, del mediatore delle
Nazioni Unite, lo svedese Folke Bernadotte, per aver denunciato le violenze
sioniste. L’omicidio fu rivendicato da un gruppo terrorista di cui facevano
parte due futuri ministri israeliani, Cohen e Friedman.
Anche da parte palestinese non mancarono atti di terrorismo
a cui corrispondevano rappresaglie dure, indiscriminate e sproporzionate.
Le successive guerre arabo-israeliane si conclusero con la
netta sconfitta della coalizione araba, disorganizzata e male armata, e con
l’occupazione di altre consistenti porzioni di territorio palestinese.
Il nuovo Stato d’Israele si è subito caratterizzato in senso
rigidamente razziale e confessionale essendo aperto ai soli ebrei osservanti.
Una legge, quella definita “Del Ritorno”, consente alle autorità religiose
ortodosse di esercitare un controllo ferreo sui matrimoni ebraici, sono infatti
vietati i matrimoni tra gli ebrei e i non ebrei, i cosiddetti “gentili”,
sui divorzi, sulle conversioni e sulle sepolture.
Ai palestinesi è negata qualunque possibilità di farvi
parte. Lo stesso impedimento riguarda gli ex-ebrei, ossia persone che pur
essendo di discendenza ebraica professano una religione diversa dal Giudaismo:
anche a loro è impedito di stabilirsi in Israele.
I pochi arabi che hanno potuto continuare a vivere in quella
che una volta era la loro terra devono essere riconoscibili (le loro auto, ad
esempio, hanno una targa diversa); è sì permesso loro di eleggere dei
rappresentanti al Parlamento, ma in quanto piccola, innocua e assimilata
minoranza.
Il concetto di società multietnica che tanto piace in
Occidente e sbandierato anche in Italia come massima espressione di democrazia,
libertà e pluralismo in Israele non solo non è neppure contemplata, ma è
addirittura vietata per legge.
Una sentenza della Corte Suprema israeliana del 1989
stabilisce che alle elezioni sono esclusi partiti politici o persone che
prevedono nel loro programma uno Stato multi-culturale o che mettano in
discussione il principio dello Stato per Soli Ebrei (SSE).
Israele non ha una Costituzione e questo consente ai suoi
tribunali di agire con libertà ed arbitrio nelle sentenze, soprattutto a carico
dei non ebrei.
Con queste caratteristiche definire Israele un “avamposto di
democrazia in Medio Oriente”, come spesso si sente affermare, mi pare quanto
meno azzardato.
Quella che è in atto da sessant’anni in Palestina è una
lotta tra due popoli per il diritto all’esistenza. La differenza è che mentre
gli israeliani, armati dall’America, hanno uno dei più potenti eserciti del
mondo con tanto d’armamenti nucleari che possono usare a loro piacimento, i
palestinesi possono disporre solo di rudimentali razzi a breve gittata forniti
dall’Iran (che fanno più rumore che danni) e del proprio corpo. A ciò si
aggiunge la diplomazia occidentale guidata dall’America che, con il suo
atteggiamento sempre giustificativo a favore d’Israele anche quando commette
atti disumani come il bombardamento di abitazioni civili l’omicidio di politici
palestinesi, non lavora certo per la pace.
Circondata da mura alte 10 metri, controllata dal mare dalle
navi da guerra e dal cielo dai satelliti spia a sostegno di un rigido embargo
esteso anche ai prodotti di prima necessità che impedisce perfino il transito
degli aiuti umanitari, la striscia di Gaza è stata trasformata dagli israeliani
nel più grande campo di concentramento che la storia ricordi. Sfido chiunque a
resistere in quelle condizioni senza farsi saltare i nervi e vorrei vedere una
qualsiasi persona assistere alla morte del proprio figlio per la mancanza di
medicinali o sopravvivere senza elettricità e con l’acqua razionata senza
provare odio e meditare vendetta verso gli artefici di questa ingiustizia (2).
Il fine ultimo degli israeliani è quello di costringere i
palestinesi ad abbandonare la loro terra per realizzare il sogno biblico
della ”Grande Israele”, come preconizzato dal fondatore del movimento
sionista Theodor Herzl e confermato dal padre della Patria David Ben Gurion
che, in un discorso del 1937, dichiarò senza mezzi termini: «Noi dobbiamo
espellere gli arabi e prenderci i loro posti». Non a caso Israele è l’unico
Paese al mondo che si rifiuta di definire formalmente i suoi confini.
Condanniamo pure gli attentati suicidi dei palestinesi, i
razzi di Hamas e le bandiere con la stella di David bruciate in piazza dai
manifestanti, ma se veramente amiamo la pace non possiamo sorvolare sulle
responsabilità dell’Occidente americanizzato e continuare a giustificare la
politica repressiva d’Israele.
Il popolo ebraico ha subito per duemila anni ogni sorta di
persecuzione, ma questo non deve essere usato dal governo israeliano come
pretesto per la sua politica repressiva e disumana contro un popolo, quello
palestinese, che ha una sola colpa: quella di amare la sua terra e di non
volerla abbandonare.
(1)
gli adulti erano intenti a lavorare nei campi distanti e quando si affrettarono
a tornare la carneficina fu compiuta, stupri compresi.
(2) la
prima cosa che gli israeliani hanno bombardato durante l’offensiva del 2008
sono state le centrali elettriche, i dissalatori e la centrale del latte.
Fonte: srs di Gianfredo
Ruggiero, su Excalibur del 15 novembre 2012
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