di Gianfredo Ruggiero
Le leggi del ‘38 furono una vergogna nazionale la cui
responsabilità ricade interamente su Mussolini e su quanti, per ignavia o
servilismo, nulla fecero per evitarle. Il rispetto per le vittime della
discriminazione razziale non può e non deve però impedirci di affrontare
l’argomento con il dovuto distacco e la necessaria serenità di giudizio. Per
troppi anni la storia è stata viziata da pregiudizi e comodi schematismi che ci
hanno portato lontano dalla verità. La stessa storia del popolo ebraico è
costellata di stragi e persecuzioni a causa di un pregiudizio - accusa dei
cattolici di aver ucciso Gesù - cui se ne sono aggiunti altri nel corso dei
secoli (usura, internazionale ebraica per dominare il mondo attraverso il
controllo delle economie nazionali, devianza sessuale per la pratica della
circoncisione definita un patto con Cristo attraverso il pene, ecc.). Hitler in definitiva non ha inventato nulla,
ha semplicemente portato alle estreme conseguenze, in modo raccapricciante e
disumano, quell’antiebraismo figlio del pregiudizio, ancor oggi presente.
Come hanno riconosciuto autorevoli storici del calibro di
George L. Mosse, docente dell’Università ebraica di Gerusalemme, l’autore de “la nazionalizzazione della masse” la
più completa opera sul fenomeno dei totalitarismi contemporanei (ed. il Mulino,
Bologna 1975), Renzo De Felice, il più profondo conoscitore della
storia degli ebrei sotto il fascismo (ed. Einaudi, Torino 1993) e il rabbino
Elio Toaff nel suo libro “ essere ebreo” (ed. Bompiani, Milano 1996,
pag. 134), tra i Paesi europei l’Italia è uno di quelli che meno ha
conosciuto il razzismo.
A differenza del nazionalsocialismo che trae la sua essenza
nella purezza della razza (razzismo biologico, di origine illuminista e
darwiniana), il Fascismo non fu ideologicamente razzista. Nella carta di
Piazza San Sepolcro del ‘19, vero e proprio manifesto ideologico cui s’ispirò
il fascismo nelle sue tre fasi – movimento, regime e sociale – di
razzismo non vi è traccia. Mussolini stesso ebbe a dichiarare in più occasioni
che in Italia non esisteva una questione ebraica e guardò con sufficienza alle
teorie hitleriane (“Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con
sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe…” afferma nel ’34 a Bari).
Che nel bagaglio ideologico e culturale del fascismo non vi
fosse alcuna forma di antisemitismo lo dimostrano la presenza di ben cinque
ebrei tra i partecipanti alla fondazione dei fasci di combattimento (embrione
del futuro Partito Fascista) del 23 marzo 1919, la partecipazione alla “Marcia
su Roma” di molti ebrei e l’iscrizione al Partito fascista fino al 1933 – data
dell’ultimo censimento del dipartimento della demografia e razza – di oltre
diecimila ebrei (cfr R. De Felice – storia degli ebrei italiani sotto il
fascismo), senza contare la presenza ebraica in tutti i settori
dell’economia e della vita pubblica e politica italiana fino ai primi mesi del
1939.
Diversi ebrei occuparono posti di grande rilievo nelle
strutture del Regime, basti pensare, solo per citarne alcuni, all’ebrea Margherita Sarfatti che fino al 1936
diresse la rivista ufficiale del Fascismo “Gerarchia”, a Ettore Ovazza direttore
del giornale “La nostra Bandiera” punto di riferimento dell’ebraismo
fascista; Guido Jung,
ebreo, fu a capo del Ministro delle Finanze dal 1932 al 1935 e Maurizio Rava, anch’egli
ebreo, fu vicegovernatore della Libia
e Generale della Milizia fascista.
il “Manifesto degli intellettuali fascisti” del ’25,
redatto dal filosofo Giovanni
Gentile, veniva sottoscritto da ben trentatré esponenti della cultura di
religione ebraica.
I rapporti tra istituzioni ebraiche – che godettero d’ampia
autonomia – e regime fascista furono sempre improntati al reciproco rispetto.
Diversi furono i colloqui tra Sacerdoti, presidente dell’Unione delle
Comunità ebraiche italiane, e Mussolini che portarono, ad esempio nel campo
dell’insegnamento, all’istituzione di sezioni elementari ebraiche nelle scuole
comunali e alla modifica dei manuali di religione ad uso dei bambini ebrei
nelle scuole statali. La “legge Falco” del 1930 sulle comunità
israelitiche italiane, voluta da Mussolini per salvaguardare il patrimonio
artistico, storico e culturale ebraico, fu giudicata favorevolmente dagli
stessi ebrei italiani.
Quando, con l’ascesa al potere di Hitler, riprese vigore in
tutta Europa l’antiebraismo, l’Italia fascista, a differenza delle democratiche
Francia e Inghilterra che si chiusero a riccio, aprì le sue frontiere agli
ebrei: furono circa diecimila i profughi provenienti da Germania, Polonia,
Ungheria e Romania che trovarono rifugio nel nostro Paese; altri quattromila
ebrei poterono emigrare in Palestina attraverso il porto di Trieste grazie alla
collaborazione delle autorità italiane.
Mussolini, per un certo periodo, abbozzò anche l’idea di
costituire in Etiopia, colonia italiana dove viveva, tutelata dal Governo
italiano, una folta comunità di falascià (ebrei africani), l’embrione della
futura nazione ebraica.
Uniche voci dissonanti di un certo rilievo provenivano da Giovanni Preziosi e dalla sua rivista “La
vita italiana”, il cui antisemitismo si collocava nella tradizione
cattolica (non a caso Preziosi era un ex sacerdote) e da Interlandi che attraverso le pagine del “Tevere” riproponeva
i luoghi comuni dell’antiebraismo classico. Argomenti che, in ogni caso, ebbero
scarsa presa sull’opinione pubblica italiana e ancor meno considerazione da
parte della cultura fascista.
Improvvisamente (in verità qualche accenno vi fu nel corso
dell’anno precedente) nel 1938, a seguito di una deliberazione del Gran
Consiglio del Fascismo del 6 ottobre, furono emanate le famigerate e mai tanto
deprecate leggi razziali la cui essenza spirituale mirava tuttavia ad emarginare
gli ebrei senza perseguitarli, contrariamente a quanto avveniva in
Germania, in Europa orientale e, in maniera strisciante, in alcune democrazie
occidentali.
Durante la guerra, nonostante le pressanti richieste da
parte tedesca, Mussolini si rifiutò sempre di consegnare gli ebrei
italiani ai nazisti e diede disposizioni per attuare nelle zone controllate
dall’esercito italiano (Tunisia, Grecia, Balcani e sud della Francia) vere e
proprie forme di boicottaggio per sottrarre gli ebrei ai tedeschi (era
sufficiente avere un lontanissimo parente italiano, spesso inventato, per
ottenere la cittadinanza italiana e sfuggire in questo modo alla deportazione).
Fino a quando Mussolini ebbe il pieno
controllo dell’Italia, questo fino al 25 luglio del ’43, nessun ebreo fu
deportato in Germania.
Solo successivamente con la Repubblica Sociale Italiana essendo,
di fatto, l’Italia centro settentrionale un protettorato tedesco, i nazisti
poterono imporre facilmente la loro volontà fatta di rastrellamenti e
deportazioni di massa.
Ma a differenza di altri paesi occupati, come ad esempio la
Francia di Vichy, dove i tedeschi
poterono attuare il loro programma di persecuzione degli ebrei con il pieno
appoggio delle autorità locali (che superarono per zelo gli stessi nazisti), in Italia i tedeschi dovettero provvedere
in prima persona per la ferma opposizione del governo fascista che negò
sempre la sua collaborazione. La partecipazione dei fascisti ai rastrellamenti
degli ebrei fu, infatti, sporadica e opera di formazioni irregolari che
sfuggivano ad ogni controllo.
E’ vero che molti italiani, fascisti e non, fecero opera di
delazione e contribuirono attivamente per consegnare gli ebrei agli aguzzini
tedeschi, spesso per motivi personali; ma è altrettanto vero che moltissimi
altri italiani, fascisti e non, si adoperarono per salvarli, rischiando per
questo la loro vita (il caso Perlasca,
ufficiale fascista che salvò in Ungheria migliaia di ebrei, è uno dei tanti).
Purtroppo la proverbiale e provata generosità del nostro popolo è spesso
contraddetta da episodi di pura cattiveria e grande meschinità che si sono
manifestati anche in epoca recente: sul finire della guerra contro gli ebrei e
dopo la guerra in Italia contro fascisti o presunti tali compresi i loro
famigliari, come ampiamente documentato nei libri di Pansa, Pisanò ed Ellena
(solo per citarne alcuni).
Cosa indusse Mussolini ad imboccare la strada
dell’antiebraismo che portò alla espulsione degli ebrei dagli incarichi
pubblici e a negare loro molti diritti civili, è ancora oggi oggetto di
discussione tra gli storici onesti.
Scartata la tesi marxista della contiguità ideologica con il
nazismo che, come abbiamo visto, è totalmente priva di fondamento (De Felice afferma che le differenze
ideologiche tra i due regimi sono ben maggiori delle affinità), quella più
accreditata fa riferimento all’alleanza con la Germania e al conseguente
influsso nefasto che le teorie di Rosenberg
ebbero sul finire degli anni trenta anche in Italia e che andarono a
risvegliare il mai sopito antisemitismo di matrice cattolica (accusa di
deicidio).
Fin qui l’Italia. Proviamo ora ad allargare lo sguardo e a
vedere cosa accadeva nel resto del mondo negli stessi anni.
La Svezia, ad esempio, nello stesso periodo inviò in
Germania una delegazione del suo Parlamento per studiare la legislazione
razziale tedesca e, insieme a Norvegia e Danimarca, attuò una politica
eugenetica che portò tra il 1934 e il 1976 alla sterilizzazione coatta di
oltre 106.000 persone, in prevalenza donne – disadattate, con problemi
psichici o zingare – ritenute geneticamente pericolose per la purezza della
razza (Gianni Moriani “ il secolo dell’odio” ed. Marsilio Padova, 1999).
In Sud Africa gli Afrikaner, i bianchi di origine europea,
istituivano la segregazione razziale, rimasta in vigore fino al 1994.
L’America, quella ipocritamente rappresentata dalla
statua della libertà, dopo aver sterminato milioni di pellirosse, ritenuti
esseri inferiori, e ridotto in schiavitù altrettanti neri prelevati a forza
dalla loro terra e trattati alla stregua di animali domestici su cui esercitare
diritto di vita e di morte, manteneva, sempre nei confronti dei neri, un regime
di rigida separazione razziale. Si dovettero attendere gli anni sessanta per
vedere abrogate queste odiose misure razziste per le quali nessuno mai pagò, neppure
davanti al tribunale della storia.
Stalin non pago di aver massacrato milioni di contadini
russi (Kulak) contrari alla collettivizzazione forzata e altrettanti oppositori
politici eliminò, come ha documentato lo storico russo Arkaly Vaksberg, nel suo libro “Stalin against Jews”, non meno di 5
milioni di ebrei. Eppure tra i giudici di Norimberga figurava anche la
Russia di Stalin.
Un capitolo a parte riguarda le responsabilità dei
vincitori. America, Inghilterra e Russia sapevano, vedevano e lasciavano
fare. La Germania era ridotta ad un ammasso di rovine ad opera dei
bombardamenti alleati, ma le linee ferroviarie (i famosi binari 21) da
dove partivano i vagoni carichi di ebrei per i campi di concentramento
rimanevano inspiegabilmente intatti e neppure un solo campo di prigionia fu
sfiorato dalle bombe che giorno e notte martellavano ogni angolo della
Germania.
In precedenza i tentavi di espatrio degli ebrei dalla
Germania nazionalsocialista furono sempre violentemente contrastati dalle
Nazioni democratiche. Come ci ricorda lo storico Filippo Giannini in un suo recente articolo, Roosevelt fece intervenire la "U.S. Navy" per
impedire con la forza l’approdo sulle coste statunitensi di un piroscafo carico
di ebrei fuggiti da Amburgo, Churchill minacciò
di silurare a Salina, nel Mar Nero, un’altro carico di ebrei in navigazione
verso la Palestina. Nella terra promessa gli inglesi fucilavo e impiccavano gli
ebrei riottosi per scoraggiare ulteriori sbarchi (e gli ebrei rispondevano con
atti di terrorismo come la distruzione l’albergo Re David a Gerusalemme).
Dopo il processo di Norimberga, dove furono giudicati i
crimini nazisti e dove non avrebbero sfigurato sul banco degli imputati coloro
che nulla fecero per evitare la Shoa, i vincitori decretarono la nascita di
Israele, scaricando di fatto sui palestinesi il peso delle loro responsabilità…
e la storia continua.
Gianfredo Ruggiero, presidente Excalibur
Fonte: srs di Gianfredo
Ruggiero, da Excalibur del 15
dicembre 2008
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