Lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia, più di
cinquant’anni fa, utilizzò la metafora della Linea della Palma per descrivere
l’espandersi della Mafia al Nord.
Un incontro con l’ex PM del maxiprocesso di Palermo ed ex
Senatore e Sottosegretario alla Giustizia Giuseppe
Ayala ci aiuta a capire le strategie e le intenzioni di Cosa nostra,
‘ndrangheta e Camorra.
La limpidezza e la fermezza nell’esporre e nel raccontare
vicende storiche, anche drammatiche, che hanno accompagnato la sua lunga
carriera di magistrato e di politico, come l’uccisione dell’amico fraterno
Giovanni Falcone, del collega Paolo Borsellino e degli uomini della scorta, o
nel descrivere situazioni di forte tensione come il clima pesantissimo che si
respirava in Parlamento dopo le stragi di Capaci e via d’Amelio, e con il
ciclone Tangentopoli che in quegli anni avrebbe spazzato via la prima
Repubblica, fanno emergere chiaramente il carattere forte e deciso di Giuseppe
Ayala.
L’ex magistrato, noto per aver ricoperto il ruolo di
Pubblico Ministero al maxi- processo di Palermo (10 febbraio 1986 - 16 dicembre
1987), considerato il primo vero colpo inflitto dallo Stato a Cosa Nostra, è
stato ospite il 21 novembre scorso a un incontro a Santa Maria in Stelle,
organizzato dalla Parrocchia. Durante la serata, in una chiesa gremita di
persone, Ayala ha presentato la sua ultima fatica editoriale intitolata “Troppe coincidenze”, un volume edito da
Mondadori che ripercorre alcune
passaggi fondamentali della politica italiana nel biennio 1992- 1994. In quei
mesi si susseguirono numerosi avvenimenti (“coincidenze” per l’autore, ndr) che
resero evidente l’esistenza di una trattativa tra Stato e Mafia per cercare di
mettere fine all’ondata di sangue iniziata il 21 luglio 1979 con l’assassinio
del capo della Squadra mobile di Palermo Boris Giuliano.
Dott. Ayala, partiamo dal titolo del suo libro: di quali
coincidenze stiamo parlando?
Il caso volle che nel 1992, poco prima delle stragi di
Capaci e via d’Amelio, cambiassi ruolo. Da pubblico accusatore a Palermo a
membro del Parlamento proprio alla vigilia di Tangentopoli, il ciclone che di
lì a poco avrebbe fatto crollare un sistema di potere che, nel bene e nel male,
durava da oltre quarant’anni. Da questo osservatorio privilegiato ebbi
l’occasione di analizzare una serie di fatti che, inseriti in una logica
concatenata, permettono di ricostruire le troppe coincidenze che hanno
caratterizzato le relazioni tra mafia, poteri occulti e politica, disegnando un
quadro opaco che coinvolge criminalità mafiosa e pezzi deviati dello Stato.
Quali sono gli interrogativi che nascono dalla sua
analisi?
Fu solo di Cosa Nostra la responsabilità delle stragi del
1992 e del 1993 a Palermo, Roma, Firenze e Milano? Perché la mafia decise di
rinunciare all’attacco finale nei confronti dello Stato? Quale ruolo hanno
avuto le istituzioni nella lunga “pax
mafiosa” che dura da quel mancato attentato del 23 gennaio 1994 allo Stadio
Olimpico di Roma, quando, per un puro caso (interferenza nel segnale del
telecomando, ndr), una Lancia Thema imbottita di tritolo non saltò in aria
durante la partita Roma – Udinese evitando, per fortuna, l’ennesimo tragico
capitolo del nostro paese? Perché, sempre per fortuna, la mafia non ammazza
più? Sono questi i dubbi, i quesiti a cui ho cercato di dare una risposta
all’interno del libro.
Assieme al pool antimafia di Palermo, grazie al maxiprocesso,
lei definì per la prima volta i contorni di un fenomeno, quello mafioso, che
c’è sempre stato, ma che addirittura prima del 1982 non veniva nemmeno
contemplato all’interno del Codice penale. Cos’è secondo lei la mafia?
Per darvi una definizione utilizzerò le parole di Giovanni
Falcone, con il quale iniziai la mia avventura di magistrato a Palermo.
Giovanni definiva la mafia con due iniziali, due “P”: Mafia è potere e profitto. Un’organizzazione che non segue delle logiche
ideologiche, bensì solo ed esclusivamente la ricchezza. Non troveremo mai
contaminazioni mafiose in territori poveri, depressi o in territori dove,
viceversa, esistono delle regole ferree e un tessuto sociale forte, coeso
sostenuto dall’associazionismo, dalla solidarietà tra le persone.
Leonardo Sciascia utilizzava la meta- fora della Linea
della Palma per de- scrivere l’avanzamento delle mafie al Nord. Erano evidenti
già allora i segnali di questa conquista silenziosa?
Sciascia intuì il fenomeno più di cinquant’anni fa,
paragonandolo a una teoria geologica secondo la quale, a causa del
riscaldamento del pianeta, la linea di crescita delle palme sale verso il nord
di un centinaio di metri all’anno. Anche la linea della mafia sale ogni anno. E
si dirige verso l’Italia del nord.
È così scontato chiedere perché al Nord?
Grazie al lavoro di Falcone, di Borsellino e degli altri
giudici istruttori, alla fine degli anni Ottanta avevamo tracciato i contorni
della lobby mafiosa. Era ovvio che la mafia, da sempre, guadagnasse centinaia di
miliardi con i traffici illeciti. I capitali che finivano nelle loro mani
dovevano essere riciclati. Ci chiedevamo: “Tra le asfittiche economie del Sud e
le vive e vitali economie del Nord, dove conveniva investire?”. Gli abitanti
del Settentrione hanno sempre ritenuto che la questione fosse circoscrivibile
alla Sicilia, alla Calabria o alla Campania. I mafiosi, invece, si sono
infiltrati nell’economie di vaste aree del Piemonte, della Lombardia, del
Veneto, dell’Emilia Romagna, soprattutto nell’edilizia, settore molto caro alle
organizzazioni criminali perché particolarmente adatto alla speculazione.
Evidentemente qualcuno li ha lasciati entrare.
C’è qualcosa che non avevate previsto?
Sì, ed è questo il limite dell’analisi che facemmo io e
Giovanni insieme al Pool a quel tempo. L’infiltrazione è andata oltre, ha
raggiunto molte amministrazioni comunali del nord e quindi si è innescato un
inquinamento non solo dell’economia, ma anche della società. Sì è ripetuto al
Nord il modello meridionale, in quella che si può considerare una vera e
propria esportazione del modello mafioso. Al Nord, in particolare, la ricchezza
diffusa ha generato un forte individualismo tra le persone, con un conseguente
senso di opportunismo. Al diritto ci si è indirizzati verso il favoritismo,
creando l’humus ideale per l’attecchimento delle radici mafiose.
Cosa intende per opportunismo?
Per anni si è cercata la scorciatoia più breve per guardare
ai propri interessi. Applicando questa logica al singolo non è neanche detto
che si stia parlando di illecito, ma estendendola a un’ampia sommatoria fa
saltare il senso civico.
C’è una soluzione per uscirne o per limitare la
metastasi?
Sono convinto che le società del nord Italia gli anticorpi
per debellare la contaminazione ce li abbiano: più forte sarà il tessuto
sociale composto da organizzazioni solidali, sindacati, associazioni di
volontariato e tanto più la mafia farà fatica ad entrare. Altro motivo di speranza:
i tempi sono cambiati per tutti, il Settentrione non può più permettersi il
lusso di far finta di niente e di assistere con atteggiamento passivo.
Acquisita la consapevolezza, io sono fiducioso in un ridimensionamento del
fenomeno.
Fonte: srs di Mateo Scalari, da Pantheon, anno 5 Numero 10 dicembre 2012/gennaio 2013
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