Dal testo di Francesco Zanotto
" ... Laonde il Doge in quella stretta
cercò scampo da un uscio inosservato, che riescìa nell'atrio della Chiesa
Marciana, anche questa però investita dal fuoco. Se non che gli tornò impossibile la fuga
eziandio da quel lato, a cagione che i congiurati circondato
aveano anche quelluogo. Disperato il principe
allora, girò lo sguardo infra quella arrabbiata moltitudine, e vedendo far
parte di essa alquanti suoi congiunti, a quella vista commosso, gittossi a' lor
piedi, pregò supplichevole implorando la vita sotto sacramento di mutare
costume ... "
ANNO 976
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il disegno di Gatteri
Il popolo
dimentico di aver giurato di non valerlo
come Doge lo richiama in patria dall'esilio di Ravenna. Ma poi il suo governo si dimostra tirannico e
la smania di potere getta una macchia
sul suo operato. Scatta allora la congiura e dopo l'assalto al palazzo ducale i rivoltosi infieriscono con inaudita
ferocia sul Doge ormai inerme e disperato
e anche sul figlio ...
LA SCHEDA STORICA
Alla morte del doge Pietro II, in netto contrasto con quanto
precedentemente giurato, il popolo veneziano portava sul trono ducale il figlio
ribelle di questi, Pietro IV Candiano. Con una sfarzosa scorta di ben trecento navi,
i Veneziani andarono a riprendersi il loro doge a Ravenna per restituirlo
trionfalmente alla sua dignità.
In linea con la politica continentale già emersa durante la
sua reggenza col padre, Pietro con una serie immediata di provvedimenti,
inaugurava ufficialmente una nuova linea politica.
Per prima cosa il doge, nel 960, decretava l'assoluto
divieto per i mercanti veneziani di commerciare in schiavi con gli infedeli. Le
pene per i trasgressori erano severissime, fino alla pena di morte. Il
documento riporta in calce le firme del doge e in successione quelle del
Patriarca di Grado, Bono, e di tre vescovi (Torcello, Eraclea, Olivolo) per
chiudere con quelle di due tribuni e di altri sottoscrittori. La presenza delle
massime autorità ecclesiastiche veneziane, fanno ben intendere il peso anche
politico della chiesa nelle questioni di Stato. Nel Consiglio da poco istituito
e formalizzato, anzi, il voto dei rappresentanti ecclesiastici precedeva
addirittura quello della rappresentanza laica.
Tuttavia un simile trattato non rispondeva esclusivamente
alle esigenze di una chiesa che per sua natura rifiutava il vile commercio
umano; nel contempo, infatti, la proibizione rispondeva ad una ben precisa
tattica politica del doge. Le sue mire espansionistiche verso la terraferma non
potevano certo progredire senza una oculata ripresa della politica diplomatica.
Il commercio di
schiavi, vitale e da sempre componente essenziale del commercio veneziano, non
era certo la carta migliore per presentarsi sulla terraferma dove la pratica
era da molto tempo aborrita e condannata.
E che la decisione non fosse propriamente ispirata da un
sincero spirito cristiano, trova conferma nella clausola che rendeva comunque
possibile l'esportazione di schiavi ogniqualvolta venisse effettuata al fine di
procurare uomini da mettere al servizio del doge o del suo Palazzo.
Di un simile tenore anche il secondo importante
provvedimento, ovvero la proibizione rivolta sempre ai mercanti veneziani, di
commerciare in legno ed armi con i Saraceni. Il divieto, come in precedenza,
non riguardava naturalmente il doge. A sottoscrivere questa volta il documento,
erano stati chiamati solamente il Patriarca di Grado Vitale (figlio dello
stesso doge!) e il vescovo della città. Evidentemente nei dieci anni che
separano i due provvedimenti, era diminuito il numero delle personalità
chiamate a decidere su delicate questioni politiche.
A conferma di questo, sembra parlare anche la formula con la
quale viene chiamato il doge:
"nostro sovrano", mai usata in precedenza.
I due provvedimenti, naturalmente, non potevano che
penalizzare pesantemente i traffici commerciali dei mercanti veneziani e
lasciavano inoltre trasparire una tendenza sempre più personalistica nella
gestione degli affari di Stato da parte del doge che sembra appoggiarsi sempre
più esclusivamente sulla ristretta cerchia delle più alte gerarchie
ecclesiastiche. A questo si aggiungeva una spregiudicata scelta matrimoniale ai
danni della prima moglie Giovanna, costretta a ritirarsi in un convento. La nuova
consorte era una tal Waldrada, sorella del potente marchese di Toscana Ugo.
In virtù di questa parentela la donna portava in dote al
doge Pietro vastissimi territori e beni immobiliari, oltre che una schiera di
servi e serve. Il tutto entrava così a far parte, incrementandolo a dismisura,
del patrimonio famigliare dei Candiano. Tuttavia, i beni non sarebbero potuti
essere oggetto di eredità senza il parere favorevole dell'imperatore Ottone I
sotto la cui sovranità rientravano anche detti beni (le donne infatti secondo
la legge salica non potevano ereditare alcunchè, salvo, come nel caso, speciale
beneficio). Il parere favorevole di
Ottone I, legava invece il doge inevitabilmente alla corte imperiale sassone e
alla sua politica.
Per i veneziani era veramente troppo da sopportare. E
sopportarono fintantoché visse l'imperatore, l'unica reale garanzia del governo
dispotico del Candiano, ma non appena il suo successore vacillò sotto i colpi
di una rivolta, anche i Veneziani insorsero contro l'odiato duca.
Fallito il primo tentativo di attaccare il Palazzo ducale
eccezionalmente difeso dagli uomini del doge, gli insorti decisero di stanarlo
con mezzi estremi. Venne infatti deciso di appiccare il fuoco ad alcune case
vicine al Palazzo che inevitabilmente si sarebbe a sua volta incendiato. E così
fu. Dal palazzo in fiamme la famiglia ducale cercò invano scampo nell'adiacente
cappella di S. Marco che nella circostanza venne poi distrutta dalle fiamme.
Il doge veniva
intanto scoperto e catturato dalla folla inferocita. Supplicando si rivolse con
parole e voce dimessa ai rivoltosi: "E perché, o fratelli, volete
congiurare al mio danno? Se con le parole o con gli atti recai offesa, chiedo
mi sia risparmiata la vita, pronto a soddisfare ogni vostro desiderio".
Troppo tardi. Il doge infatti, finito di
pronunciare la supplica, venne travolto e trafitto ripetutamente. Uguale sorte
toccò all'innocente e ancor piccolo figlio mentre la madre Waldrada trovava
scampo e salvezza nella fuga. Tradotti i due corpi straziati al pubblico
mattatoio, fu solo grazie al gesto di pietà di un certo Giovanni Gradenigo che
le salme del doge e del figlioletto trovarono finalmente pace nella chiesa di S.
Ilario.
In città intanto, accanto al nuovo vuoto politico, restavano
le macerie e lo squarcio provocato dall'incendio che aveva distrutto il Palazzo
Ducale, la chiesa di S. Marco e la vicina, antichissima, chiesa di S.Teodoro. Con
questi edifici bruciarono inoltre più di trecento case della zona circostante
fino alla chiesa di S. Maria di
Zobenigo.
Con il doge Pietro Candiano era scomparso anche l'antico,
originario cuore politico e religioso di Rialto. Un'altro Palazzo, un'altra chiesa dovevano
sorgere su quelle macerie e con essi una nuova Venezia.
Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco
Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA
VENETA, volume 1, SCRIPTA EDIZIONI
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