Come in altre parti della Penisola, anche in Lombardia la lingua della tradizione, dopo una lunga parentesi di isolamento e decadenza, sembra finalmente conoscere una stagione di rinascita e avviarsi a recuperare quella dimensione e quella vitalità che le sono appartenuti per secoli. Ma questo risveglio, per evitare di essere confinato in una soffocante ed angusta dimensione folklorica, la sola tollerata dall’egemone classe politica, deve innanzitutto essere collegato ad un nuovo autonomo ruolo dell’intera regione. L’esempio del Canton Ticino.
Oggi in Italia molte parlate cercano di uscire dal ghetto
dei dialetti, dove, fino a dieci anni fa, venivano tranquillamente relegate,
senza neppure troppe proteste, e si adoperano per ottenere finalmente la
patente di “lingua”. Sono anche,
d’altra parte, ormai lontani i tempi in cui i sostenitori di ciascun dialetto o
lingua minoritaria chiedevano un qualche riconoscimento ufficiale, ciascuno per
proprio conto, talvolta arrivando paradossalmente a squalificare i propri
naturali alleati, nella vana speranza che ciò potesse rappresentare una
scorciatoia.
È infatti ovvio che è autolesionistica la speranza di
ottenere maggior accondiscendenza da parte del potere centrale isolandosi da
tutte le realtà che hanno la medesima esigenza: la battaglia per togliere il
bavaglio che soffoca le parlate diverse dall’italiano ottiene tanto migliori
risultati quanto più solidali sono le forze che la combattono. La pur modesta e
assai limitata “legge Fortuna” sulle minoranze linguistiche è già comunque il
primo frutto di un’iniziale collaborazione in Italia fra un certo numero di
realtà minoritarie, che deve essere quanto prima allargata a tutte quelle
regionalità che non sono state ancora in essa coinvolte.
Vediamo di capire quali difficoltà si incontrino nella
ricerca di un confine tra lingua e dialetto e perché questa questione, tutto
sommato nominalistica, sollevi ancora tante discussioni e polemiche. I
linguisti hanno cercato di segnare una linea di demarcazione tra lingua e
dialetto. Lingua: basata sull’adozione di un ceppo unitario riconosciuto (“koiné”); sistema dialettale: privo di
“koiné”. Lingua: se viene anche scritta;
dialetto: esclusivamente orale. Lingua: quando offre opere letterarie di
rilievo; dialetto: che tali opere non offre. Lingua: ufficiale e formale;
dialetto: familiare e confidenziale. Lingua: riconosciuta dal potere politico;
dialetto: non riconosciuto o proibito.
Il dialetto, in
realtà, è una lingua che non è riuscita ad imporsi: questa è forse l’unica
tesi su cui sono tutti d’accordo; il che è come dire, con le parole di Noam
Chomsky: “Una lingua altro non è che un
dialetto che possiede un passaporto e un esercito”.
In definitiva, pur avendo fatto ricorso ad altre scienze (storia, sociologia, psicologia
ecc.), gli studiosi non hanno trovato un criterio da tutti accettato e valido
in assoluto per separare e definire lingue e dialetti. In verità, fermo
restando che ad ogni diversa parlata corrisponde una diversa concezione del
mondo, dal punto di vista linguistico non esiste nessuna differenza tra una
lingua e un dialetto: sono entrambi sistemi per riprodurre la realtà mediante
simboli fonici (“chaise”, “cadrega”, “chair”, “sedia”, sono quattro modi per
indicare la stessa cosa).
L’aspetto giuridico della questione è tanto rilevante quanto
ignorato.
L’art. 6 della nostra Costituzione, collocato tra i Principi
Fondamentali, recita: “La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze
linguistiche”. Ecco dunque che far catalogare una parlata che non sia
l’italiano tra le lingue diventa un passo importantissimo per costringere il
legislatore a emanare leggi che la tutelino. Una ulteriore complicazione e
inasprimento del problema deriva dal fatto che, solitamente, al termine
dialetto si dà un senso deteriore, che allude ad un linguaggio subalterno,
retaggio di un mondo rurale e paleoindustriale in via di rapida estinzione:
causa di divisione, incomprensione, emarginazione. Non c’è però niente di più
musicale, ricco di significati e sfumature, niente di più immediato per dire il
quotidiano, il concreto e l’astratto del linguaggio della propria famiglia e
della propria comunità.
Per quanti sono cresciuti parlando il lombardo o il
piemontese, il veneto o il ligure imparato dai genitori, questo è a tutti gli
effetti lingua madre, indipendentemente dalle classificazioni dei linguisti o
delle autorità politiche. Non solo essi hanno il diritto di richiamare il
legislatore ai suoi impegni costituzionali di tutela delle minoranze
linguistiche (appartiene senz’altro a queste chi sente l’italiano come una
seconda lingua impostagli dalla scuola – male – o dalla televisione – peggio
ancora). Ma occorre anche che pure coloro che sono stati privati del loro
“dialetto” siano messi in condizione di riappropriarsi della lingua che sola
può consentire l’aggancio con una cultura di cui sono più orfani che figli; non
è possibile amare la propria casa e la propria terra senza conoscerne la
cultura e quindi la lingua.
La lingua locale
(questo è il termine più appropriato) è il codice insostituibile per la
trasmissione delle culture originarie, e, quindi, è indispensabile alla
salvaguardia e allo sviluppo della cultura locale globalmente intesa. Il
radicamento nella propria cultura favorisce una partecipazione viva e feconda
alla cultura universale; lo sradicamento provoca al contrario emarginazione, mettendo
l’individuo a contatto con culture di più ampio ambito geografico in modo
lacerante, consentendogliene solo un assorbimento passivo e superficiale. I
nostri governi hanno fino ad oggi disapplicato l’art. 6 della Costituzione; le
concessioni fatte in materia mai si sono richiamate esplicitamente ad esso e
sono state strappate solo da minoranze periferiche il cui malcontento, come in
Sudtirolo o in Val d’Aosta, poteva rappresentare una minaccia per l’integrità
dei confini statali. La politica dell’Italia è sempre stata fortemente negativa
al riguardo. Dapprima, il prevalere di un programma rigidamente unitario e
antifederalista e la preoccupazione di fare gli Italiani dopo aver fatto
l’Italia faticava a fare i conti col 98% dei cittadini i quali non sapevano
…l’italiano. Poi il fascismo, che voleva italianizzare tutto e svilire ogni
autonomia e originalità culturale; fin dal ’21 Mussolini proclamava: “Il fascismo deve volere che entro i confini
non vi siano più veneti, romagnoli, sardi e siciliani; ma italiani, solo
italiani” (un concetto più o meno simile era già stato espresso in
precedenza da Garibaldi e verrà ripreso in seguito da Craxi). Infine, con
l’avvento della repubblica, è continuata la “guerra ai dialetti” anche con una
scuola dell’obbligo impegnata in un primo momento a estirparli dalla bocca dei
giovani, poi titubante intorno alla questione, quasi che, per
sprovincializzarsi, bastasse liberarsi dei dialetti tenendoli buoni per qualche
ricerca sul “come eravamo”.
Come si vede, anche per l’autonomia linguistica e culturale
delle singole regioni d’Italia, poco cambia dovendo aver a che fare con il re,
il duce o il primo ministro della repubblica; e poco importa se quest’ultimo è
a capo di un governo di centro-destra, centro, centro-sinistra o solidarietà
nazionale. Quando le decisioni vengono prese a Roma il risultato difficilmente
può mutare. La conseguenza è che ormai troppi hanno vergogna del proprio
“dialetto”, rinunciano a parlarlo coi figli, convinti a torto di aiutarli
nell’apprendimento dell’italiano; improvvisati maestri senza diploma,
ottimamente coadiuvati dai Bongiorno, dalle Carrà e dai Pippo Baudo, non
possono fare di meglio che insegnare una pseudo-lingua sgrammaticata, scorretta,
povera di vocaboli, per giunta vaghi e impropri.
“La finta
espressività dello slogan è così la punta massima della nuova lingua… Essa è il
simbolo della vita linguistica del futuro, cioè di un mondo inespressivo, senza
particolarismi e diversità di culture, perfettamente omologato…” Questa
prognosi pasoliniana risale al ’73.
Per fortuna, però, come ho detto all’inizio, da qualche
tempo gruppi culturali, movimenti politici federalisti e autonomisti di quasi
tutte le regioni rivalutano le proprie parlate e rivendicano per esse lo status
di lingua, che consentirebbe di invocare la tutela prescritta dall’art. 6 della
Costituzione. E così, dalla Sardegna al Veneto, dal Piemonte al Friuli, le
prese di posizione in favore delle proprie lingue puntano, là dove la
consistenza elettorale delle liste regionali è più forte, a proposte di
bilinguismo sul modello della provincia di Bolzano. Non si tratta più di un
“dialetto da salvare”, ma di una “lingua da usare come bandiera e come arma”,
l’arma più incruenta a disposizione di autonomisti e indipendentisti di tutta
Europa, ma non la meno efficace e certamente la più temuta dai rispettivi
poteri centrali. Occupiamoci ora della Lombardia.
I suoi confini linguistici non coincidono con quelli
amministrativi della regione: ad esempio, la Svizzera italiana, cioè il Canton
Ticino e alcune valli padane dei Grigioni, è linguisticamente lombarda; a sud,
la regione “occupa” l’Oltrepò pavese, linguisticamente emiliano; a est e a
ovest, sono sottoposti ad amministrazione veneta, trentina, piemontese,
territori “lombardi”: Valeggio, l’alto bacino del Chiese, la sponda occidentale
del Ticino ecc. ; l’Adda, che già aveva segnato il confine tra i domini di
Venezia e del ducato di Milano, divide col suo profondo solco le due principali
aree linguistiche della Lombardia. Malgrado l’esistenza di altre suddivisioni,
nessuno studioso mette in dubbio la fondamentale unitarietà delle varie parlate
lombarde. Consideriamo, dunque, il lombardo in generale.
Come spiega il Beretta nella “Grammatica del milanese”
non poche caratteristiche fonetiche sono di origine prelatina e ci vengono dai
Liguri e dai Celti. Già in epoca longobarda si consolidano strutture
linguistiche che differenziano nettamente il lombardo dal latino e, quindi,
dall’italiano; così la struttura della negazione con la particella determinante
posposta al predicato (latino “non venio”, lombardo “mi vegni no”) e così la
formazione del verbo di modo finito mediante suffisso determinativo (italiano
“esco, entro, salgo, scendo”, lombardo “mi, vuu föra, denter, sü, giò”).
I volgari che daranno vita alle lingue moderne cominciano a
formarsi intorno al VII e VIII secolo e la lingua lombarda conquista ben presto
un ragguardevole prestigio e gode di un ampio uso letterario nella Valle Padana
venendo considerata, come afferma il Rohlfs, lingua romanza indipendente, allo
stesso livello delle lingue francese e toscana.
Il Pagani sostiene un concetto simile quando scrive che il
milanese “fu per alcun tempo lingua ufficiale di Stato. In milanese sonoro
furono redatti documenti importanti e rapporti diplomatici; in milanese furono
scritte cronache e relazioni”. Notevole è il livello raggiunto dalla
letteratura e, accanto alle opere del Maggi, Porta, Bertolazzi e Tessa, non
bisogna dimenticare le “prove” in versi e la prosa lombarda del Parini e del De
Marchi. In altra parte di questo numero (vedi “La lingua padanese”), Geoffrey
Hull spiega che il lombardo e le altre parlate gallo-romanze cisalpine
appartengono ad una famiglia neolatina diversa da quella delle parlate a sud
della linea La Spezia-Rimini.
Il lombardo è fratello del francese, catalano, spagnolo ecc.
e soltanto cugino, se così si può dire, del toscano, pugliese ecc.: per un
italofono, viva pur egli a Milano, è molto meno difficile leggere una poesia o
ascoltare una canzonetta napoletana che milanese, e il fin troppo italianizzato
teatro di Mazzarella gli sembra quasi indecifrabile.
Veniamo all’oggi per esaminare la parte “italiana” della
Lombardia: in quella svizzera il lombardo gode di una salute da noi
impensabile, ben altrimenti considerato dalla televisione, dalla radio, dallo
Stato, che, per esempio, finanzia la monumentale opera “Vocabolario dei
dialetti della Svizzera italiana”, che è ben più di un dizionario, è una
dettagliatissima enciclopedia della cultura lombardo-alpina. La fierezza di
parlar lombardo è ostentata a tutti i livelli e in tutte le occasioni: nei
negozi e nelle banche. Nel Grigioni italiano desterebbe grande sorpresa chi non
parlasse lombardo nei consigli e nelle assemblee comunali. Il ticinese Celio,
dopo la sua nomina a Presidente della Confederazione Elvetica, ha trovato
normale rispondere in lombardo alle domande di un intervistatore della Svizzera
italiana.
Qui da noi l’immigrazione, lo spopolamento delle valli e
delle zone depresse, il pendolarismo che riduce i centri minori a dormitori, la
conseguente congestione delle aree industriali, l’inurbamento, l’espulsione
degli abitanti dai rioni popolari dei centri storici, una industria turistica
indifferente, per non dire peggio, nei confronti della cultura locale come del
patrimonio paesaggistico (mali presenti anche altrove in Italia, ma, qui,
spesso più gravi) hanno contribuito a fare della Lombardia la regione italiana
dove meno si sentono parlare le lingue locali. Tuttavia la affermazione di
Gregor che gli Italiani sono bilingui in quanto usano oltre all’italiano il
loro dialetto particolare vale anche per gran parte della Lombardia. Questo bilinguismo è tanto meno vigoroso
quanto più ci si avvicini al centro delombardizzato di Milano e quanto più si
considerino le nuove generazioni. Ciò nonostante qualche segno sembra preludere
a un’inversione di tendenza; il lombardo sta mostrando una notevole vitalità.
Si pensi al peso che ha nell’opera di uomini la cui fama va ben oltre i confini
dell’Italia: Fo, Olmi, Strehler, seguendo l’ordine alfabetico. La poesia
contemporanea ci dà autori di grande valore i cui scritti trascendono il solito
ristretto ambito nostalgico e localistico della cosiddetta dialettalità ed è
giusto citare almeno Loi e Mainardi. Abbiamo una sorta di “rinascita” delle
lingue locali. Si può constatarla ascoltando radio e televisioni private,
osservando l’aumento di vetrine librarie che espongono la produzione in e su le
lingue locali. Accanto alle grammatiche, ai dizionari, ai volumi di poesia
compaiono anche racconti, novelle, romanzi in prosa lombarda.
Si può riscontrare questa “sete di dialetto” nel successo
che incontrano corsi di insegnamento del dialetto, nelle iniziative di proloco,
assessorati e associazioni culturali ecc. in favore delle lingue locali, come,
per esempio, il ripristino della toponomastica tradizionale; si può verificarla
cogliendo la fioritura di insegne lombarde su negozi, ristoranti e botteghe;
sfogliando periodici locali oppure leggendo tra gli adesivi che colorano i
vetri delle macchine slogan di vario genere: “Semper in machina? Mej de no!”
per la chiusura dei centri urbani al traffico automobilistico; “Mi difendi el
Tesin” per il parco del Ticino; “Pedalemm un cicinin” che incoraggia l’uso
della bicicletta; “Se parla anca el milanes” all’ingresso o sulla cassa di
negozi milanesi; “Lumbard parlemm lumbard”, ecc. Come è già da tempo avvenuto
in Piemonte ed in Veneto ad opera dei rispettivi movimenti autonomisti, di recente
i rappresentanti della Lega Lombarda hanno riportato la lingua regionale nei
consigli comunali, mentre è di questa primavera la notizia di una Messa
ufficiale in lombardo celebrata nella chiesa di San Filippo Neri a Milano.
La Lombardia è oggi più che mai al centro del tentativo
colonialistico di privarla delle sue peculiari caratteristiche, per
italianizzarla ancora di più, sbandierando la retorica di un falso
patriottismo. Quanti insegnanti, ad esempio, diventano strumenti più o meno
inconsapevoli di questa operazione, nel momento in cui ignorano lingua e
cultura locale e svolgono una continua opera denigratoria nei confronti di
esse, arrivando a colpevolizzare i bambini che, soprattutto nelle campagne e
nei piccoli paesi, si esprimono abitualmente in lombardo. Per non parlare, poi,
della “nomenklatura” partitocratica, che, forte del monopolio nelle strutture
statali e pubbliche, si oppone in ogni forma all’uso della parlata locale e a
qualunque iniziativa in suo favore, come convegni di studio, ripristino della
toponomastica storica, corsi e lezioni nelle scuole. Chi difende culture e
lingue locali viene troppo spesso accusato di isolazionismo, quando non
addirittura di essere un campanilista reazionario, che tenta di frapporre nuovi
ostacoli al processo di unità europea. Invece, per usare le parole di Camillo
Brero, “l’unità dei popoli può avvenire
soltanto se tutti questi popoli sono vivi e portatori di valori originali, al
di fuori e al di sopra di ogni nazionalismo”.
Il maggiore ostacolo sta, invece, nel centralismo romano e
nel miope egoismo degli antistorici – quelli sì – Stati nazionali di stampo
ottocentesco, che non cedono un’unghia del loro potere, fanno del Parlamento
Europeo una ridicola assemblea impotente e tolgono al continente ogni possibilità
di sviluppo con un’assurda rete di gelosie e di rivalità.
Consideriamo, infine, un esempio positivo che ci viene da un
piccolo Stato a dimensione regionale: i Paesi Bassi. L’olandese potrebbe
benissimo venir catalogato come un dialetto tedesco. Quindi la scelta
dell’olandese come lingua ufficiale avrebbe dovuto ghettizzare i Paesi Bassi,
escludendoli dal vasto mondo della cultura germanica. Al contrario, l’adozione
di una lingua così poco diffusa in Europa (pochi milioni di parlanti) ha
stimolato naturalmente gli Olandesi alla conoscenza di altre lingue, rendendoli
fisiologicamente poliglotti e cosmopoliti. L’isolazionismo non è di quanti
rivalutano la propria lingua “minore” ma semmai di quanti diffondono, nella
teoria e nei fatti di una sgangherata scuola incapace di insegnare le lingue
straniere, il monolinguismo italofono.
Fonte: Fonte: srs di Giorgio Fiocchi, da Etnie n° 13,
anno VIII, 1987
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