A sinistra: Monaca
laica (“chogher”) della setta Karmapà, custode del gompa (tempio-monastero
lamaista) di Pisang; a destra: Due
Sherpani con lo sfondo il Taboche ( 6542 m. )
Fra i gruppi etnici nepalesi, indubbiamente quello del “popolo dell’est” è il meno consistente sotto il profilo numerico e contemporaneamente il più famoso, anche se ancora poco conosciuto. Cerchiamo di penetrare all’interno della sua cultura, mettendone in evidenza le origini, le tradizioni, le credenze religiose, gli usi e i costumi: scopriremo un insospettato e ricchissimo mondo, che aggiunge ulteriore fascino e interesse a questi piccoli uomini, che con la loro amabilità, il loro coraggio e la loro lealtà hanno suscitato l’ammirazione di tutto il mondo.
In una nota posta in calce all’articolo sul Nepal apparso
sulle pagine di questa stessa rivista1 si diceva che gli Sherpa sono
il gruppo etnico più noto del paese. Se i Nevar – i geniali abitanti della
valle di Kathmandu – sono l’etnia culturalmente e storicamente più importante
del piccolo paese himalayano (chi dice Nepal, dice Nevar!), gli Sherpa, pur non
rappresentando una comunità numericamente consistente, poco più di ventimila su
una popolazione di quasi 16 milioni di abitanti, sono indubbiamente i più
conosciuti in tutto il mondo a causa della loro partecipazione alle avventure
himalayane, anche se guide e portatori di spedizioni ed escursioni d’alta
montagna in Nepal non sempre appartengono al loro gruppo etnico propriamente
detto: uno degli “Sherpa” della spedizione italiana all’Everest del 1973 era
un…Tamang! Il termine Sherpa,
quindi, nel linguaggio comune viene usato con un significato più vasto di
quello inteso dagli etnologi. La parola Sherpa, di origine tibetana,
significa “popolo dell’est” (pa = gente, sher o shar =
oriente). Essa è relativamente recente – non più di duecento anni – e
l’indicazione geografica si riferisce evidentemente al Nepal: il termine,
quindi, va inteso nel senso di “popolo
proveniente dalle terre ad est di Kathmandu”.
Il luogo d’origine degli Sherpa è quasi sicuramente il
distretto Salmo Gang della provincia di Kham nel Tibet orientale, a circa 2000
km dai luoghi del loro attuale insediamento. È probabile che abbiano lasciato
la loro terra d’origine nel XV secolo, attraversando l’altipiano tibetano e
superando il Nang pa La, un passo di 5716 metri, perché, seguaci di un Buddismo
più vicino all’antica religione Bon improntata di Sciamanismo e di riti magici,
non vollero accettare l’organizzazione claustrale degli ordini monacali, o
forse perché sospinti dalle invasioni mongoliche. Essi occupano le regioni
himalayane soprattutto e NE di Kathmandu e precisamente il distretto di Solu
Khumbu nella zona Sagarmatha 2, ai piedi dell’Everest.
Dei 30.000 Sherpa che si pensa vivano nell’Himalaya, poco
più di 20.000 si trovano in terra nepalese. I loro insediamenti montani
ricordano un po’ quelli delle nostre Alpi: le case, per lo più a due piani,
sono costruite tutte sullo stesso schema, non troppo serrate le une contro le
altre, spesso anzi separate tra loro da campi di patate. Il pianterreno serve
da legnaia, da magazzino per le vivande e il mangime, e, durante l’inverno, da
stalla. Una ripida scala conduce al piano superiore ove si trova la stanza
principale della casa, disposta sempre nello stesso modo: di fronte alla scala
il camino aperto, una panca lungo la parete cui sono appesi gli utensili della
casa, i vestiti, le provviste ed altri oggetti di famiglia. In un angolo si
trova il letto, ma spesso gli Sherpa dormono su pelli o coperte disposte sul
pavimento accanto al fuoco. Una parte della stanza principale è generalmente
dedicata al culto religioso: un simulacro di Budda, immagini sacre e strumenti
rituali. In un altro angolo si trova la botticella con il chang, la
leggera birra nepalese, con accanto qualche sacco di patate3.
Gli Sherpa sono di razza tibetana, quindi del gruppo
mongoloide, e parlano un idioma tibeto-himalayano molto simile a quello del
popolo confinante. La loro religione, come s’è detto, è il Buddismo Vajrayana o
Lamaismo4 della setta Nyingma Pa, solitamente chiamata dei
“cappelli rossi”, contenente molti elementi dell’antica religione Bon. Il gompa
(in tibetano dgon pa) o tempio-monastero, è, nel villaggio, luogo sacro
e punto di ritrovo e di riunione ad un tempo. I gompa esistenti son tutti di
data recente.
Bambina col fratellino sulle spalle a Tarke Gyand (2560).
Gli Sherpa sono molto legati alle loro vecchie tradizioni.
Una tra le più curiose, anche se non sempre osservata, è quella di dare al neonato
il nome del giorno in cui ha visto la luce (Nyima = domenica, Dava
= lunedì, Mingma = martedì, Lakpa = mercoledì, Phurbu =
giovedì, Pasang = venerdì, Pemba = sabato). Talvolta vengono dati
due nomi, quello del lama consultato e quello (fausto) scelto dal lama stesso.
Nella sfera del matrimonio vige tra gli Sherpa ampia
liberalità: rapporti sessuali prematrimoniali non sono rigorosamente proibiti e
i figli illegittimi, peraltro rarissimi, non sono affatto una vergogna.
L’adulterio non è preso in modo molto tragico: per lo più viene riparato con
una semplice multa, sovente solo simbolica, e qualche volta, specie se il
mettimale appartiene alla cerchia degli amici, si chiude addirittura un occhio.
Occasionalmente la donna (Sherpani) sposa due uomini, di solito
fratelli, e in caso di prole non ci si preoccupa gran che della paternità:
tutti i figli sono equiparati nei diritti. Il tenero affetto mostrato dagli
Sherpa per i bambini rasenta talora l’esagerazione. Curioso è il fatto che i
piccoli Sherpa, destinati a diventare eccellenti alpinisti, imparano tardi a
muovere i primi passi, spesso all’età di quattro anni.
Gli Sherpa non conoscono caste, tuttavia il loro gruppo
etnico si articola in una ventina di clan i cui membri non possono, per ragioni
genetiche, sposarsi tra loro. Non possono nemmeno sposare un Khamandeu,
cioè un appartenente a quel particolare gruppo, anch’esso originario del Tibet,
considerato impuro: ai Khamandeu non è lecito bere dalla tazza (phor
pa) che nelle riunioni e in certe cerimonie vien fatta passare di bocca in
bocca tra gli Sherpa (il termine Khamandeu significa appunto “che non è
della stessa bocca”, mentre gli Sherpa sono tutti Khadeu ossia “della
stessa bocca”).
Tra i Khamandeu alcuni esercitano la professione del
macellaio e ad essi viene demandato il compito di uccidere gli animali, azione
non permessa agli Sherpa, che da bravi Buddisti non devono nuocere a nessuna
creatura (pur nutrendosi volentieri di carne).
Tra gli Sherpa si riconosce anche il gruppo dei Khampa
che, sebbene difficilmente distinguibili dai “veri” Sherpa dal punto di vista
linguistico e culturale, sono da questi ritenuti inferiori e spesso beffeggiati
come dei poveri stagionali che esplicano le loro attività alpinistiche nel
periodo delle spedizioni. Eppure il famosissimo “Sherpa” Tensing Norgay, che
con Edmund Hillary conquistò per primo la vetta dell’Everest, era un…Khampa!
Non vanno poi dimenticati alcuni pochi Sherpa insediati
nell’Helambu, la regione a nord di Kathmandu, situata tra il fiume Trisuli e il
fiume Indravati, che immette nel grande parco nazionale di Langtang. Gli Sherpa
di questa regione vivono soprattutto nei villaggi di Tarke Gyang (2560 m),
Kakani (2070 m) e Malemchi Gaun (2530 m) e presentano dei caratteri diversi dai
loro cugini del Solu Khumbu. Le donne,
ad esempio, invece dell’abito nero di impronta tibetana col grembiale
multicolore, indossano un vestito di cotone rosso. Anche il loro idioma è ben
distinto da quello parlato nella regione ai piedi dell’Everest. Pare anzi che
essi si siano stabiliti in Nepal ancor prima degli altri Sherpa. Le loro donne
sono famose per la bellezza del volto e la flessuosità del corpo: durante la
dittatura dei Rana molte di esse venivano reclutate per servire nei palazzi
dell’aristocrazia di Kathmandu.
Altri Sherpa vivono anche fuori dei confini del Nepal, come
quelli stabilitisi nella zona di Darjeeling in India. Etnicamente simili agli
Sherpa sono certi gruppi nepalesi che vivono sulle montagne del nord, lungo il
confine col Tibet. Noti col nome generico di Bhotiya o Bhote,
essi sono pure di origine tibetana (in nepali il Tibet è detto anche Bhot)
e di religione lamaista. Tra essi spiccano i Manang, chiamati anche Nyesyang,
che vivono nell’alta valle Marsyandi a NE dell’Annapurna.
Raccolti specialmente attorno al villaggio che da loro
prende il nome, a 3535 metri d’altezza ai piedi della celebre montagna, sono circa
un migliaio, vivono in case dal tetto piatto a guisa di terrazza cui si accede
attraverso una porta sopraelevata raggiungibile per mezzo di un tronco dotato
di gradini scavati nel legno. Sulle terrazze i Manang fanno essiccare al sole e
al vento la carne da conservarsi per la stagione cattiva. Attualmente essi sono
ospitali, traendo buoni vantaggi dagli stranieri di passaggio, per i quali
hanno costruito confortevoli locande, ma, prima che venisse aperta la via ai
trekker nel 1976, avevano la fama di essere addirittura intolleranti verso i
rarissimi forestieri che qui si avventuravano (lo stesso Maurice Herzog che si
accingeva, nel 1950 durante la spedizione francese, a scalare con Louis
Lachenal il primo ottomila della storia,
l’Annapurna appunto, dovette tornare al suo campo base di Tilicho sfinito dalla
fame e respinto dall’inospitalità della gente del posto). Anche i Tibetani che
vivono numerosi in Nepal5 sono, ovviamente, molto affini,
etnicamente e culturalmente, agli Sherpa, nella cui terra si sentono a proprio
agio per l’altitudine, per il paesaggio e per il clima, simili a quelli del
loro luogo d’origine, e per la loro congenialità cogli abitanti del luogo.
Due Yak a Lukla (2834 m.) durante i preparativi per la spedizione ( non
riuscita) al Cho Oyu (8153) di Reinhold Messner nel novembre 1982.
Gli Sherpa si dedicano generalmente all’agricoltura e
all’allevamento del bestiame. Come agricoltori devono combattere una dura lotta
contro le avversità della natura. Eppure riescono a coltivare grano saraceno,
orzo e patate fino a 4000 metri d’altezza e il frumento fino a 3500 metri.
Come allevatori di bestiame sono diventati celebri in tutto
il mondo per i loro yak6. Gli Sherpa li usano come animali da soma e da
tiro, per la carne saporita spesso fatta seccare o affumicare, per lo sterco
usato come combustibile dopo averlo fatto essiccare al sole sui muri esterni
delle loro case in forma di focacce. Con il latte della femmina, chiamata nak,
gli Sherpa nutrono i loro bambini e producono ricotta e un formaggio a lunga
conservazione. Il burro fatto col latte di nak viene, per tradizione, aggiunto
al tè salato al modo tibetano e usato col grasso dello stesso animale per le
lampade dei templi e per la confezione di candele. Nel 1956 l’Associazione
svizzera per l’assistenza tecnica in Nepal costruì un caseificio a Kyanhjin tra
le montagne del Langtang (probabilmente il più elevato caseificio esistente)
allo scopo di sfruttare il latte di nak: in seguito se ne costruirono degli
altri in altre regioni montuose.
Non meno importante del latte è il pelo di yak usato come
lana per la confezione di vestiti, tappeti, coperte e corde, la pelle per la
produzione di calzari, le corna macinate finemente da usarsi mescolate ad altre
sostanze come polvere da sparo, gli zoccoli per preparare colla, la coda
utilizzata come ornamento, talismano o come ventaglio… scacciamosche.
Lo yak domestico si presenta in diverse varietà: gli Sherpa
si sono dimostrati abili allevatori di bestiame, riuscendo ad incrociare questo
animale con altri bovini ed ottenendo così degli ibridi vari, ognuno con un
nome (zhum, uratig, dzo, tolmu, zopkio, ecc.) e caratteristiche
particolari.
Un’usanza sherpa, simile a quella dei Masai dell’Africa
orientale, è lo sfruttamento dello yak come fonte nutritiva senza ricorrere
alla macellazione: praticato un foro nella carotide dell’animale, viene
spillato il sangue per farne sanguinacci e preparare un piatto caratteristico
dal sapore di fegato fritto. Lo yak è un animale robustissimo ma anche molto
sensibile: se trattato male, si ribella facilmente e a mala pena sopporta di
essere cavalcato. Gli Sherpa lo guidano col lancio di sassi (senza peraltro
colpirlo), col fischio, col canto, con lo schioccare delle dita o con versi che
variano secondo il metodo particolare di ciascuno.
Dallo yak allo yeti il passo è breve: yak e yeti sono
diventati ormai simboli tradizionali del Nepal e degli Sherpa in particolare:
col primo essi curano il mantenimento del proprio corpo, col secondo alimentano
la propria fantasia e quella degli altri. Di questo essere misterioso si sono
ormai scritte numerose pagine 7 e ancora molte se ne scriveranno
fino a quando non si sia risolto l’enigma: leggenda o realtà? L’alone di
mistero che circonda l’essere himalayano è in gran parte dovuto ai racconti
degli Sherpa. Il termine yeti è
anzi parola sherpa (in tibetano non esiste) che significa all’incirca “animale
delle rupi” (ye = roccia, teh = bestia), ma gli Sherpa stessi
usano anche altri nomi a seconda del dialetto e della grossezza dell’essere
misterioso avvistato: kang mi (uomo delle nevi), mi teh (uomo
animale) e, a causa della sua supposta preferenza per la carne bovina, chu
teh (animale dei bovini).
Il fatto più clamoroso riguardante la presunta esistenza
dello yeti è quello successo nel luglio 1974, suscitando grande scalpore: il
giorno 11, Lakpa Domani Sherpani, una ragazza diciottenne di Phortse, un
piccolo villaggio a una decina di chilometri a nord di Namche Bajar, la
capitale degli Sherpa, affermò di essere stata attaccata da uno yeti. Secondo
ciò che riferì qualche giorno dopo all’ispettore di polizia, essa se ne stava
seduta su una rupe nello yersa o phu (pascolo estivo per gli yak)
di Machhermo a una quindicina di chilometri più a nord di Phortse, quando uno
strano essere simile a una grande scimmia coperta di folto pelo
bruno-rossiccio, dagli occhi incavati e dalla fronte corrucciata, le si
avvicinò di spalle e, afferratala, la trascinò al ruscello sottostante. Dopo
averla deposta sull’erba se ne stette per un po’ accanto finché essa non
perdette i sensi. Quando si svegliò, vide che il misterioso essere stava
uccidendo alcuni yak che pascolavano lì vicino. In realtà il giorno dopo la
polizia trovò cinque di questi animali uccisi misteriosamente nei pressi di
Machhermo, due con violenti colpi (di pietre? di bastone?) alla testa, gli
altri con la cervice spezzata. Gli Sherpa, infatti, sono persuasi che uno yeti
sia capace di rompere le vertebre di uno yak afferrandolo per le corna e
torcendogli la testa. Secondo il rapporto della polizia furono anche trovate e
misurate le impronte dell’essere misterioso: lunghezza 31 cm, larghezza 15 cm.
Del fatto si interessò ampiamente la stampa nepalese, compreso il quotidiano di
Kathmandu in lingua inglese The Rising Nepal del 17 e 24 luglio 1974.
In genere, tuttavia, parlando con Sherpa che asseriscono di
avere incontrato lo yeti, quando si chiedono loro i particolari della loro
esperienza, cominciano a tergiversare e ad ammettere che non loro personalmente
l’han visto, ma un conoscente, o il nonno, o qualcuno ormai defunto. Che si
tratti davvero di un animale probabilmente in via di estinzione che rifugge la
presenza dell’uomo e si celi alla sua vista, evitandolo il più possibile? Non è
forse lecito, si chiedeva già nel 1952 il Dr. Bernhard Heuvelmans, fondatore
della criptozoologia o scienza degli animali sconosciuti, pensare all’esistenza
di esseri superstiti di un’epoca considerata finora appartenente al passato?
Non potrebbero esistere ancora, assieme all’homo sapiens (quello attuale),
alcuni esemplari del suo più immediato predecessore, allo stesso modo con cui
alcuni mammut vivevano quando già esistevano i primi loro successori, cioè gli
elefanti?
A sinistra: Tre
portatrici sherpani; a destra: L’Everest, detto “Chomolongma” nell’idioma
sherpa.
Per provvedere al proprio sostentamento gli Sherpa non si
dedicano solo all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, ma esercitano
anche altre attività come il commercio e, oggigiorno più che mai, il turismo.
Gli scambi commerciali col Tibet erano una volta intensissimi ed hanno portato
un certo benessere, ma ora, con la chiusura delle frontiere tibeto-nepalesi, la
relativa agiatezza degli Sherpa trae la sua fronte principale dal turismo che
offre loro una possibilità di guadagno non indifferente: è noto a tutti come
gli Sherpa abbiano fornito, e forniscano tuttora, guide e portatori per le
spedizioni alle più alte vette del mondo e per quella forma particolare di
escursionismo himalayano chiamato trekking, ora tanto di moda.
Per recarsi da un villaggio all’altro, dalle loro case agli
alti pascoli himalayani (il più elevato si trova poco sopra Lobuche a 5350
metri), gli Sherpa hanno intessuto una fitta rete di sentieri e mulattiere che
si inerpicano su per i pendii delle grandi montagne, fino a raggiungere quote
inverosimili. Percorrendo quelle strade dirupate ci si immerge in un mondo
tutto particolare: circondati dalle vette più elevate della terra (in Nepal ci
sono ben otto cime oltre gli 8000 metri, 22 sopra i 7000 e 250 oltre i 6500) ci
si imbatte ad ogni piè sospinto nei monumenti della religiosità sherpa:
innanzitutto le migliaia di mani patthar, lastre o massi di pietra, a
volta enormi, delle dimensioni di una casa, immense rocce levigate dai
ghiacciai, a volte di modeste misure, accostate le une alle altre a formare i
cosiddetti “muri mani”.
Il Lhotse, un ottomila al confine tibetano, con un sasso
mani, (“mani patthar”)
Le pietre – non di raro autentici capolavori di scultura –
recano scolpite a centinaia le preghiere, soprattutto il mantra dei mantra ÒM
MANI PADME HUM 8, generalmente in caratteri tibetani, alternate con
figure di Budda, di santi o di edifici religiosi. Talora sono dipinte con i
cinque colori degli elementi: azzurro (cielo), bianco (nuvole), giallo (terra),
verde (acqua), rosso (fuoco). Quando i colori si dissolvono a causa della
pioggia, il devoto buddista si persuade che la preghiera si è dispersa
nell’immensità del tutto. Gli Sherpa camminano sui sentieri tenendo le pietre
mani sempre a destra, in segno di rispetto.
Altro elemento del paesaggio e della devozione sherpa,
specie nei pressi dei gompa e dei villaggi, è dato dai chattar,
bandierine o stendardi sventolanti da fili stesi tra casa e casa, da canne di
bambù o da pali di legno: essi portano stampati a xilografia i mantra
lamaistici, intesi come invocazione alla divinità. I chattar si trovano solo
all’esterno degli edifici, perché la loro funzione si esplica col vento che li
fa sventolare rendendoli attivi, cioè facendo ascendere al cielo la preghiera.
Quando la forza del vento li lacera, ciò è ritenuto di buon presagio,
significando che la preghiera si è dispersa nell’immensità del cosmo: lo Sherpa
allora è conscio che la sua devozione e i suoi pensieri sono presenti
nell’atmosfera, nella terra, nel tutto.
Sparse qua e là, si notano frequentemente curiose
costruzioni che fanno pensare ai tabernacoli votivi e alle cappellette dei
nostri monti: sono i chorten (dal tibetano mChhod-rten che
significa “ricettacolo delle offerte”), piccoli stupa 9 talvolta
costruiti in modo rudimentale fino a ridursi a semplici comuli di pietre simili
agli “ometti” delle Alpi.
In alto: Mulinelli della preghiera (“lag khor”) a PISANG (3200) . Sopra: Il gompa di Thyangboch è il più
celebre tempio-monastero della terra degli Sherpa. In primo piano,
numerosi sassi mani.
Pure frequenti i mulinelli o ruote della preghiera, recanti
anch’essi i mantra sacri del Lamaismo: son chiamati lag khor se infissi
in lunghe file entro muriccioli protetti da un lungo tetto ed azionabili con un
colpo della mano destra, chu khor se posti sopra un ruscello e fatti
ruotare dalla corrente dell’acqua.
Nella concezione lamaista la nozione di preghiera è
intimamente connessa con l’idea di movimento, così che il mulinello opera come
strumento d’orazione solo quando è fatto girare, a somiglianza di una dinamo
che genera corrente solo se fatta ruotare.
Dei villaggi sherpa il più importante è indubbiamente Namche
Bajar, detto nell’indioma locale Naunche, capoluogo di tutto il
distretto e considerato la “capitale” della terra degli Sherpa. Situato a 3440
metri d’altitudine, era, fino a non molti anni fa, raggiungibile da Kathmandu
solo a piedi, dopo settimane di estenuante marcia, su e giù per crinali
ripidissimi, superando passi di considerevole altezza. Ora, invece, esistono
due diverse piste di atterraggio STOL che permettono di arrivarvi con una
giornata di cammino da Lukla o in una sola ora da Syangbocke.
Namche è certamente il villaggio sherpa più celebre del
Nepal. Le case a due piani sono disposte parallelamente fra loro sul fianco del
monte come in un immenso anfiteatro. Vi sono diversi negozi, una banca,
l’ufficio postale, diversi posti di ristoro con alloggio e la sede centrale
delle guardie del parco nazionale Sagarmatha (con consiglieri neozelandesi). Da
Namche non si vede il M. Everest, si gode tuttavia una splendida vista sui
monti circostanti. Interessante è trovarsi a Namche il sabato, quando ha luogo
il pittoresco mercato settimanale cui intervengono Sherpa da ogni parte della
regione nei loro costumi variopinti.
Due lama che prepàrano le lunghe trombe ("sang
nung") per la celebrazione del Mani Rimdu a Thyangboche (3867 m).
Altri villaggi sherpa noti agli escursionisti e ai
partecipanti alle spedizioni himalayane sono, a poche ore di marcia a nord di
Namche, Khumjung a 3790 metri di altitudine, ove Sir Edmund Percival
Hillary fece erigere una scuola per i bambini del luogo e dove, in un gompa, si
conserva uno dei presunti scalpi di yeti, che lo stesso Hillary portò ad
esaminare in Europa e in America nel 1961 e che risultò poi trattarsi della
pelle di una capra himalayana (capricornis sumatrensis) debitamente trattata e
colorata in modo da darle apparenza strana attribuibile ad un essere
misterioso, e, nelle vicinanze di Khumjung, Khunde a 3780 metri ove
Hillary fece erigere un ospedale, rivelatosi poi spesso di grande utilità per i
nativi e per gli escursionisti colpiti da ipossia (mal di montagna).
A un giorno di marcia da Namche, a quota 3870, si trova Thyangboche
o, come dicono gli Sherpa, Tengboche, uno dei più celebri gompa del
Nepal, centro spirituale della regione. È situato in splendida posizione,
dinnanzi ad un anfiteatro di vette imponenti tra cui il vicinissimo Ama
Dablam (6856 m), la montagna sacra degli Sherpa.
Il monastero, costruito nel 1923 in pietra rossa, ospita una
trentina di monaci con il Rimpoche, un lama tenuto in grande venerazione dagli
Sherpa, reincarnazione del lama Gulu e del lama Bundachendzen, due grandi santi
della zona. In novembre i monaci eseguono le famose danze mascherate della
festa detta Mani Rimdu.
Più sopra si incontrano Pangboche a 3985 metri, il
più alto villaggio abitato permanentemente, nel cui gompa si conservano altre
reliquie di yeti, uno scalpo e una zampa (o…mano) mummificata e Periche
a 4243 metri, abitato solo d’estate, con l’ospedaletto dell’Himalayan Rescue
Association, dotato di cellule solari.
A Dingboche, situato a 4402 metri, si trova
l’insediamento estivo più elevato e a Lobuche la baita più alta (4930
m): sopra Lobuche, come si è già detto, i pascoli estremi che arrivano fino al
limite delle nevi (5600 m), mentre i boschi si fermano più sotto a quota 4500
assieme a patate, grano saraceno e orzo.
A ovest di Namche è interessante Thami, villaggio
nativo di Tensin Norkay, a 3800 metri, con un altro famoso gompa, celebre
anch’esso per la festa Mani Rimdu celebrata in maggio e, a sud, Jumbesi,
uno splendido paesino a 2675 metri, dai dintorni meravigliosi, dominato dal
Numbur (6954 m), un’altra montagna sacra agli abitanti del luogo.
Lo Sherpa più illustre è senza dubbio Tensing Norkay, che
accompagnò il neozelandese E.P. Hillary alla prima conquista dell’Everest
avvenuta il 29 maggio 1953.
Nato da genitori poverissimi (con tredici figli) nel 1914 a
Thami, riusciva a stento a mantenere la numerosa famiglia (tre figli e tre
figlie). Dopo la clamorosa vittoria sul gigante himalayano, Tensing visse
giorni migliori: la regina d’Inghilterra gli concesse l’ambita decorazione
“George Medal”, il suo re la “Stella del Nepal”, Chamonix lo nominò cittadino
onorario e, dopo diversi corsi di specializzazione in Svizzera e in Italia
(Monte Bondone), fu nominato direttore della scuola indiana di alta montagna.
Colpito da malattia polmonare, il 9 maggio 1985 morì all’età di 72 anni a Darjeeling
in India dove era vissuto per molti anni, ottenendo anche la cittadinanza
indiana. In un messaggio di condoglianze il primo ministro indiano Rajiv Gandhi
lo ha definito “la tigre delle nevi”.
Come lui, tutti gli Sherpa si sono sempre dimostrati un popolo
straordinario, che non lascia mai indifferenti: il loro fascino – son parole di
Hillary – nasce dalla loro lealtà, affetto, premura e coraggio.
Note
1 ETNIE (1985, n. 10), “Nepal, crogiuolo
di etnie” di Franco Nicoli.
2 Da un punto di vista amministrativo il
Nepal è diviso in 14 zone, a loro volta suddivise in 75 distretti, ciascuno dei
quali ha da 2 a 126 gram panchayat o assemblee di villaggio. Sagarmatha
significa “testa del cielo” (sagar=cielo, matha=testa) ed è in
primo luogo il nome sanscrito (c ncpali) del M. Everest (8848 m) che gli Sherpa
però chiamano Chomolongma o Jomolun Ma o Kang Chamolung
(dea madre della terra)
3 Valerio Sestini e Enzo Somigli hanno pubblicalo
nel 1978, a cura dell’Unesco, un prezioso libretto “Sherpa Architecture” che
seguiva un loro precedente volume “Aspetti architettonici degli insediamenti
sherpa nella valle del Khumbu” edito da Tamari (Bologna 1977), ora
difficilmente reperibile.
4 Questa scuola buddista (le altre due sono il
Buddisino Theravada o Hinayana e il Buddismo Mahayana) è chiamata Vajrayana
dal nome di un curioso strumento rituale, il vajra (fulmine), detto in
tibetano dorje (diamante), importante nell’esecuzione delle funzioni
religiose. Ha la forma di uno scettro o, se si vuole, di due corone riunite tra
loro da una sfera, detta bindu, simbolo del principio del mondo da cui
partono i due poli opposti della realtà. Durante i riti i lama lo tengono nella
mano sinistra, mentre nella destra agitano il campanello o ghanta (in
tibetano dril bu). Il Buddismo Vajrayana è detto anche Lamaismo,
termine che in realtà indica la variante tibetana del Buddismo Vajrayana,
modificato dall’apporto di numerosi elementi della religione prebuddista Bon:
è così chiamato per la grande importanza che i lama (tibetano blama =
monaco, maestro) hanno nella guida spirituale di coloro che aspirano alla
salvezza.
5 Dei circa 20.000 Tibetani che arrivarono in
Nepal nel periodo dal 1959 al 1961, dopo che il loro paese era stato annesso
alla Cina comunista nel 1950 ed era diventato nell’anno successivo regione
autonoma della Repubblica Popolare Cinese, solo 9.000 circa rimasero in Nepal:
gli altri proseguirono per l’india, per il Bhutan, per la Svizzera, per il
Canada, per il Taiwan, per gli USA, per l’Inghilterra e, in numero minore, per
altri Stati (Olanda, Giappone, Thailandia). I Tibetani rifugiatisi in Nepal
formano diverse comunità sparse un po’ dovunque: le più numerose sono quelle di
Patan (a Javalakhel), di Chialsa (nel Khumbu) e di Pokhara, ciascuna con un
migliaio circa di profughi. Le altre, tra cui quella di Svayambhunath a
Kathmandu, sono meno numerose. I Tibetani in terra nepalese si guadagnano da
vivere o come artigiani (soprattutto nella manifattura dei tappeti) o come
contadini al servizio di agricoltori nepalesi o prestandosi come portatori in
carovane, spedizioni ed escursioni himalayane.
6 Lo yak (bos grunniens mutus), che peraltro in
lingua nepali è detto chaunri, è un enorme bòvide dal pelo lunghissimo e
scuro che vive sulle montagne dell’Himalaya tra i 4000 e i 6000 metri: al di
sotto dei 3500 metri si sente a disagio. Lungo tre metri e mezzo ed alto fino a
un metro e novanta, con corna di quasi un metro di lunghezza, ama la neve e i
posti asciutti. Vive fino a 25 anni di età. Lo si incontra difficilmente allo
stato selvaggio ed è rarissimo anche negli zoo. Esiste però una sottospecie di
allevamento, lo yak domestico (bos grunniens grunniens), più piccolo della
razza selvatica, talvolta senza corna e col pelo di colore vario: grigio, nero,
fulvo, bianco. Recentemente Reinhold Messner, il conquistatore dei 14 ottomila,
ha compiuto un esperimento, discutibile sul piano zoologico ed ecologico.
L’idea gli venne nel 1982, durante una (malriuscita) spedizione per la
conquista del Cho Oyu (8153 m): perché non tentare l’allevamento di questi
animali sulle montagne dell’Alto Adige? Due Sherpa si occuparono di sospingere
cinque yak domestici su per i passi himalayani e, attraverso il Tibet,
raggiunsero la Mongolia ove gli animali furono caricati su un treno delle
ferrovie sovietiche, raggiunsero Rosenheim in Baviera e lì Paul Hanny, amico e
compagno di scalate del celebre altoatesino, si occupò di trasportarli, sempre
per ferrovia, fino a Solda. Ora cinque yak vivono presso un rifugio nel gruppo
dell’Ortles e hanno già avuto due piccoli. A che scopo tutto questo? si
chiedono gli scienziati e gli ambientalisti. Forse per la trascrizione nel
libro Guinness dei primati? o si tratta di uno scoop pubblicitario a favore di
finanziatori interessati? Che ci stanno a fare sulle Alpi questi animali
abituati a vivere oltre i 4000? Quale sarà la loro sorte ora che, costretti a
vivere in un altro mondo, sono più soggetti all’attacco di parassiti contro i
quali non trovano sui nostri pascoli le erbe adatte a combatterli
efficacemente?
7 Si veda C. Graffigna, Lo yeti, storia di un
mito (Milano 1962) e F. Nicoli, Cercasi disperatamente yeti (in
GEODES, nov/dic 1985)
8 Letteralmente la formula – le “sei sillabe
germinali” – suona all’incirca in italiano “oh il gioiello nel fiore di loto”
ma il suo significato, nel pensiero buddista, è molto più recondito,
ineffabile,
9 Stupa è parola sanscrita (significa “ciuffo,
ciocca”) che indica il monumento caratteristico della religione buddista,
costituito da un basamento a pianta quadrata simbolo dell’elemento terra, su
cui poggia il garbha (grembo) o anda (uovo), cupola a emisfero,
sormontato a sua volta dall’harmika, un plinto a pianta quadrata sui cui
quattro lati sono raffigurati gli occhi onniveggenti di Budda rivolti ai
quattro punti cardinali. A snellire la massa architettonica, sopra l’harmika si
erge il chudamani o yasthi, simbolo dell’elemento fuoco, una
sorta di torre o guglia composta di 13 elementi rappresentanti i 13 cieli e i
13 gradini per raggiungere l’illuminazione, e infine, a completare l’edificio,
il chhatravali o cuspide.
Fonte: srs di Franco Nicoli, da Etnie n° 13,
anno VIII, 1987
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