Bobby Sands
di GIANNI SARTORI
FASCISTI, TENETE GIU’ LE MANI DALL’IRLANDA !
…dove,
compatibilmente con le possibilità dell’autore, si cercherà di spiegare come la
soi disant “croce celtica” sia stata adottata dalle formazioni di
estrema destra in quanto simbolo dei collaborazionisti francesi (per cui
sarebbe opportuno definirla d’ora in poi “croce cerchiata delle ss francesi”)
dando nel contempo qualche indispensabile informazione sulla Resistenza del
popolo francese all’occupazione nazista…
L’ambigua vicenda del “sidro Bobby Sands” messo in
commercio un paio di anni fa da Casa Pound, non era certo il primo (e
nemmeno, temo, l’ultimo) tentativo di appropriazione indebita della causa
repubblicana irlandese.
Un libro pubblicato nel 2010 aveva fornito ad alcuni
personaggi di destra l’occasione per strumentalizzare le lotte del popolo
irlandese. Si trattava de “Il diario di Bobby Sands – storia di un
ragazzo irlandese” (Castelvecchi ed.) di Silvia Calamati, Laurence
McKeown e O’Hearn.
Sciopero della fame
fino alle estreme conseguenze. La forma di lotta adottata da Sands e altri
nove prigionieri repubblicani, come mi spiegava nel 1986 Domhnall De Brun
(insegnante di gaelico a Derry, anarchico e figlio di un internazionalista
irlandese volontario in Spagna) “più che un richiamo al diritto tradizionale,
rappresentava un atto politico all’interno di un processo collettivo di
liberazione”. L’introduzione dell’internamento a tempo indeterminato risaliva
al 1971. Nel 1976 venne revocato lo status di prigionieri politici e da quel
momento i repubblicani arrestati finirono segregati nei Blocchi H. Nel
1978, vedendo lo stato di degradazione in cui vivevano, l’arcivescovo Tomàs
O’Fiaich dichiarò che “lasciando da parte l’essere umano, difficilmente si
lascerebbe vivere un animale in tali condizioni”. Il 27 ottobre 1980
iniziava uno sciopero della fame che, dopo una sospensione in dicembre,
riprenderà nel marzo 1981. Bobby Sands muore il 5 maggio. Tra maggio e
agosto del 1981 la stessa sorte toccherà ad altri nove prigionieri: Francis
Hughes, Raimond McCreesh, Patsy O’Hara, Joe Mc Donnel, Martin Hurson, Kevin
Lynch, Kieran Doherty, Thomas McIlwee, Micki Devine. Sette hunger
strikers appartenevano all’Irish Republican Army (Ira), gli altri
tre all’Irish National Liberation Army (Inla). Uno dei tanti diffusori
di retorica benevola sui fascisti nostrani, Nicola Rao, scrive impropriamente “Bobby
Sands e dopo di lui altri 15 detenuti dell’Ira morirono di fame…”. Almeno
due dati imprecisi, l’appartenenza all’Ira di tutti i prigionieri e il numero
dei morti. Poco più avanti, alimentando l’equivoco sulle affinità tra
neofascismo e lotta di liberazione irlandese, riporta che nel 1981 “i muri
di molte città italiane furono coperti da manifesti e scritte, tutti firmati
rigorosamente con una croce celtica, di solidarietà e di appoggio alla causa
dei repubblicani irlandesi”. Falso. Manifesti e scritte erano
soprattutto di sinistra (autonomi, “Lotta continua per il comunismo” etc).
Quelli di Terza Posizione (TP, estrema destra), erano firmati con la runa
“dente di lupo” (detta anche “nodo di rune”). E’ disponibile in proposito
un’ampia documentazione fotografica.
La runa “dente di lupo”, di origine germanica, non celtica,
esiste sia in versione verticale (in araldica) che orizzontale (quella di TP).
Nella seconda guerra mondiale venne utilizzata da varie bande criminali
naziste: 2° divisione SS Das Reich; 4° Divisione SS Polizei; 34°
Divisione SS Volunteer Grenadier landstorm Nederland, oltre che dalla Hitlerjugend
e dal NS-Volkswohlfahrt. Oltre che da TP, è stata adottata da altri
gruppi neonazisti: Aktion nationale Sozialisten/nationale Aktivisten
(ANS/NA); Junge Front (JF) del Volkssozialistische bewegung
deutschalands (VSBD); Wiking-Jugend; Vitt Ariskit Motstand (la
svedese “Resistenza Bianca Ariana”). *
Uno dei tre autori de “Il diario di Bobby Sands –
storia di un ragazzo irlandese”, Laurence Mc Keown, è rimasto
per sedici anni prigioniero a Long Kesh. Destinato a diventare l’undicesima
vittima, il suo sciopero della fame si interruppe al settantesimo giorno.
Quando ormai era già in coma, i familiari acconsentirono a farlo alimentare
artificialmente (dopo che le richieste dei prigionieri erano state accettate
nella sostanza).
Nel 1994 lo avevo incontrato durante un dibattito
organizzato dalla “Lega internazionale per i diritti e la liberazione dei
popoli” (Fondazione Lelio Basso). Aveva spiegato che “sarebbe
praticamente impossibile capire perché siamo arrivati a questa decisione senza
conoscere cosa era accaduto a Long Kesh nei cinque anni precedenti. Le
condizioni dei prigionieri erano brutali e nessuna forma di protesta sembrava
in grado di modificarle. Vedere con i nostri occhi la dura repressione subita
dai detenuti non faceva altro che rafforzare le nostre convinzioni. Dato
che il governo britannico tentava in tutti i modi di criminalizzarli, di farli
apparire come delinquenti comuni “dovevamo ribellarci per dimostrare che le
nostre scelte e le nostre azioni erano politiche, non criminali”. Una
decisione che non fu certo presa alla leggera. “Per quanto mi riguarda -aveva
concluso - ero ben consapevole che questo sciopero sarebbe stato portato
fino alle estreme conseguenze. Mettendo il nostro nome nella lista dei
volontari non sapevamo quando sarebbe venuto il nostro turno, chi sarebbe morto
e chi sarebbe sopravvissuto…”.
I tentativi della “nuova destra” di appropriarsi della lotta
di liberazione nazionale del popolo irlandese non si esaurirono nel 1981. E’
noto che alcuni neofascisti (Walter Sordi, Enrico Tommaselli…) vennero
arrestati con in casa manifesti e giornali repubblicani (“An Phoblacth”)
e libri su Bobby Sands. Sdoppiamento della personalità o semplice
confusione ideologica? ** Nelle loro latitanze britanniche venivano aiutati da
elementi del National Front (partito razzista di estrema destra)
sostanzialmente schierato con le squadre “lealiste”, protestanti-filoinglesi,
quelle che periodicamente si rendevano responsabili di omicidi settari nei
confronti di qualche cattolico. Inoltre i “lealisti” erano in ottimi rapporti
anche con la Ruc (Royal Ulster Constabulary), la polizia nordirlandese
che forniva gli elenchi dei sospetti militanti repubblicani da eliminare. I legami tra l’estrema destra inglese (oltre
al Nf, il British National Party, il Greater British Movement, la
League of St. George e C18) e l’estrema destra protestante
dell’Ulster si resero evidenti il 15 febbraio 1995, a Dublino, durante
un’amichevole tra le nazionali di calcio di Inghilterra e Irlanda. La partita
si svolse tra saluti nazisti, slogan contro l’Ira e cori contro gli accordi di
pace. Si concluse con lanci di oggetti contro il pubblico irlandese e violenti
scontri. Bilancio: una cinquantina di feriti e la morte di un tifoso irlandese.
Molti hooligans, i tifosi britannici più esagitati, facevano parte di
organizzazioni neonaziste (compresa C18; C per Combat,
mentre il numero indica la prima e l’ottava lettera dell’alfabeto, le iniziali
di Adolf Hitler). Ma, oltre alle organizzazioni britanniche, i
“lealisti” nordirlandesi ne frequentavano anche altre di estrema destra.
Esistono prove fotografiche di miliziani dell’Ulster volunteer force
(Uvf) presenti a qualche manifestazione in Belgio insieme a neonazisti
fiamminghi e a quelli francesi di Ordre Nouveau.
LA CROCE CERCHIATA
DELLE SS FRANCESI
Riconoscibili questi ultimi perché usavano la cosiddetta
(tre volte cosiddetta quando è quella adottata dai fascisti) “croce celtica”.
In realtà il simbolo (denominato “celtica” solo in epoca recente, non alle
origini) ricorda una runa (anche se i neofascisti lo escludono) e venne
utilizzato dai francesi collaborazionisti della brigata, poi divisione, Charlemagne
durante la seconda guerra mondiale. Insisto: sarebbe più corretto denominarla
“croce cerchiata delle ss francesi”. Nessuna parentela con le vere croce
celtiche che svettano sulle antiche tombe irlandesi (espressione di un
sincretismo tra cristianesimo e religione tradizionale gaelica) e anche su
molte tombe di volontari dell’Ira e dell’Inla morti in combattimento.
Utilizzata dal Fronte della gioventù (Fdg) negli anni
settanta, ben sapendo quale fosse il riferimento al nazismo e al
collaborazionismo (un simbolo di continuità), venne proibita dallo stesso
leader del MSI, Giorgio Almirante.
In Italia la “croce cerchiata delle ss francesi” era stata
adottata nei primi anni sessanta da Giovane Europa (in precedenza Giovane
Nazione), filiale italiana del movimento Jeune Europe (in precedenza Jeune
Nation) fondato da Jean Thiriart che aveva combattuto nelle waffen-ss . A
questo movimento, nel 1963, aderirono un gruppo di missini fiorentini (Attilio
Mordin, Franco Cardini, Marco Bersacchi, Amerino Griffini…) e qualche
ordinovista (Massimo Marletta…). In quello che sembra un attacco di
autorevisionismo, uno dei soci fondatori sosteneva che fu per “allontanarsi
dalla lugubre e bellicosa simbologia neofascista e neonazista” (…e per questo
adottavano un simbolo delle waffen ss?!?). In realtà sembrerebbe piuttosto un
modo per rivendicare proprio quelle origini, quella appartenenza, senza
insospettire l’opinione pubblica e nel contempo strizzare l’occhio agli
iniziati. In precedenza il simbolo sarebbe stato inalberato dalle italiche
Formazioni Nazionali Giovanili. Sempre di destra, ovviamente. Attorno al 1975
venne sistematicamente adottato dalle organizzazioni giovanili missine (Fdg e
Fuan), mentre qualche anno prima i rautiani lo avevano proposto al MSI con
l’aggiunta di una fiamma tricolore sullo sfondo.
Cardini suggeriva un legame anche con la “francisca” stilizzata del Parti
populaire francais (PPF ) di Jacques Doriot. Facendo il finto tonto, lo
storico sorvola sul fatto che la Francisque nella versione bipenne, con
lame tricolori e manico costituito dal baton de marèchal (quello di Petain,
ovviamente) venne prescelta come emblema del regime collaborazionista di Vichy.
Nelle intenzioni, forse, avrebbe dovuto ricordare l’iconografia dei fasci
littori mussoliniani. E di sicuro non venne adottata per caso come logo da
Ordine Nuovo (quello italico, mentre i loro omologhi francesi di Ordre
Nouveau usavano, come già detto, la “croce cerchiata delle ss francesi”).
Per gli amanti della storia, va ricordato che la “francisca”
” era la scure da lancio dei germani occidentali (in
pratica un grande tomahawk), introdotta in Gallia dai Franchi (così
chiamati, pare, dal nome dell’arma e non viceversa), da cui il nome Francia.
Fermo restando che i Franchi erano “germani” e non “celti”, come invece i
Galli. Nessuno metterebbe in discussione il fatto che i celti britanni furono
invasi dai germanici angli e sassoni. Analogamente, dopo quella romana, i celti
della Gallia subirono l’invasione di varie popolazioni germaniche.*** La più
duratura fu quella dei Franchi, definitivamente consolidata con Clodoveo, Carlo
Martello e Carlo Magno.
Mentre le vere croci celtiche testimoniano della
relativamente pacifica diffusione del cristianesimo tra le popolazioni
irlandesi, il Carlomagno è passato alla storia per aver sterminato alcuni
popoli (come i Sassoni) che non volevano convertirsi al cristianesimo. E
sorvoliamo su Roncisvalle, sacrosanta ritorsione dei Baschi al saccheggio di
Irunea (Pamplona) operato dai soldati di Carlomagno. Altro che “paladini della
cristianità” contro i musulmani (che a Roncisvalle non c’erano proprio). Ma
questa è un’altra storia. Così come sarebbe un’altra storia il ruolo dei
fascisti italiani nelle squadre della morte parastatali (Ate, Battaglione
vasco-spagnolo, Gal…) contro la sinistra indipendentista basca. Sia in epoca
franchista che dopo.****
Tornando a Cardini, lo storico fiorentino ammetteva, bontà
sua, “un legame sentimentale con il fascismo letterario francese, ma –
minimizzava – si tratta di quello a cui aderì Pierre Drieu la Rochelle”. Anche
se gli dobbiamo qualche buona lettura (in particolare La Valise Vide e
Adieu à Gonzague dedicati al dadaista Jacques Rigaut) il poeta e scrittore
Drieu è passato alla storia soprattutto in quanto collaborazionista dei nazisti.
Definirlo, come si inventa Cardini “molto vicino all’estrema
sinistra” è demenziale, oltre che vergognoso. Basti ricordare che
nell’ottobre del 1941, insieme a Brasillach, Chardonne, Jouhandeau e altri
scrittori francesi, Drieu la Rochelle accolse l’invito di Goebbels e prese
parte ad un “Congresso degli intellettuali europei” in Germania. L’incontro si
concluse con una visita-premio alla Cancelleria del Reich. Nel 1945, arrestato
dalla Resistenza francese, l’autore di Socialisme fasciste, preferì il suicidio
alla fucilazione (tentando forse di imitare il gesto di assoluta ribellione
compiuto da Rigaut nel novembre 1929).
“CHANTEZ,
COMPAGNONS, DANS LA NUIT LA LIBERTE’ NOUS ECOUTE”
Scrivendo queste righe non vorrei aver dato l’errata
impressione che la terra di Vercingétorix, Saint-Just e Louise Michel abbia
contribuito ad alimentare il fascismo in proporzioni analoghe a quanto seppero
fare Italia e Germania. In verità la resistenza del popolo francese contro le
truppe tedesche di occupazione fu immediata, estesa e ampiamente condivisa,
nonostante gli inevitabili casi di collaborazionismo.
E la repressione, ovviamente, fu durissima. Sia nella
Francia occupata che nella zona detta “libre” governata dai
collaborazionisti Pétain e Laval. InoltreAlsazia e Lorena vennero annesse al
Reich, mentre il Nord e Pas-de-Calais erano controllate direttamente dal
comando tedesco di Bruxelles e all’interno della zona occupata lungo le
coste e le frontiere si instaurava una ulteriore zone interdite.
Tra i tanti massacri di cui si resero responsabili i nazisti
e le milizie collaborazioniste, risalta per efferatezza quello dei “50
otages”, ricordati dall’omonimo monumento sull’Erdre a Nantes. Qui 48
francesi subirono la fucilazione per ordine di Adolf Hitler e del generale Otto
vons Stuelpnagel, comandante del “gross Paris”, come rappresaglia per
l’uccisione del tenente colonnello tedesco Karl Hotz avvenuta il 20 agosto 1941
in place Louis XVI davanti alla Kommandantur. *****
La lista degli ostaggi venne preparata dall’Alto comando
tedesco insieme ai dirigenti francesi collaborazionisti. Il ministro
dell’Interno di Pétain, Pierre Pucheu, presentò una lista di 200 nomi di
presunti comunisti internati nel campo di concentramento di Chateaubriant a cui
il generale von Stuelpnagel aggiunse i nomi di alcuni esponenti della
resistenza nantese. A Nantes, la Gestapo e la polizia francese
collaborazionista rastrellavano da tempo decine di persone (giovani
comunisti e socialisti, sindacalisti cattolici, membri della Jeunesse
Ouvrière Catholique, senza partito…) per rinchiuderle nel campo di
Chateaubriant. Il gruppo definitivo dei 50 ostaggi sarà composto da 27
comunisti, 18 resistenti detenuti a Nantes (prigione des Rochettes, prigione
Lafayette…) e 5 nantesi incarcerati a Parigi.
Il 22 ottobre del 1941, rifiutando di essere bendati, gli
ostaggi vennero fucilati a gruppi di quattro; la maggior parte nel “champ de
tir du Béle” di Nantes, altri nella cava della Sablière (all’uscita
da Chateaubriant) e cinque al Mont-Valérien (Parigi) dove la medesima sorte era
toccata il 29 agosto all’ufficiale di marina Honoré d’Estienne d’Orves e dove
verrà giustiziato, il 15 dicembre, anche il giornalista comunista Gabriel Péri.
Per un disguido nel coordinamento tra i servizi segreti, due
ostaggi scamparono all’esecuzione.
Una successiva esecuzione di altri 50 ostaggi, già prevista,
venne sospesa per ordine di von Stuelpnagel preoccupato per l’indignazione
suscitata in tutta la Francia. Negli stessi giorni altri cinquanta ostaggi
venivano passati per le armi a Bordeaux come rappresaglia per un attentato.
Sempre al Mont-Valérien, il 17 aprile 1942 vennero
fucilati 23 resistenti dei Bataillons de la Jeunesse, giovani comunisti
arrestati dalla polizia francese collaborazionista e consegnati ai tedeschi.
Una loro compagna, Simone Schloss, in quanto donna venne invece
decapitata il 2 luglio. Iniziato il 7 aprile alla Maison de la Chimie, il
processo si era concluso con la richiesta di 26 condanne a morte. Uno degli
imputati venne giudicato passibile soltanto della prigione in quanto non ancora
sedicenne, ma suo padre e suo fratello vennero considerati otages e
fucilati. Il verdetto venne salutato con favore dalla stampa collaborazionista
che in precedenza aveva ripetutamente insultato gli accusati. Gli stessi
giornali su cui scrivevano Drieu la Rochelle, Chardonne, Jouhandeau e Céline.
Quanto a Robert Brasillach, divenne direttore di uno dei giornali riapparsi con
la loro vecchia testata, ma ora al servizio dei tedeschi. Altri direttori di
giornali collaborazionisti furono Marcel Déat, Jacques Doriot, Jean Luchaire,
Lucien Rebatet… Tutti complici dell’occupante nazista che intanto
applicava anche in Francia la “soluzione finale” per gli ebrei. A Parigi il 16
e il 17 luglio 1942 (la rafle du Vel’ d’Hiv’) alle quattro del mattino,
circa 13mila ebrei vennero arrestati dalla polizia francese (e non dalla sola
Gestapo come si cercò poi di far credere). Radunati al “vélodrome d’hiver”,
vennero inviati in Germania per finire nei campi di sterminio.
Per “mantenere l’ordine interno”, il 31 gennaio 1943 Pierre
Laval battezzava la Milice francaise (una derivazione del Service
d’ordre légionnaire creato nel 1941) guidata da Joseph Darnand. Nel 1942
erano stati costituiti il Service de police anti-communiste (SPAC), il Service
de police des sociétés secrétes (SSS) e la Police aux questions juives
(PQJ).
Decisamente collaborazionisti furono anche il Partit
populaire francaise (PPF) di Jacques Doriot e il Rassemblement national
populaire (RNP) di Marcel Déat che il 5 agosto 1941 crearono una Légion
des volontaires francais contre le bolchevisme per inviare combattenti sul
fronte dell’Est a fianco dell’esercito tedesco. Alcuni tra i maggiori esponenti
del collaborazionismo filonazista (Darnand, Déat, Fernand de Brinon, Bridoux…)
costituirono a Sigmaringen una Commission gouvernementale per
sorvegliare, per conto dei tedeschi, l’operato di Pétain. Dei quattro citati
soltanto Bridoux riuscì a evitare il plotone di esecuzione dopo la Liberazione.
Il 15 gennaio 1943 si apriva il “processo dei 42”. Temendo
di alimentare ulteriormente lo sdegno con cui l’opinione pubblica aveva reagito
alle fucilazioni del 1941, sia il governo servile e collaborazionista di Vichy
(guidato dal marèchal Pétain) che gli occupanti tedeschi cercarono di
dare una qualche legittimità a questo ennesimo massacro. Alcuni dei 143
arrestati vennero rilasciati, altri deportati, mentre 45, accusati di essere francs-tireurs
e membri di un’organizzazione comunista, compariranno davanti al tribunale
militare tedesco di Nantes. Il verdetto (37 condanne a morte) viene reso
pubblico il 28 gennaio. Alla lettura della sentenza Henri Adam intonò la Marseillaise
ripresa con vigore da tutti i condannati. Il giorno dopo (senza attendere
il ricorso degli avvocati) al champ de tir du Béle vennero fucilati i
primi nove prigionieri poi sepolti a Sautron.
Il 13 febbraio 1943 altri 25 dei condannati del 28 gennaio
vennero giustiziati, mentre gli ultimi tre (Le Paih, Brisson e Coiffé) cadranno
sotto i colpi di un plotone di esecuzione tedesco il 7 maggio.
In agosto è la volta di Marcel Hatet, morto per le torture
subite nell’hotel de Charette, place Louis XVI, a Nantes. Nel gennaio 1943 era
stato invece decapitato in una prigione tedesca (a Colonia) il religioso
Jean-Baptiste Legeay, condannato a morte con 27 bretoni nel luglio dell’anno
precedente.
Contemporaneamente a quello dei “42”, un processo analogo si
era svolto a Rennes contro 29 comunisti guidati da Edouard Hervé, fratello di
Raymond. Entrambi verranno fucilati a circa un mese di distanza l’uno
dall’altro.
In piena occupazione tedesca di Parigi, il poeta armeno Missak
Manouchian, ex operaio alla Citroen, venne incaricato dalla Internazionale
comunista di costituire un gruppo clandestino nella capitale. Ne faranno parte
giovani polacchi, ungheresi, italiani, cechi, spagnoli, rumeni. Dopo una prima
fase dedicata alla distribuzione di volantini contro traditori e
collaborazionisti, il gruppo (definito a posteriori un “fronte popolare di
immigrati”) iniziò a colpire direttamente le truppe di occupazione. Di questi
resistenti (oltre a Manouchian, Simon e Marcel Raynan, Thomas Elek…) 22
verranno fucilati al Monte-Valérien il 21 febbraio 1944. Quindici giorni dopo
una donna membro del gruppo sarà decapitata a Stoccarda.
Come hanno ricordato Ramòn Chao e Ignacio Ramonet (Guide
de Paris rebelle, Plon 2008) dal febbraio 1999 in rue Groupe-Manouchian 36
(Parigi, 20° arrondissement) è possibile leggere il “Manifesto rosso” scritto
da Louis Aragon per celebrare questi martiri della Resistenza. Il nome deriva
dal manifesto rosso (stampato in più di 15mila esemplari) affisso sui muri di
Parigi il 1 marzo 1944 dalla propaganda nazista dove i partigiani fucilati
venivano definiti “armèe du crime”.
Sulla vicenda della 35° Brigata Ftp-Moi (Francs-Tireurs
et Partisans-Main-d’Oeuvre Immigrée) Marc Levy, figlio di un esponente
della brigata, ha scritto “I figli della libertà” (Rizzoli, 2008).
Da Lucie Aubrac a France Bloch-Sérazin (decapitata il 12
febbraio 1943 a meno di 30 anni), da Charles Tillon alle deportate nacht und
nebel Charlotte Delbo (arrestata dalla polizia francese collaborazionista
nel 1942) e Germaine Tillion…, è una lista infinita quella dei cittadini
francesi appartenenti al “peuple de la nuit” che osarono ribellarsi in
nome della loro coscienza contro l’ordine imposto dagli invasori nazisti. Basti
pensare a Jean Moulin, presidente del Consiglio nazionale della
Resistenza e Compagnon de la Libération, torturato e assassinato dai
nazisti nel 1943; a Bertie Albrecht già sostenitrice del Fronte
popolare. Arrestata una prima volta nel 1942, riuscì ad evadere, ma venne
nuovamente catturata nel maggio 1943 e morì nel carcere di Fresnes dopo essere
stata torturata; allo studente Libertaire Rutigliano, torturato e assassinato
sotto gli occhi del padre, nella sede della Gestapo in place Marèchal Foch, a
Nantes (aprile 1944).
Victor Basch, presidente della “Ligue des droits
de l’homme”, presidente del “Comité pour le Rassemblement populaire” (da
cui nacque il “Front Populaire”), venne assassinato con la moglie
il 10 gennaio 1944 da alcuni miliziani collaborazionisti (tra cui Lécussan)
della Milice francaise. In quanto ebreo e “franc-macon”,
Basch rappresentava una sintesi di quanto i nazisti e i loro servi- come
appunto i già citati Drieu la Rochelle e Brasillach – odiavano maggiormente.
Vittime della stessa organizzazione collaborazionista fondata da Laval, anche
Maurice Sarraut, l’ex ministro Jean Zay e George Mandel.
Tra i criminali di guerra nazisti si distinse un ufficiale
della Gestapo, Klaus Barbie (il “macellaio di Lione”) responsabile della morte
di centinaia di ebrei e partigiani. Dopo la guerra fuggì in Sudamerica dove
collaborò con vari regimi e con la CIA (avrebbe avuto un ruolo non secondario nella
cattura di Ernesto Che Guevara) fino a quando nel 1983 non venne estradato in
Francia e condannato all’ergastolo.
Rappresaglie ed esecuzioni sommarie, opera sia dei tedeschi
che dei collaborazionisti (polizia di Vichy, Milice e Franc-gardes)
aumentarono man mano che i nazisti perdevano terreno, soprattutto dopo l’ordine
di ripiegamento del 6 giugno 1944. Degli oltre 65mila deportati francesi
non-ebrei (in gran parte politici, identificati dal triangle rouge) meno
della metà fece ritorno in Francia
Non mancarono poi stragi indiscriminate in stile Marzabotto.
Nel giugno del 1944 a Oradour-sur-Glane la divisione SS Das Reich (nel
tentativo di riprendere il controllo della Normandia) fece radunare tutti gli
abitanti nella piazza. Centinaia di civili (in gran parte donne e bambini)
vennero rinchiusi nella chiesa poi data alle fiamme. Chi tentava di scappare
veniva mitragliato. Bilancio: 642 morti, la maggior parte carbonizzati.
Mentre nel Vercors (luglio del 1944) era in corso una dura
battaglia tra circa 8mila maquisards e più di 30mila tedeschi,
coadiuvati dalle milizie collaborazioniste di Darnand, le SS distrussero
Vassieux massacrando un’ottantina di abitanti. Qualche giorno dopo i nazisti
scoprirono alcuni sopravvissuti nascosti in una grotta e completarono l’opera.
Tra le vittime anche un gesuita e due medici che curavano i feriti.
Nel febbraio 1945 i combattenti francesi guidati da De
Lattre entreranno nel “campo di rappresaglia” di Struthof (nei Vosgi)
completamente vuoto. In quello che sarà definito “l’enfer de l’Alsace”
erano stati sterminati migliaia di resistenti.
Come antidoto ai “legami sentimentali con il fascismo
francese” rivendicati da qualche esponente nostrano della “Nuova Destra”, direi
che può bastare.
UN SIMBOLO DEI
COLLABORAZIONISTI
Si ritiene che la “croce
cerchiata delle ss francesi”, adottata nel 1944 come mostrina speciale per
i volontari francesi nelle waffen-ss della futura divisione Charlemagne, sia
stata scelta in quanto “simbolo imperiale” usato prima da Costantino e
poi da Carlomagno. Quindi, volendo cavillare, di origine o romana o germanica,
non celtica. Comunque ottimo per il Terzo Reich!
Fu adottata dalla “Compagnia Flak”, una unità della Charlemagne
quando questa era ancora una brigata. La Flack venne impiegata a Monaco nella
difesa contraerea e la Charlemagne combatté a Berlino attorno al bunker
di Hitler. A voler essere pignoli, non è il simbolo in quanto tale ad essere
scippato, ma la sua denominazione. Chiamarla “celtica” rappresenta un
mascheramento sulla sua vera origine, oltre che un’offesa nei
riguardi dei Celti. Brave persone, tutto sommato, in quanto si opposero
valorosamente all’imperialismo romano.
Chi ha scelto quel simbolo (ribadisco: la “croce cerchiata
delle ss francesi”, abusivamente chiamata “celtica”) sapeva bene cosa
rappresentava! Con il precedente storico della Charlemagne posta a
difendere il bunker di Hitler, appare chiaro perché nell’immediato
dopoguerra diventasse l’emblema preferito delle organizzazioni francesi
neonaziste e neofasciste che, idealmente, da quel bunker intendevano ripartire.
Un ex appartenente alla Charlemagne, René Binet, editore del bollettino Le
combattant europeèn (esplicito richiamo alla pubblicazione dei volontari
francesi nelle SS) e di testi apertamente razzisti come Thèorie du racisme
e Contribution à une èthique raciste, lo riesumò per identificare alcuni
movimenti via via fondati. Nel 1946 il Parti republicain d’union populaire
e successivamente l’ambiguo (anche nel nome) Mouvement socialiste d’unité
francaise sciolto nel 1949 per “incitamento alla violenza razzista”. Nello
stesso anno divenne il logo di Jeune Nation. Fondata dai fratelli Sidos,
Jeune Nation propugnava uno stato totalitario inspirato al fascismo e si
distinse per le sue spedizioni squadristiche contro le sedi dei partiti di
sinistra. Negli anni cinquanta rappresentò l’approdo di molti veterani della
guerra coloniale di Indocina. Venne sciolta dal governo nel 1958 dopo un
attentato contro l’Assemblea Nazionale. Il simbolo venne utilizzato anche in
Belgio dal Pnf. In Francia venne ripreso dal Parti Nationaliste
costituito nel 1958 dai reduci di J.N. e in seguito dal Front de l’Algerie
francaise e dal Front national pour l’Algerie francaise sotto la
guida di Jean- Marie Le Pen. La maggior parte degli aderenti entrerà poi nell’Organisation
de l’armèe secrète (Oas), l’organizzazione dei pieds-noirs, i coloni
francesi in Algeria. Il gruppo terroristico, contrario alla decolonizzazione,
venne fondato a Madrid nel 1961 da Jean-Jacques Susine e Pierre Lagaillarde.
Passerà alla storia, tra gli altri misfatti, per il putsch d’Algeri (v.
il generale Salan). Ogni slogan tracciato dall’Oas sui muri di Algeri era
regolarmente accompagnato dalla “croce cerchiata delle ss francesi”. A causa degli attentati dell’Oas, tra il
maggio 1961 e il settembre e il settembre 1962, vennero uccise circa 2700
persone, di cui 2400 erano algerini. Da una costola dell’Oas nacque a
Lisbona l’Aginter Press che operò soprattutto in Africa inviando
fascisti francesi, belgi e italiani (tra cui Concutelli) e agenti segreti
(portoghesi e statunitensi) in Congo, Angola e Namibia (invasa dall’esercito
del Sudafrica che vi aveva introdotto l’apartheid) contro le lotte di
liberazione di Frelimo, Paigc, Anc, Mpla, Swapo…
In collaborazione con la CIA e con il regime portoghese, l’Aginter
Press si rese responsabile nel 1969 dell’assassinio di Eduardo Chivambo
Mondlane, presidente del Frente de Libertacao de Mocambique (Frelimo) e
nel 1973 di quello di Amilcar Cabral, segretario generale del Partido
Africano da Independencia da Guiné Bissau e Cabo Verde (PAIGC). Dopo il
1975, miliziani europei presero parte ai massacri operati dall’esercito di
Pretoria in Namibia e Angola e non si esclude una partecipazione dell’Aginter
Press all’assassinio delle esponenti antiapartheid Ruth First e Janette
Curtis (entrambe con un pacco-bomba) che si erano rifugiate, rispettivamente,
in Mozambico e Angola. Come è noto l’Aginter Press svolse un ruolo non
indifferente nella “strategia della tensione” che insanguinò l’Italia da Piazza
Fontana in poi.
Intanto nell’Esagono il controverso simbolo veniva ereditato
da Ordre Nouveau. Attualmente
quella che andrebbe sistematicamente definita “croce cerchiata delle ss
francesi” viene chiamata Keltenkreuz (“croce celta”) dai gruppi tedeschi
che la utilizzano al posto della svastica con l’aquila nazista sovrapposta.
Esistono poi altre denominazioni, più o meno pittoresche e new age. Per
quanto mi riguarda, ripeto, l’autentica “croce celtica”, è solo quella
storica di cimiteri, chiese, manoscritti e murales irlandesi.
Nelle manifestazioni di Forza Nuova (erede di Terza
Posizione ?) sono ricomparsi altri simboli inseriti nel cerchio bianco della bandiera
rossa (identica a quella nazista e a quella dei razzisti sudafricani con
svastica a tre braccia). Oltre alla
“croce cerchiata delle ss francesi” sono state riesumate la runa “dente di
lupo” (wolf sangel) già usata da Tp e quella adottata da Avanguardia
nazionale (l’organizzazione di Stefano Delle Chiaie). Il simbolo di Avanguardia
nazionale sarebbe la “runa Othala” (Runa di Odal, Odalrune, di matrice
scandinava, non celtica). Nell’originale, un rombo con i lati inferiori
allungati. I seguaci di Delle Chiaie la
disegnavano con i lati inferiori allungati e ritorti, nella versione già
utilizzata dalle Waffen-ss “SS Gebirg-Division Prinz Eugen”, mentre i
fascisti cileni degli anni settanta (quelli che favorirono il golpe di
Pinochet) la utilizzavano nella forma originale.
Una runa identica a quella di Avanguardia nazionale, ma
rovesciata con le punte verso l’alto, identificava il Rassemblement national
populaire (RNP) di Marcel Déat (fucilato dopo la Liberazione) quello stesso
che, insieme a Jacques Doriot del Parti populaire francais (PPF, v.
l’osservazione di Cardini sulla “francisca”), costituì nell’agosto 1941 la
Légion des volontaires francais contre le bolchevisme. Come ho detto, anche
l’ascia bipenne adottata da “Ordine Nuovo” (Rauti, Signorelli, Concutelli) era
un simbolo del collaborazionismo francese (identica a quella del maresciallo
Petain e di Vichy), sebbene gli ordinovisti cercassero di nobilitarla con richiami
agli etruschi o all’antica civiltà cretese. Probabilmente, vietati l’uso
della svastica e del fascio littorio, i nostalgici nostrani ricorrevano ad una
forma di mimetismo (camouflage) prendendo in prestito la simbologia dei
loro camerati d’oltralpe. L’origine di questa importazione andrebbe cercata nei
rapporti tra neofascismo italiano e gruppi della destra francese (oltre a Jeune
Europe anche Lutte du Peuple), specializzati nell’opera di
“intossicazione” a sinistra usando la carta dell’antimperialismo e della
liberazione nazionale. Niente male per gente che aveva collaborato con l’OAS
contro gli indipendentisti algerini!
FASCISTI CON “AL
KATAEB”
Stando a quanto scrivono gli interessati, negli anni
settanta alcuni esponenti di Jeune
Europe sarebbero andati in Libano per combattere a fianco dell’OLP. Invece,
come è noto, i fascisti italiani (non solo quelli dei NAR, i Nuclei armati
rivoluzionari, di estrema destra, legati ai servizi e, forse, braccio armato
della P2.) in genere si schieravano con al-Kataeb (la Falange), il
partito dei maroniti di destra, fondato nel 1936 da Pierre Gemayel al suo
ritorno da un viaggio nella Germania nazista. Secondo Stuart Christie (“Stefano
delle Chiaie – Portrait of a black terrorist“, anarchy magazine/refract
publications, London 1984) avrebbero preso parte ad azioni contro i palestinesi
(viene citato Walter Sordi). Mario
Caprara e Gianluca Semprini, autori di “Destra estrema e criminale”
(Newton Compton ed. 2009), nel capitolo dedicato ad Alessandro Alibrandi,
riportavano un’intervista di Panorama a Signorelli, scomparso qualche anno fa.
Secondo Signorelli: “i valorosi camerati italiani hanno aiutato la milizia di
Gemayel combattendo al loro fianco nella battaglia di Tel Znatar (sic)”.
E’ possibile che i due autori abbiano fatto un po’ di
confusione e citato l’intervista sbagliata. Probabilmente Signorelli parlava
degli avvenimenti di Tel al Zaatar (nel settore cristiano di
Beirut) che risalgono al 12 agosto 1976. All’epoca dell’intervento militare
della Siria in Libano (in favore dei falangisti) Alibrandi si trovava ancora in
Italia. Comunque, più che di una battaglia bisognerebbe parlare di assedio
(durato 52 giorni) e di un brutale massacro. Anche nei confronti dei feriti,
nonostante l’intervento della Croce Rossa. A Tel al Zaatar l’esercito
siriano (penetrato in Libano nel giugno 1976) si comportò come qualche anno
dopo quello israeliano a Sabra e Chatila, con un ruolo di copertura e appoggio
ai miliziani maroniti cui toccò il lavoro sporco. Resta l’incertezza sul numero
esatto delle vittime, da 1500 a 3000. Con
i falangisti, oltre ai neofascisti italiani, militanti francesi dei Groupes
d’Action Jeunesse, spagnoli di Fuerza Jòven, fiamminghi del Vlaamsa
Militantenorde (Vmo) e tedeschi di estrema destra dell’organizzazione di
Karl Heinz Hoffman. Dalla parte dei palestinesi, baschi e irlandesi,
presumibilmente legati all’Eta e all’Ira. Durante l’operazione “Pace in
Galilea” alcuni combattenti irlandesi vennero catturati dall’esercito
israeliano e consegnati alla Corona britannica.
Molti repubblicani irlandesi avevano combattuto nelle
Brigate Internazionali durante la Guerra Civile spagnola. Alcuni sono ricordati
nella lapide per i caduti della battaglia di Brunete (8-9 luglio 1938), altri
(come Tommy Patten, caduto a Madrid verso la fine 1936, quasi
contemporaneamente a Buenaventura Durruti) al memoriale dell’isola di Achill in
Irlanda.
Alla fine della seconda guerra mondiale, l’Irish
Republican Army addestrava militarmente, contro gli inglesi, gli ebrei scampati
all’Olocausto. Tutto questo va ribadito per ridimensionare l’entità, ampiamente
sovradimensionata dalla destra, sui rapporti (in chiave anti-inglese)
intercorsi tra alcuni elementi repubblicani e i servizi segreti tedeschi
durante la Seconda Guerra Mondiale. Due esponenti dell’Ira, catturati dai
franchisti mentre combattevano con le Brigate internazionali, sarebbero stati
rimpatriati grazie all’intervento tedesco (forse con un sommergibile). Alcune
azioni dell’Ira a Londra durante la “battaglia d’Inghilterra” hanno alimentato
l’ipotesi di una possibile collaborazione con la Germania.
L’ossessione di certa destra (da On a Tp, fino a Forza
nuova) di accreditarsi nei confronti delle lotte di liberazione nazionale è
stata, in genere, mal corrisposta. Ancora nel 1985, avevo chiesto a Bernadette
Devlin la sua opinione in merito alla simpatia dimostrata dalla
cosiddetta “destra radicale” per la causa irlandese. Mi rispose che “di sicuro
sono simpatie a senso unico”.
Con la presentazione ufficiale del libro di Calamati,
McKeawn e O’Hearn sotto le insegne del Parlamento europeo la vecchia questione
era tornata di attualità. A fare gli onori di casa la vicepresidente del
Parlamento europeo, Roberta Angelilli, in gioventù vicina a Terza
Posizione, poi Segretaria del Fronte della gioventù e deputata europea
di An dal 1994. Angelilli era grande amica di Andrea Insabato, il
personaggio che il 22 dicembre 2000 rimase ferito nell’esplosione della propria
bomba davanti alla redazione de il Manifesto sulle scale della vecchia
sede di via Tomacelli.
Un episodio che evocava un altro attentato fascista
dell’aprile1973. Nella toilette del treno, il sanbabilino Nico Azzi (con doppia
militanza: Msi e “La Fenice” di Rognoni, legata a ON) si fece esplodere
un ordigno tra le gambe. Non prima di essersi fatto notare in giro per il treno
con Lotta continua in mano. Ai suoi funerali, nel 2007 in Sant’Ambrogio
di Milano, erano presenti sia Forza Nuova che i fratelli Larussa.
Durante la sua permanenza al Policlinico Gemelli e in carcere
(molto breve, anche perché quelli del Manifesto, forse mossi a compassione, non
si costituirono parte civile), Insabato ha scritto un memoriale dove trova
il tempo per vantarsi delle sue “duecento conquiste di letto”. Numerose,
precisa, anche durante la latitanza londinese (vedi sopra).
Il “paladino di Dio” (per autodefinizione) ricordava
affettuosamente l’amica Roberta Angelilli, la sua “prima tifosa di tutte le
udienze” nei processi che lo vedevano imputato in quanto esponente di Terza
Posizione (capozona alla Balduina).
L’Angelilli è nota per aver definito i partigiani
“assassini”, non riuscendo evidentemente a cogliere l’analogia tra la lotta di
liberazione del 1943-45 contro i nazisti e quella irlandese contro
l’occupazione britannica (e nemmeno l’analogia tra i collaborazionisti fascisti
repubblichini e quelli “lealisti” protestanti). Dal libro di Caldiron “La
destra plurale” (manifestolibri 2001), si ricava che porta al collo una
“croce cerchiata delle ss francesi”. D’argento, noblesse oblige.
L’attentato a il manifesto sembrava diretto in
particolare contro Stefano Chiarini che si occupava della questione
palestinese e con cui Insabato cercava da tempo di entrare in contatto. In
precedenza Chiarini si era dedicato all’Irlanda, sia come editore che come
giornalista. La sua Gamberetti Editrice aveva pubblicato “Strade di Belfast”
di Gerry Adams e alcuni romanzi (“La seconda prigione”) di Ronan Bennet,
un ex prigioniero politico repubblicano.
Oltre ad aver pubblicato sul “quotidiano comunista” decine
di articoli riguardanti la questione irlandese, Chiarini aveva collaborato alla
realizzazione di un dossier (“La verità la prima vittima”,
supplemento al n.1 de “I diritti dei popoli”, 1985) sulle violazioni dei
diritti umani in Irlanda del Nord. Insieme a Gianni Palumbo, Giovanni Bianconi
e Silvia Calamati, autrice di Il diario di Bobby Sands – storia di un
ragazzo irlandese.
Alla presentazione del libro su Bobby Sands, insieme
all’Angelilli, presenziava l’esponente di “Azione giovani” Tommaso della Longa,
all’epoca collaboratore di varie pubblicazioni di estrema destra tra cui
“Area” e “Rinascita” (in qualità di capo servizio esteri). Sul giornale della soi disant “Sinistra
nazionale” (in realtà di estrema destra), si ironizzava su clandestini,
immigrati e sindacati di base. Elogi nostalgici invece per la “leggendaria”
marcia su Roma del ’22. Della Longa collaborava anche a “Il Riformista” durante
la direzione di Antonio Polito. Grazie ai buoni rapporti con Rocca, era
diventato portavoce della Croce Rossa (v. i comunicati dell’Ufficio stampa
della C.R). Se ne era parlato all’epoca dell’assunzione di alcuni neofascisti
alla C.R. (segnalo su Indymedia “Sembra un ministero, è la Croce
Rossa…uncinata”). Altra coincidenza, nel 2008 arrivava alla dirigenza della
C.R. la moglie del Polito, Patrizia
Ravaioli. .
A questo punto, visto che qui si parla di hunger strikers,
ricordo che Antonio Polito, ex direttore de “Il Riformista”, è quel giornalista
che durante lo sciopero della fame contro la vivisezione del prigioniero
antispecista Barry Horne (anarchico e negli anni ottanta militante
dei gruppi di solidarietà con i prigionieri politici irlandesi) faceva
dell’ironia nei suoi articoli pubblicati su “la Repubblica”. In sostanza
diceva che stava fingendo, che mangiava di nascosto, che era un esaltato… Poi
Barry Horne è morto nel modo che sappiamo. E Polito, che io sappia, non ha mai
chiesto scusa. Ancora prima della morte di Barry, i suoi articoli mi erano
apparsi “pilotati”. Coincidenze. O, forse, analogie.
La vicenda di Sands e degli altri nove repubblicani morti
nel 1981 ha rappresentato nel tempo una testimonianza contro le carceri
speciali, contro la tortura e contro la legislazione d’emergenza. Un“grido
contro l’ingiustizia”, così come la resistenza popolare, in tutte le sue
molteplici forme, nei quartieri proletari di Derry e Belfast, dal Bogside a
Falls road, tra gli anni sessanta e novanta.
Le destre estreme hanno tentato di appropriarsene come
avevano fatto con le lotte contro il nucleare e contro la globalizzazione, con
l’ecologia e, più recentemente, anche con la liberazione animale. Un gruppo
animalista del nord-est, fondato da un ex di Forza Nuova, aveva tentato di
appropriarsi della memoria dell’antispecista anarchico Barry Horne. Al di là
del folclore, a naso, si intravede un metodo che ricorda le
infiltrazioni degli anni sessanta (e, fatte le debite proporzioni, anche alcune
ambigue posizioni dei “Corpi franchi” in Germania nel primo dopoguerra).
Sia ben chiaro. Siamo in democrazia, (anche se certamente
non per merito dei fascisti) e, per quanto mi riguarda, ognuno è libero di
usare i simboli che vuole. Ma senza ambiguità e chiamando le cose con il loro
nome. Bobby Sands era comunque uno di sinistra, un compagno. I suoi
riferimenti, oltre a Connolly e Pearse, sono stati Che Guevara,
Malcom X e George Jackson (quello dei fratelli di Soledad), gli
antifranchisti baschi Txiki e Otaegi fucilati
nel 1975. Non certo Codreanu o Degrelle. Non si può escludere che qualche
militante di destra sia in buona fede quando esprime ammirazione per gli hunger
strikers. In questo caso dovrebbe riconoscere che l’antimperialismo,
l’amore per la giustizia e la libertà, il rispetto per le lotte di liberazione
degli oppressi (di tutti gli oppressi, s’intende) sono incompatibili con le
idee totalitarie, autoritarie e gerarchiche (anche quando si dicono “di
sinistra”, Stalin docet). E quindi incompatibili con il fascismo.
Cassandra mio malgrado, agli inizi del 2011 avevo scritto “
nel trentesimo anniversario della morte dei dieci hunger strikers,
sarebbe inconcepibile dover assistere alla partecipazione di
neofascisti e neonazisti alle commemorazioni. Dopo la presentazione ufficiale
del libro“Il diario di Bobby Sands – storia di un ragazzo irlandese”
(comunque un buon libro) da parte di Roberta Angelilli, tutto diventa
possibile”. Purtroppo avevo ragione: nel maggio 2011 alle manifestazioni
in memoria di Bobby Sands e degli altri hunger strikers hanno
partecipato i neofascisti di Casa Pound, a fianco degli inconsapevoli
militanti del Sinn Fein, ostentando il manifesto con la foto di Bobby Sands e
diffondendo poi le immagini su Internet.
Ripeto, nessun dubbio sull’onestà intellettuale dei
tre autori, ma forse qualcuno dovrebbe aggiornare i repubblicani irlandesi.
Fermo restando che queste ambiguità e contaminazioni restano, purtroppo, un
fenomeno tipico del nostro Paese, almeno dagli anni sessanta.
———————————————
*Gianni Sartori (osservatore internazionale,
per conto della Lega per i diritti e la liberazione dei popoli, al processo di
Madrid del 1997 contro Herri Batasuna,
* Per quanto riguarda Rao, va aggiunto che il titolo
stesso dei suoi libri (“La fiamma e la celtica”,“Il sangue e la celtica”…)
contribuisce ad alimentare l’equivoco.
**dati i rapporti intercorsi tra fascisti italiani
latitanti a Londra e servizi segreti inglesi, non si escludono tentativi di
infiltrazione nel movimento repubblicano.
***breve nota quasi storica
Dopo Alesia e l’imprigionamento di Vercingetorix
(assassinato a Roma sei anni dopo), la resistenza organizzata dei Galli contro
Roma sembrò esaurirsi nel 51 a.C. A Uxellodunum, Giulio Cesare fece tagliare le
mani agli ultimi irriducibili. Gutuater, considerato il capo religioso della
ribellione, venne ucciso dopo atroci torture. Nel 21 d.C. scoppiò una rivolta
guidata da Julius Sacrovir che, sconfitto, morirà gettandosi tra le fiamme per
non consegnarsi ai romani. Nel 69 d. C. è Civilis a ribellarsi con la propria
guarnigione. Al suo fianco, oltre a molti druidi, una profetessa, Velléda e due
eminenti cittadini di Langres, Julius Sabinus e la sua sposa Eponina. Divisioni
interne tra i Galli, oltre alla diffidenza della popolazione nei confronti di
Civilis e degli altri capi della rivolta, porteranno all’ennesima sconfitta.
Trascinati a Roma, Sabinus e la moglie verranno fatti uccidere da
Vespasiano e i loro figli affidati a famiglie romane. Per altri due secoli in
Gallia regnerà la “pax romana”. Nel 258 franchi e alemanni, popolazioni
germaniche, varcano il Reno e invadono la Gallia. A migliaia i contadini
fuggono nelle foreste dove per sopravvivere costituiscono gruppi armati, le
bagaudes. Tra i loro capi emerge Elien. Quando l’imperatore Diocleziano invia
truppe con l’incarico di sterminare questi ribelli, Elien stringe un’alleanza
con Amandus, comandante di origine gallica della guarnigione di Bourges. Dopo
la morte di Elien, anche Amandus viene sconfitto e ucciso nel corso di una
battaglia sulle rive della Loira. Mentre l’impero romano va disgregandosi, la
Gallia subisce nuove invasioni di vandali, burgundi, visigoti e ancora franchi.
Nell’ultimo giorno dell’anno 406, vandali, svevi e alani valicano il Reno
ghiacciato. Entrati in Gallia, devastano Tournai, Amiens e Arras. Dietro di
loro, ancora burgundi e alemanni. Nel 451 anche gli unni superano il Reno, dopo
averne “trasformato le foreste della riva in barche” invadendo la Gallia
settentrionale. Guidati da Attila, saccheggiano Colmar, Strasbourg,
Reims, Besancon e Arras. A Lutezia, la popolazione invece di fuggire organizza
la resistenza. Attila si allontana e si dirige verso Orleans che per più di un
mese resisterà all’assedio. Il 14 giugno 451, mentre inizia il saccheggio,
arriva l’esercito del generale romano Aetius, formato in gran parte da
mercenari e da alleati visigoti. Sconfitto, Attila si rifugia a
Chalons-sur-Marne (Campi Catalaunici). Con questa battaglia (21 giugno 451)
rimangono sul terreno circa sessantamila cadaveri (secondo alcuni autori quasi
il triplo) e comincia il declino del “flagello di Dio”. In Occidente si formano
vari regni romani-barbarici: visigoti, ostrogoti e, in Gallia, il regno dei
franchi. Il resto è storia nota. Da Childerico (capostipite dei
Merovingi) a Clovis (Clodoveo I, 465-511). Dopo la sua morte il regno venne
diviso in Austrasia, Neustria e Burgundia. Da Charles (Carlo, “dux et
princeps francorum”, soprannominato Martello per aver sconfitto pesantemente i
saraceni a Poitiers nell’ottobre 732), figlio del maggiordomo d’Austrasia Pépin
d’Heristal (Pipino II capostipite dei Carolingi) a Pépin nominato re da
un’assemblea di nobili e vescovi nel novembre 751 e morto nel settembre 768.
Nel 772 suo figlio Carlomagno organizzerà una prima spedizione contro i
sassoni. Dieci anni dopo, la più sanguinosa. Oltre alla decapitazione di 4500
sassoni che rifiutavano di abbandonare la religione tradizionale e convertirsi
al cristianesimo, circa 10mila saranno deportati in Gallia.
****Oltre agli interventi non richiesti di Borghezio,
noto estimatore dell’ascia bipenne, va ricordato un episodio legato alla
Falange (versione italica, non libanese o spagnola). La misteriosa
organizzazione parastatale, responsabile negli anni novanta di operazioni che
puzzavano di provocazione e servizi segreti, diffuse un comunicato (l’originale
mi venne fornito dall’allora senatore Francesco Bortolotto, dei Verdi) in cui
si minacciavano i sindaci veneti contrari all’Alta Velocità. Era firmato con la
sigla della Falange e una strana aggiunta, un inesistente “gruppo
Veneto-Euscadi”, scritto con la “C”. Da notare che in euskara, la lingua basca,
questa lettera non esiste, sostituita regolarmente con la “k”. All’epoca, in un
articolo cofirmato con Giovanni Giacopuzzi, feci notare la stranezza e suggerii
la natura provocatoria del testo (“strategia della tensione a bassa
intensità”?). Altra evidente incongruenza, la sinistra abertzale basca si è
sempre mobilitata contro l’Alta Velocità (“AHTrik EZ, emaiezu botea!!”).
*****Pare che il commando responsabile dell’azione del 20
ottobre contro Karl Hotz provenisse da Parigi e fosse composto da Gilbert
Brustlein, Marcel Bourdarias e da un ex membro delle Brigate Internazionali,
Spartaco Guisco.
In precedenza, il 21 agosto, a Parigi alcuni membri dei
Bataillon de la Jeunesse, guidato da Pierre Georges (comandante Fabien),
avevano ucciso un esponente della Kriegsmarine, Moser, alla stazione del métro
Barbès per vendicare due compagni fucilati il 18 dopo aver partecipato ad
una manifestazione del P.C.F. Una Cour spéciale condannò a morte, su richiesta
dei tedeschi, tre persone già detenute (e che quindi non avevano preso parte
all’azione).
******In Bretagna alcune formazioni indipendentiste di
destra, comunque minoritarie, presero parte ai rastrellamenti e alle torture
contro altri bretoni legati alla Resistenza. E’ storicamente accertato (v. gli
studi di Kristian Hamon) che i tedeschi finanziarono il Parti national breton
(PNB, nato nel 1931, sciolto nel 1939 e rinato alla fine del 1940) per
condizionare l’amministrazione di Vichy con la minaccia di una Bretagna
indipendente sotto la tutela di Berlino. Studi recenti hanno ridimensionato il
numero degli aderenti al PNB (non più di 1500, di cui due-trecento attivisti).
All’interno del partito convivevano simpatizzanti sia del nazismo tedesco che
del fascismo italiano e anche qualche ammiratore della Falange spagnola. Mentre
il principale ideologo del partito, Olier Mondrel, si dichiarava apertamente
nazista il presidente (fino al 1944) Raymond Delaporte veniva considerato un
“conservateur modéré”. I Bagadoù stourm (“gruppi di combattimento”,
sulle loro bandiere il triskell) costituivano il movimento giovanile del PNB e
fornirono qualche decina di militanti al Bezen Perrot, una formazione
militare fondata da Célestin Lainé dopo l’uccisione dell’abate Perrot, a
Scrignac nel dicembre 1943. Sorto come “servizio d’ordine”, ben presto il Bezen
Perrot si trasformò in milizia collaborazionista, indossando la divisa
germanica, combattendo a fianco dei tedeschi e partecipando a rastrellamenti,
interrogatori, torture ed esecuzioni di partigiani. Va sottolineato che
l’occupazione nazista incontrò anche in Bretagna una forte opposizione e in
varie occasioni (v. a Landerneau nel 1943) la popolazione aveva mostrato la
propria disapprovazione per quei militanti di Bagadoù stourm che sfilavano al
passo dell’oca e vestiti di nero.
Ordinato sacerdote nel 1903, Jean-Marie Perrot (Yann-Vari
Perrot in bretone) aveva vissuto come un abuso il divieto, risalente al
1902, di insegnare il catechismo in bretone. Per salvaguardare la lingua
nazionale organizzò a Saint-Vougay (Finistère) un gruppo teatrale
(Paotred Sant-Nouga) e in seguito un movimento, Bleun brug (Fiore di brughiera,
in riferimento al congresso interceltico di Caernarvon del 1904 che aveva
adottato questo fiore come simbolo). Divenuto associazione nel 1912, il Bleun
brug rinascerà dopo la guerra, nel 1920. Perrot scrisse anche molti articoli in
difesa della lingua bretone, articoli apparsi regolarmente sulla rivista
religiosa Feiz ha Breiz (“Fede e Bretagna”). Forse a causa del suo
“patriottismo”, giudicato eccessivo dalle autorità ecclesiastiche, Perrot verrà
assegnato alla parrocchia di Scrignac, notoriamente anticlericale e dove si
formerà una consistente presenza di FTP (Francs-Tireurs et Partisans). La vera
identità dei suoi uccisori non venne mai definitivamente stabilita. Nel
dopoguerra seguaci di De Gaulle e comunisti si rinfacciarono la responsabilità
con reciproche accuse, ma non si può nemmeno escludere una responsabilità di
quei bretoni che poi gli dedicarono la milizia denominata Bezen Perrot. Poco
prima di venir assassinato, l’abate Perrot aveva duramente condannato Cèlestin
Lainé per il suo neo-paganesimo. Un altro gruppo paramilitare bretone che prese
parte attiva agli interrogatori e alle torture dei partigiani fu il meno
conosciuto Kommando Landerneau. A queste formazioni collaborazioniste degli
anni quaranta, si richiamarono apertamente gli indipendentisti di estrema
destra dell’Adsav.
Fonte: srs di Gianni Sartori, da L’Indipendenza
del gennaio 2014
Nessun commento:
Posta un commento