di MARCO TAMBURELLI*
Il Consiglio dei Ministri ha finalmente deciso, dopo 20 anni
di attesa, di ratificare la Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie,
cosa che in un Paese onesto con sé stesso dovrebbe essere un evento positivo. E
invece no. La ratifica, basata sulla famigerata legge 482/99 (Norme in
materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), include
ovviamente le lingue minoritarie legate a popoli “di confine” o a enclavi
dovute ad antiche migrazioni e/o mutamenti geo-politici: albanese (arbereshe),
catalano, le varie lingue germaniche, grecanico, sloveno, croato, francese,
franco-provenzale e occitano.
Ma delle 10 lingue regionali storicamente parlate nei
territori italiani e censite dall’UNESCO come in “pericolo d’estinzione” solo
tre figurano nella ratifica, ovvero friulano, ladino e sardo.
Lo Stato italiano azzittisce così in un solo colpo almeno 7
delle lingue regionali censite dall’UNESCO.
Queste sono, in ordine alfabetico: emiliano-romagnolo, ligure, lombardo, napoletano, piemontese,
siciliano, veneto.
Eppure queste lingue soddisfano ineccepibilmente i criteri
della Carta Europea delle Lingue Regionali e Minoritarie, essendo appunto “usate
tradizionalmente sul territorio di uno Stato dai cittadini di detto Stato che
formano un gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello
Stato” (articolo 1.a.i), essendo in oltre “diverse dalla lingua
ufficiale di detto Stato” (articolo 1.a.ii) e, in fine, non essendo “dialetti
della lingua ufficiale dello Stato”.
Certo in Italia le cose si chiamano raramente con il loro
nome, e quindi non c’è da stupirsi se un gruppo di varietà Romanze che non
sono dialetti della lingua di Stato vengano comunque ed abitualmente chiamate
“dialetti d’Italia”. Ma per gli studiosi delle lingue Romanze non c’è dubbio
che questi cosiddetti “dialetti d’Italia” siano lingue Romanze tipologicamente
separate dall’italiano-toscano, e quindi non suoi dialetti.
Già nel 1979 Alberto
Mioni (Università di Padova) pubblicò un articolo in una rivista di
linguistica internazionale dove faceva notare che i “dialetti” d’Italia “non
sono semplici varianti dell’italiano standard […] ma lingue separate, molto
diverse […] l’una dall’altra”.
Nel loro libro sulla situazione linguistica in Italia Kinder e Savini riportano che le varianti Romanze chiamate “dialetti”
d’Italia “sono in effetti lingue separate”.
Il Professor Kaplan della
University of South California ci ricorda appunto che le varietà Romanze
“ambiguamente chiamate ‘dialetti’ ” in realtà non sono altro che “lingue non
ufficiali”.
E visto che l’intento della Carta Europea è proprio quello
di dare un minimo di ufficialità a lingue tuttora non ufficiali, la posizione
dello Stato italiano non è solo immorale, è anche e soprattutto indifendibile.
Nonostante queste realtà storico-tipologiche, e in tipico
stile italico, quello strano animale che va col nome di “linguistica italiana” insiste col chiamare queste lingue “dialetti”
d’Italia (anche se si premurano sempre di specificare “d’Italia”, non
“dell’italiano”!) in ciò che sembra essere una lode all’ambiguità,
abitudine piuttosto strana per una disciplina che non esita certo a coniare
termini nuovi o a resuscitare parole da lingue defunte per evitare ambiguità
molto meno pericolose.
Eppure i “dialettologi” italiani sanno benissimo che quelli
da loro chiamati “dialetti” d’Italia hanno un livello d’intelligibilità
bassissimo con l’italiano-toscano, e che non derivano affatto da quest’ultimo.
Sanno in oltre che questi presunti “dialetti” hanno una
storia loro che si muove in parallelo a quella dell’italiano-toscano e che, nel
caso delle lingue Gallo-Italiche, è addirittura più vicina a quella del
provenzale o dell’occitano che non a quella dell’italiano-toscano.
Sanno poi che questi presunti “dialetti” hanno un loro
lessico, un loro sistema grammaticale, fonologico e morfologico diverso da
quello dell’italiano-toscano, così come sanno (anche se non tutti) che non è
affatto vero che la storia di queste “lingue dialettizzate” (per dirla con il grande
linguista Heinz Kloss), sia solo una storia orale.
Tutte e sette le lingue regionali ignorate dallo Stato
italiano hanno una lunghissima storia scritta e hanno spesso prodotto
letterature di altissimo livello.
I primi testi in queste lingue risalgono tra la fine del
primo e l’inizio del secondo millennio, come per esempio i placiti cassinesi in
lingua napoletana (anno 960 ca.), i sermoni subalpini in lingua piemontese (XII
secolo), i sermon divin in lingua lombarda (XIII secolo), per non
parlare poi della fertile produzione della scuola siciliana, che non scriveva
certo in italiano-toscano. Alcune di queste lingue, per esempio piemontese,
siciliano, e veneto, hanno anche una koiné sovralocale che per secoli fu
accettata da vari scrittori come lingua letteraria.
I “dialettologi”
italiani sono stranamente restii nel considerare tutte queste caratteristiche,
e si soffermano invece su due punti piuttosto frivoli: (I) il fatto che queste lingue godono di un uso geograficamente
limitato e (II) il fatto che queste
lingue variano da una località all’altra. Queste, per un linguista, sono
rispettivamente una verità lapalissiana e una falsa pista.
Il primo punto è lapalissiano perché una lingua regionale
sarà ovviamente limitata dal punto di vista geografico, altrimenti sarebbe una
lingua di Stato, e quindi non regionale. Come riportato nella Carta, una lingua
regionale è per definizione parlata da un numero di cittadini che “formano un
gruppo numericamente inferiore al resto della popolazione dello Stato”.
Il secondo punto è una falsa pista perché qualsiasi lingua,
regionale e non, mostra variazione interna secondo i principi di quella che in
linguistica viene chiamata “variazione diatopica”.
Le frasi “il cocomero mi garba assai” e “l’anguria mi piace
molto” comunicano lo stesso pensiero in due maniere geograficamente prevedibili
e che c’azzeccano poco l’una con l’altra. Eppure sono entrambi ineccepibilmente
frasi della lingua italiana.
Gli equivalenti in milanese e bergamasco, punti di
riferimento delle due macrovarianti della lingua lombarda, mostrano meno
differenze, come si può vedere dal paragon tra “l’inguria la me pias tant”
(mil.) e “l’ingüria la me pias tat” (berg.). Eppure solo di differenze
si parla, come se si volesse imporre alle lingue regionali un criterio dal
quale la lingua di Stato viene esonerata.
Allora non è vero che la legge è uguale per tutti.
Allora non è vero che tutti i cittadini italiani hanno pari
dignità sociale senza distinzione di lingua, e la 482/99 ne è l’esempio più
immorale e indifendibile.
*Docente di Bilinguismo
Dipartimento di Linguistica
Università di Bangor
Galles UK
Fonte: srs di di MARCO TAMBURELLI* visto su
L’indipendenza del 12 marzo 2014
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