Dal Libro "VIVERE
120 ANNI Le verità che nessuno vuole
raccontarti"
di Adriano Panzironi
Ognuno di noi è consapevole che la fonte dei nostri guai di
salute dipende da ciò che mangiamo, beviamo o respiriamo.
È spontaneo pensare che i cibi non sono più genuini come una
volta, così ricchi di fertilizzanti, coloranti e conservanti. Lo stesso problema
è riscontrabile nelle polveri sottili presenti nell’aria che respiriamo o
nell’arsenico sospeso nell’acqua. Potremmo pensare, che le malattie moderne
dipendano da tutto questo. Ahinoi, la verità non è mai stata così lontana.
Anche se tali elementi hanno una qualche influenza sul nostro stato di salute,
sono ben poca cosa a confronto del cataclisma alimentare che si è abbattuto
sulle nostre teste, qualche millennio fa. Voltiamo lo sguardo indietro,
risalendo alla notte dei tempi.
L’evoluzione dell’uomo ha origine diversi milioni di anni
fa, da quando il mondo animale iniziò a differenziarsi ed una di queste linee
evolutive, ha rappresentato l’inizio del percorso che ha portato ai primi
ominidi. Si può incominciare a parlare di uomini (sapiens) a partire da due/tre
milioni di anni fa e grazie alla loro evoluzione (con la crescita della
dimensione del cervello) ci ha condotto fino ad oggi. Fino a circa 10.000 anni
fa, la dieta alimentare (per i mammiferi onnivori) era rappresentata da carne,
uova, pesce, frutta e verdura, ovvero da tutto ciò che era reperibile in
natura. L’uomo formò tribù di nomadi, dediti alla caccia ed alla raccolta.
10.000 anni fa qualcosa iniziò a cambiare. Alcuni clan
incominciarono a praticare l’agricoltura, piantando i primi cereali.
Indubbiamente tale scelta, ha permesso alla nostra civiltà di evolversi,
difatti la semplicità di trasporto ed il mantenimento dei cereali, hanno
consentito la costruzione delle prime città (immaginate infatti se al giorno di
oggi dovessimo lasciare in massa la città per andare a caccia per assicurarci
il pranzo).
Come in tutte le cose della vita, anche in questa c’è il
risvolto della medaglia:
“La rivoluzione alimentare” è stata devastante, perché i
cereali (compreso il riso), lo zucchero (introdotto nel 1800) e altri prodotti
dell’agricoltura come patate e legumi (amidi), sono la reale ed incredibile
causa che ci ha trasformato nell’essere più malato del pianeta.
Meglio la dura verità che vivere in un sogno malato.
Purtroppo ci siamo abituati a stare male, come se fosse
naturale soffrire di diabete, avere l’ arteriosclerosi, ammalarsi di Alzheimer
o terminare la propria vita in un letto di ospedale. Le esperienze che abbiamo
vissuto con amici e parenti o direttamente noi stessi, ci fanno sembrare ineluttabile
il nostro destino, facendoci arrendere ad esso.
Ho definito questo modus vivendi “la fine della rana”. Permettetemi un esempio un po’ brutale, ma
utile a capire quello che ci sta capitando da secoli a noi sapiens sapiens.
Provate a bollire una rana viva ponendola in una pentola di acqua bollente.
L’animale in un baleno salterà fuori dalla pentola. Se al contrario, la rana la
ponete in acqua fredda, accendendo il fuoco sotto, assisterete ad una cosa
incredibile. La rana abituandosi all’aumento della temperatura (pensando sia
normale), rimarrà a mollo nell’acqua anche quando inizierà a bollire e morirà.
Penso abbiate capito il senso della storia.
Un simile atteggiamento è stato riscontrato anche in noi:
tendiamo ad abituarci alla malattia, problema dopo problema, subendolo
passivamente. La buona notizia è che, ora, che ci siamo resi conto che l’acqua
in cui siamo immersi sta iniziando a bollire, possiamo ancora fare in tempo ad
uscirne, fare il “salto della rana”, prima che sia troppo tardi.
IL GLUCOSIO E NON IL
GRASSO È PERICOLOSO PER IL NOSTRO CORPO
Se qualcuno vi chiedesse se un eccesso di zuccheri faccia
male o no, cosa rispondereste? Sicuramente la vostra risposta (pur non avendo
studiato medicina) sarebbe affermativa. Difatti da decenni, trasmissioni
televisive, articoli di giornali e medici curanti, ci ripetono che gli zuccheri
fanno male ed andrebbero limitati il più possibile (niente di più giusto).
Mi viene spontanea una domanda:
Voi mangereste un
piatto di zucchero?
Sicuramente la vostra risposta è negativa.
Ma secondo voi, 100
grammi di spaghetti di semola dura, quanti zuccheri contengono?
Prima di rispondere, vi ricordo che la farina è un
carboidrato complesso (lo zucchero è semplice), ma sostanzialmente è la stessa
cosa. La risposta è 80 grammi di
zucchero.
Per essere precisi, spieghiamo che lo zucchero e gli amidi
della farina si trasformano nel nostro intestino in glucosio (lo zucchero
immediatamente assimilabile dal nostro corpo). Quindi mangiare 100 grammi di
spaghetti o ingerire 80 grammi di zucchero da cucina, è praticamente la stessa
cosa. Lo stesso equivale per il riso (79%, la percentuale trasformata in
zuccheri), per le patate (50%), per i legumi (40%). A questo punto vi chiedo:
Siete ancora convinti
che la pasta faccia bene e lo zucchero faccia male?
Non entrate nel panico, avremo tempo in questo capitolo per
riassumere i motivi per i quali, cereali e company, sono dannosi al nostro
organismo. I nutrizionisti e la classe medica in genere, vorrebbero farci
credere che dovremmo ricavare il 60-70% delle calorie giornaliere da alimenti
come i carboidrati semplici e complessi (1.200 calorie) e solo il 25% dai
grassi. Ciò significa incamerare 300 grammi di glucosio ogni giorno contro i
55,5 grammi di grasso (500 calorie/9calorie a grammo). Uno stile di vita
siffatto è totalmente contrario alla dieta paleolitica (prima della comparsa
dell’agricoltura). A quei tempi i nostri antenati assumevano circa 120 grammi
di carboidrati (fruttosio da frutta e da verdura), mentre il resto delle
necessità caloriche l’ottenevano dai grassi, ed in piccola parte dalle proteine
(la quota che superava il consumo ai fini plastici).
A confermare questa verità è proprio la conformazione del
nostro corpo. L’organismo umano immagazzina le calorie sotto forma di grasso,
con delle cellule deputate a tale scopo, gli adipociti. Nel nostro corpo non
esistono cellule capaci d’immagazzinare il glucosio, ad eccezione delle
fibrocellule della fibra bianca muscolare (con una quantità massima di 300
grammi di glucosio), che lo utilizzano solo come riserva per i muscoli (per
azioni veloci). L’unica riserva di glucosio che può essere usata per rialzare
il livello degli zuccheri nel sangue si trova nel fegato e raggiunge nel suo
limite massimo, 70 grammi. Facciamo ora due conti, considerando che il nostro
consumo è di circa 80 calorie all’ora (2.000 nelle 24 ore). Vi chiedo:
Come mai il nostro
organismo può immagazzinare solo 70 grammi di glucosio nel fegato, considerando
che ne dovrebbe utilizzare 20 grammi l’ora? (con solo 3,5 ore d’autonomia).
Ed ancora:
Perché possiamo
ingrassare inverosimilmente (ci sono persone che hanno raggiunto i 500 chili),
stipando il grasso nelle cellule adipose?
Non possiamo pensare che l’evoluzione abbia fatto degli
errori, fornendoci di un sistema energetico che va a zuccheri, con un magazzino
però di piccole proporzioni, mentre ci permette un magazzino spropositato di
grasso, considerandolo un sistema energetico secondario. Sarebbe come avere una
macchina e credere che vada ad olio (con un serbatoio di tre litri), quando
sappiamo che il serbatoio del gasolio ne contiene 70.
Ripercorriamo le “vie del glucosio” ed ricordiamo i problemi
che causano al nostro apparato digerente.
L’INTESTINO VIENE
DANNEGGIATO DAL CONSUMO DI CARBOIDRATI
Come ho descritto a pagina 55, quando mangiamo dei
carboidrati (pasta, pane, pizza, patate, zucchero, legumi, riso), la loro
digestione ha inizio nella bocca, grazie all’amilasi salivare. Di tutti i
macro-elementi che ingeriamo, solo i carboidrati iniziano a scomporsi nella
bocca, diversamente sia le proteine che i grassi iniziano il loro percorso
digestivo nello stomaco e nell’intestino. La bocca, in genere, serve
esclusivamente per triturare gli alimenti.
Cosa avviene con
l’amilasi salivare?
I carboidrati incominciano a scomporsi, divenendo il cibo
principale della colonia batterica presente nel cavo orale. Ricorderete (a pag.
51) che batteri e funghi utilizzano lo zucchero come elemento energetico (non
possiedono mitocondri); in tal modo andiamo ad alimentare a dismisura la flora
batterica cattiva, creando tartaro (la casa dei batteri) e carie.
Poniamoci alcune domande:
La natura con la sua
comprovata capacità evolutiva, non avrebbe risolto il problema delle carie e
del tartaro? C’erano dentisti tra i primitivi? Il resto del mondo animale ha
problemi di carie?
Evidentemente l’inserimento dei carboidrati nella nostra
dieta ha creato un nuovo problema, che la natura non ha ancora avuto il tempo
di risolvere.
Un altro spunto di riflessione riguarda la pericolosità di
un morso umano rispetto a quello di un animale. Se vi è mai capitato di
rimanere feriti da un morso di cane, avrete notato che la ferità non s’infetta,
ma per precauzione il vostro medico vi avrà somministrato una puntura di
antitetanica. Se siamo morsi da un essere umano, al contrario rischiamo
addirittura la setticemia. Ciò accade perché nella nostra bocca vive
perennemente una flora batterica patogena, molto sviluppata, la cui presenza
dipende dagli zuccheri e dai carboidrati complessi masticati.
Torniamo all’apparato digerente. I carboidrati nello stomaco
non subiscono nessun’azione digestiva. Una volta giunti nell’intestino tenue,
sono scomposti dall’amilasi pancreatica e poi, attraversando l’intestino tenue,
tramite uno sfintere, arrivano nell’intestino colon. Uno dei problemi derivati
dall’uso dei carboidrati è legato ai danni che essi cagionano al nostro
intestino. Difatti parte dei carboidrati non ancora scomposti (da questo punto
di vista lo zucchero è meglio dei farinacei, perché è assimilato prima dai
villi), una volta arrivati nell’ultima stazione dell’intestino, riforniscono di
cibo la nostra flora batterica cattiva, composta da muffe come la candida (rif.
pag. 248) e da batteri patogeni. Da questo punto di vista i legumi sono ancora
più dannosi, perché meno scomponibili dei cereali (motivo per cui producono gas
nel l’intestino).
Ciò avviene perché anche i farinacei sono ricchi di fibre
insolubili (rif. pag. 118) e tale composizione causa l’aumento della velocità
di transito del “bolo alimentare” nell’intestino tenue. L’amilasi pancreatica
non ha quindi abbastanza tempo per scomporre i carboidrati (legati con le
proteine) e ne diminuisce la quantità assimilabile dai villi. Non a caso il nostro
intestino è lungo sette metri, per dare il tempo alle reazioni enzimatiche di
scomporre correttamente le molecole dei carboidrati complessi e delle proteine.
Sarebbe come pensare di cuocere una torta nel forno, sapendo che il suo tempo
di cottura ideale è di 45 minuti e, solo perché abbiamo fretta, la togliamo dal
forno prima del tempo stabilito di cottura. Aumentando la velocità di transito
del “bolo alimentare”, si incrementa la quantità di residui che finiscono nel
colon (per la felicità dei batteri cattivi). Tale alimentazione basata sugli
zuccheri causa un aumento esponenziale della flora batterica patogena presente
nel colon, la quale attraversa lo sfintere che separa l’intestino colon dal
crasso e, invadendolo, da inizio alla disbiosi (rif. pag. 255).
Sempre riferendosi all’intestino, dobbiamo ricordare che
l’acidosi dovuta ai carboidrati, comporta una minore produzione di bicarbonato
di sodio (sistema tampone), utile per rendere basico il “bolo alimentare” che
fuoriesce dalla stomaco; la maggiore acidità, nel contempo, impedisce la
corretta degradazione dei carboidrati e delle proteine (con effetti putrescenti
e fermentativi).
Ricorderete inoltre che la disbiosi è la causa principale
delle intolleranze alimentari e delle malattie autoimmuni. Per quanto riguarda
l’intestino del colon, l’utilizzo dei carboidrati, causa stitichezza,
infiammazione della matrice della parete vasale e l’insorgenza della malattia
emorroidaria.
Su questo tema porgo alcune domande.
Possibile che la
natura nella sua perfezione evolutiva, abbia reso così delicato il tessuto
delle emorroidi, considerando la pressione che queste devono supportare per il
passaggio delle feci? Che abbia sottovalutato il problema della stitichezza e
dell’infiammazione dei tessuti in quel punto? Sapete indicarmi quale altro
essere animale soffre di malattia emorroidaria sul nostro pianeta?
Forse solo gli animali domestici che mangiano quello che gli
diamo da mangiare noi (il nostro stesso cibo).
IL FEGATO REGOLA LA
QUANTITÀ IL GLUCOSIO NEL SANGUE
Come già saprete, il sangue veicola in tutte le cellule del
nostro corpo le sostanze nutritive come i sali minerali, l’ossigeno, le vita
mine, gli acidi grassi, il colesterolo (lipoproteine), l’acqua, il glucosio,
etc. Altra incombenza del sangue è quella di trasportare via le scorie acide
prodotte dalle nostre cellule, inviandole ad organi detti “emuntori” (esempio:
polmoni e reni), che provvederanno alla loro eliminazione. Gli organi emuntori
sono anche deputati alla produzione di nutrienti (vedi il colesterolo) ed alla
loro eliminazione, in caso di quantità eccessive presenti nel sangue (ad
esempio il sale).
Infine ci sono gli “ormoni sentinelle”, i quali verificano
che i livelli dei nutrienti non superino range (troppo alto o troppo basso)
accettabili per il nostro metabolismo.
Per quanto riguarda il glucosio, la nostra evoluzione ha
costruito un sistema perfetto per mantenerne stabile il livello nel sangue, che
ricordo essere di 0,8 grammi per litro. Sappiamo inoltre che il cervello è
l’unico organo ad utilizzare il glucosio, consumandone circa cinque grammi ogni
ora.
Man mano che il sangue s’impoverisce di glucosio (perché
consumato dai neuroni), il fegato svolge la funzione di valvola regolatrice,
reintroducendo pari quantità di glucosio, ricorrendo alla sua riserva di 70
grammi. Tale deposito è reintegrato tramite due vie ben distinte:
l’elaborazione del fruttosio e la gluconeogenesi (dalle proteine). Difatti
quando mangiamo della verdura (3% circa) o della frutta (7% circa) il fruttosio
contenuto in esse, pur essendo assimilato direttamente dai villi intestinali
(ed immesso nel sangue come accade per il glucosio), per essere utilizzato
dalle cellule necessita di una trasformazione chimica all’interno del fegato.
Per cui, dopo aver subito tale trattamento, si trasforma in glicogeno,
reintegrando a questo punto la riserva del fegato (se inferiore ai 70 grammi) o
essere trasformato in trigliceride. Il processo della gluconeogenesi è invece
la trasformazione delle proteine in eccesso (oltre a quelle usate ai fini
plastici) in glicogeno. Quando la riserva è completa, il fegato trasforma il
glucosio in trigliceridi (formazione delle Ldl dal fegato) e quindi immessi nel
flusso sanguigno per trasportare il grasso a tutte le cellule o in caso di
eccesso calorico, consegnato alle cellule adipose.
Tutto ciò significa che il livello di glucosio nel sangue,
anche dopo i pasti (se non si consumano carboidrati insulinici) è mantenuto ai
livelli normali di 0,8 grammi per litro. Anche per quanto riguarda l’attività
fisica, se non eccessiva o errata, non modifica la quantità di glucosio nel
sangue perché le fibre muscolari di tipo 2 (fibre veloci che ci permettono ogni
singolo movimento, ad esclusione dei movimenti lenti e di forza), utilizzano un
loro speciale serbatoio di glucosio (circa 300 grammi); mentre le fibre di tipo
1 (fibre lente utilizzate per movimenti lenti), utilizzano maggiormente il
grasso.
Per risolvere anche il problema di eventuali cali glicemici
improvvisi, il nostro corpo può contare sul cortisolo, il così detto “ormone
dello stress”. Questi è in grado di catabolizzare molto velocemente le proteine
del nostro corpo (muscoli e matrice), trasformandole in glucosio
(ripristinandone il giusto livello). Il corpo è in grado di gestire perfettamente
il glucosio nel sangue e soprattutto, vista la sua pericolosità, è in grado di
mantenerlo nei limiti di sicurezza di 0,8 grammi per litro sanguigno. Tutto
questo è stato possibile finché l’uomo ha mantenuto l’alimentazione che lo
aveva caratterizzato per milioni di anni. Come ben sappiamo, circa 10.000 anni
fa, l’uomo ha scoperto l’agricoltura, introducendo nuovi cibi, i cereali.
Vediamo come un evento epocale, abbia potuto modificare la nostra “via del
fruttorio”.
L’INSULINA REGOLA GLI
ECCESSI DI GLUCOSIO NEL SANGUE
Abbiamo detto che quando mangiamo 100 grammi di pasta o di
pane, l’80% del loro peso è costituito da amido, quindi dopo due ore di
digestione, si trasforma in 80 grammi di zucchero. Il problema rivela due
differenti sfaccettature. La quantità eccessiva ed un percorso diverso per
l’assimilazione del glucosio.
Abbiamo già detto che il fruttosio, pur essendo assimilato
dai villi, per l’utilizzazione ha bisogno di essere processato dal fegato. Il
glucosio (derivato da amidi e zuccheri semplici), assimilato dai villi
intestinali e quindi immesso nel flusso sanguigno, non ha bisogno di essere
processato nel fegato e quindi alza l’indice glicemico). Infatti dopo circa due ore di digestione, i
villi intestinali immettono nel flusso sanguigno circa 80 grammi di glucosio
contro una quantità di 4 grammi complessiva (0,8 grammi per 5 litri),
normalmente presente. Stiamo parlando di 20 volte le quantità del glucosio
previsto dal nostro metabolismo; considerando che con 20 grammi di glucosio nel
sangue il corpo entrerebbe in coma diabetico (con conseguente morte).
L’evoluzione ha previsto un piano d’emergenza (salva vita), che il nostro corpo
è in grado di attivare: parliamo dell’ormone dell’insulina.
ARRIVA L’INSULINA
A me piace paragonare l’insulina ad una squadra di pompieri.
Per ché come la squadra di emergenza è efficace per salvare la casa da un
incendio, l’insulina salva la nostra vita, con altrettanta efficacia. Quello
che non potete chiedere ai pompieri è di salvare il vostro mobilio ed i vostri elettrodomestici,
distrutti dall’utilizzo degli idranti. In qualche modo anche l’insulina non va
per il sottile, creando dei problemi, catalogati come danni collaterali. Il
compito di quest’ormone non è quello di mantenere costante la quantità di
glucosio nel sangue, avendo la priorità di eliminarlo il più velocemente
possibile, utilizzando tutti i mezzi a sua disposi zione. Riassumiamoli
insieme:
Primariamente verifica se il fegato ha la necessità di
reintegrare la scorta di glucosio (70 grammi); successivamente stimola tale
organo a produrre trigliceridi, che saranno immessi nel flusso sanguigno.
Questo perché l’insulina stimola le cellule adipose (quelle che gli uomini
hanno sulla pancia e le donne sui fianchi e sui glutei), a stipare più grasso possibile.
Un altro ordine riguarda la produzione di colesterolo (lo vedremo più avanti).
L’insulina in seguito chiede alle cellule muscolari (fibre
di tipo 2b, bianche) di prendere più glucosio possibile (tramite il carrier
Glut 4). Il rifiuto di tali cellule a quest’ordine specifico si chiama
“insulino resistenza” e rappresenta una delle cause del diabete e del
l’iperglicemia. Infine ordina ai reni di trattenere il sodio che utilizzerà per
costringere tutte le cellule (ad esclusione dei neuroni e delle fibrocellule),
tramite il meccanismo dell’osmosi, a far entrare lo zucchero all’interno del
Citosol.
Maggiore è la quantità di glucosio che entra nel sangue,
maggiore sarà l’insulina prodotta dal pancreas, perché non possiamo rischiare
di avere un picco maggiore di 1,4 grammi per litro.
Purtroppo però maggiore è la quantità d’insulina prodotta,
maggiore sarà il calo glicemico successivo. Quando ciò avviene il nostro cervello entra
nel panico, perché se la quantità di glucosio dovesse scendere sotto i 0,5 grammi
per litro, i neuroni incomincerebbero a morire (coma diabetico). Quindi diminuisce la propria attività
neuronale per risparmiare il glucosio. Ci accorgiamo di quest’azione, perché
dopo aver mangiato i carboidrati, subiamo una fase di sonno.
Il nostro corpo ha un altro ormone salva vita che è il
cortisolo, il quale attivandosi velocemente rialza il livello di glucosio,
distruggendo le nostre proteine (catabolismo muscolare e della matrice) e
permettendo al nostro cervello di riattivarsi completamente. Tali meccanismi
creati dall’evoluzione erano usati di rado nella vita paleolitica. Poteva per
esempio accadere in caso di grandi mangiate di frutta (che contiene una parte
di saccarosio, oltre al fruttosio), sicuramente non nelle proporzioni odierne (20
volte il limite).
Se pensiamo alla dieta moderna, ci si rende conto che ad
ogni pasto, attiviamo dei meccanismi che invece dovremmo utilizzare, solo in
caso di emergenza. Pensiamo all’italiano medio, che ha l’abitudine di fare tre
pasti e due spuntini a base di carboidrati. Ciò significa attivare per cinque
volte al giorno questi ormoni, avendo per 1012 ore (23 ore per ogni post pasto)
al giorno, il nostro livello di glucosio a livelli eccessivi.
Se considerate che la presenza di 1,1 grammi per litro è ritenuta
come fase prediabetica e 1,25 come patologia diabetica, noi tecnicamente siamo
in tale condizione per la metà della nostra giornata, senza esserne
consapevoli. La nostra evoluzione ha creato una “via del fruttosio” ben
precisa, impostata sull’alimentazione ancestrale, basata principalmente sul
consumo di questo tipo di zucchero. Al contrario noi oggi utilizziamo la “via
del glucosio”, attivando continuamente l’insulina (doveva essere un evento
straordinario a tutela della nostra salute). Modificando la nostra dieta (per
il 70% composta di carboidrati) abbiamo fatto dell’insulina un’attività normale
(attiva ad ogni pasto). È come continuare a dare fuoco alla nostra casa e
richiamare ogni volta i pompieri.
LE CELLULE ADIPOSE
SONO STIMOLATE DALL’INSULINA
L’insulina, come abbiamo già detto, si preoccupa di
eliminare il glucosio dal sangue.
Cosa succede quando sono piene le riserve del fegato (70
grammi), delle fibrocellule bianche (300 grammi) e la matrice extracellulare e
tutte le cellule sono stracolme di zucchero?
A questo punto l’insulina ha un’ultima soluzione a
disposizione per riportare il glucosio a livelli normali, ovvero costringere le
cellule adipose (adipociti) ad assorbire lo zucchero in eccesso. Le cellule
adipose preferite dall’insulina, sono quelle presenti nel l’addome dell’uomo e
nelle gambe e sui glutei delle donne.
Un aspetto importante riguarda però la dimensione degli
adipociti. Di fatti mentre quelli sottocutanei sono più grandi, quelli
bersaglio del l’insulina sono più piccoli. Tale differenza è dovuta al fatto
che nell’epoca ancestrale era molto più frequente la necessità di accumulare
grassi nel periodo invernale, assumendo cibi grassi (che assorbiti nel
sottocutaneo aiutano a resistere al freddo) che non i grassi da carboidrati
(non esistendo il frumento e gli altri carboidrati insulinici).
Purtroppo l’eccessivo stimolo ad ingerire glucosio per
trasformarlo in grasso, causa stress elevati agli adipociti (in particolare ai
più piccoli) che portano alla compressione dei mitocondri cellulari, alla loro
disfunzione e quindi all’apoptosi. L’intervento dei mastociti, richiamati in
loco per degradare le cellule morte, crea un’infiammazione. Un simile processo,
fa del grasso addominale, una fonte inesauribile d’infiammazione, con uno sviluppo
eccessivo di radicali liberi.
Vi sembra possibile
che la nostra evoluzione non abbia previsto il possibile stress degli adipociti
ed il relativo effetto infiammatorio?
Sicuramente aveva altri piani per il nostro corpo e certo
non avrebbe mai immaginato una quantità così elevata di zuccheri, da stipare
sotto forma di grasso. Difatti l’insulina predilige le cellule dell’addome, per
il semplice fatto che è la parte più irrorata di sangue, quindi più veloce per
depositare il grasso e contestualmente più rapida da riutilizzare in presenza
di un deficit di calorie (è il primo grasso che cala in caso di dieta). Vi
ricorderete che la nostra evoluzione aveva pensato bene di utilizzare le
cellule adipose più grandi nel sottocutaneo (per difenderci dal freddo) e
quelle più piccole, dove contenere riserve inferiori di grasso (derivato dai
carboidrati di frutta e verdura).
Un altro aspetto fondamentale riguarda il metabolismo del
grasso, che corrisponde ad una via dolce nello stipare gli esuberi.
Vi ricorderete, che dopo l’assunzione di grassi (rif. pag.
91) e la loro scomposizione in acidi grassi, questi sono immessi nel flusso
linfatico, sotto forma di chilomicroni, prendendo a viaggiare nel flusso
sanguigno. Il trasferimento del grasso
contenuto in queste lipoproteine avviene tramite il contatto con tutte le
nostre cellule del corpo (utilizzato come carburante) o con gli adipociti, non
concentrati però nell’addome, bensì nel sottocutaneo di tutto il corpo. Lo
stesso processo accade quando il fegato trasforma aminoacidi e fruttosio in
acidi grassi (perché la riserva di 70 grami di glucosio è satura), utilizzando
le lipoproteine che distribuiranno dolcemente il grasso alle cellule che ne
fanno richiesta. Tale percorso non violento (al contrario di quello imposto
dall’insulina), non genera stress cellulare o apoptosi, evitando così
l’infiammazione.
LE CELLULE VENGONO
DANNEGGIATE DAL CONSUMO DI CARBOIDRATI
Quante volte ci siamo sentiti dire che il nostro corpo va a
zucchero? Ci raccontano che il glucosio rappresenta il miglior combustibile per
le nostre cellule.
Siamo veramente
convinti che sia così?
La natura strutturale delle nostre cellule ci suggerisce una
verità opposta. Esse sono predisposte per utilizzare il grasso come carburante
(substrato energetico) e solo saltuariamente, dovrebbero utilizzare il
glucosio. L’unica eccezione si registra con le cellule nervose e con le
fibrocellule di tipo 2b (fibra bianca muscolare). In tal caso, il neurone ha
necessità di produrre molta energia per attivare le pompe sodio potassio (per
produrre lo stimolo elettrico, grazie alla polarizzazione delle cellule),
possedendone 100 volte in più delle cellule normali. La fibrocellula dei
muscoli (della fibra bianca) utilizza molta energia per la contrazione veloce
(scatto e forza), possedendo pochi mitocondri ed una riserva di glicogeno
(cristalli di glucosio prodotti dal fegato) di circa 300 grammi. Le altre cellule
sono totalmente di verse da neuroni e fibrocellule, dovendo produrre energie
centesimali proprio per il numero ridotto di pompe sodio-potassio (senza avere
la necessità di accelerare il proprio metabolismo).
Come vi ricorderete nella spiegazione della produzione
energetica delle cellule (rif. pag. 123) esistono due vie: la prima è il
mitocondrio, la seconda è la glicolisi. Il mitocondrio produce con una
particella di acetilcoA (acido grasso) 34 Atp (particelle energetiche),
utilizzando l’ossigeno che respiriamo dai polmoni e raggiungendo così la
massima efficienza. La glicolisi invece, usa particelle di glucosio e dopo
dieci processi chimici produce una quantità di soli due Atp. Dalla glicolisi si
ottiene anche una particella di acido piruvico, che dovrà subire un’altra
lavorazione per trasformarsi in acetilcoA ed entrare nel mitocondrio. La
particolarità del processo glicolico è la sua velocità di produzione, che se
pur inefficiente, risulta molto elevata. Difatti nel tempo che il mitocondrio
impiega per produrre una particella energetica (Atp), la glicolisi ne produce
cinque.
Le domande che ora vi pongo sono le seguenti:
Se non abbiamo bisogno
di tanta energia, perché dovremmo attivare la glicolisi ? (come il turbo di un
motore) Quanto può durare il motore di una vettura se lo tenessimo sempre al
massimo dei giri?
Le nostre cellule hanno un loro metabolismo basale, per il
quale l’evoluzione le ha dotate di un numero di mitocondri (con una produzione
costante di energia) capaci di produrre solo l’energia necessaria.
Quando ingeriamo carboidrati, l’insulina per eliminare il
glucosio dal sangue, lo pompa all’interno delle membrane cellulari con il
sistema dell’osmosi (rif. pag. 55), obbligando le cellule ad attivare la via
glicolica e producendo energia in esubero, che le cellule non sanno come
utilizzare. Al contrario, quando la cellula ha bisogno di carburante (acidi
grassi), li richiede direttamente alle lipoproteine (che ne rilasciano la
quantità richiesta) e che non le obbligano a riempirsi di grasso. L’equilibrio
delle cellule (omeostasi) è compromessa anche dall’azione osmotica svolta
dall’insulina. Difatti trattenendo il sale nella matrice cellulare insieme
all’acqua (ritenzione idrica, tipica dei carboidrati), si crea una differenza
di gradiente che raggrinzisce le cellule (per la fuoriuscita dell’acqua dal
Citosol). Le cellule, per ripristinare la corretta dimensione, sono obbligate
ad attivare le poche pompe sodio potassio e far entrare il sale (accompagnato
dallo zucchero). In tal modo aumenta il gradiente che richiamerà l’acqua
all’interno della membrana. Tale processo, a sua volta, causerà un
rigonfiamento cellulare, finché la cellula non ritroverà la sua omeostasi.
Purtroppo però la cellula, quando ha fatto entrare il sale all’interno della membrana
ha dovuto sacrificare il potassio, facendolo uscire dalla cellula. Ciò causa un
deficit di potassio (fondamentale per la cellula) ed il cambio della polarità
della cellula, modificandone l’equilibrio elettrolitico.
Un altro problema che coinvolge la cellula è l’eccessiva
produzione di acido piruvico, dovuta al processo della glicolisi. Se il
mitocondrio è cinque volte più lento rispetto alla glicolisi, significa che
solo una delle cinque particelle di piruvato può trasformarsi in acetil coA per
essere utilizzato dal mitocondrio. La
cellula subirà una super produzione di acido piruvico che innalza l’acidità del
Citosol. In conseguenza di ciò, la cellula è co stretta a riversare l’acido
piruvico nella matrice extracellulare (aumentando l’acidità tissutale). Tutto
questo stress cellulare è dovuto all’utilizzo dei carboidrati come supporto
energetico, mentre il consumo energetico dei grassi non determina alcuna
modifica dell’omeostasi cellulare.
Fonte: srs di Adriano
Panzironi, da Vivere 120 anni.
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