Dal testo di Francesco Zanotto
"Sul rompere dell'alba del dì appresso,
uditi alquanti colpi di cannone, si tenne che il nemico non fosse lungi: ordinò
pertanto il Flangini moribondo di scioglier tosto la flotta, e dar la caccia a'
nemici. - E perchè i suoi ordini non soffrissero dimora, quantunque presso a
morte, volle essere recato sopra il cassero della propria nave per ordinare egli stesso le manovre e la
pugna; ma nello scuotimento del mare e della nave spirò egli tra le braccia de'
suoi soldati, lasciando un nobilissimo
esempio di valore ... ".
ANNO 1717
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.
Nel 1717
si avviava verso la fine il secolare
scontro tra Venezia e i turchi.
La Repubblica paga il suo ultimo tributo di sangue per la salvaguardia di un
impero ormai inesistente ...
LA SCHEDA STORICA – 137
L'effetto della straordinaria vittoria sui turchi a Corfù,
fu a dir poco esaltante per la Repubblica veneta. I turchi vi avevano subito
una dura ed umiliante sconfitta, ma ancora la partita non poteva ritenersi
conclusa.
E così per tutto l'inverno l'Arsenale veneziano lavorò a
pieno ritmo sfornando per la primavera del 1717 una flotta nuovissima di 27
navi pronte a scendere in mare quanto prima.
Il comando venne allora affidato ad un giovane ammiraglio,
Lodovico Flangini, l'ultimo eroe della Serenissima nel suo secolare scontro con
l'impero turco.
Il Flangini aveva
assunto la carica straordinaria al posto di Andrea Cornaro e prontamente si
diresse con le sue 27 navi alla volta dell'arcipelago greco. Il 6 giugno era a
Stalimente spostandosi successivamente verso lo stretto dei Dardanelli,
passaggio obbligato per le navi turche d'uscita dal porto di Istanbul.
I turchi avvistate le navi veneziane, uscirono presto con 34
delle loro raccogliendo l'invito alla battaglia. Era il 12 giugno del 1717 e
mancavano appena due ore al tramonto.
Otto navi turche attaccarono subito tre vascelli veneziani
che tuttavia riuscirono a respingerle mentre il capitano turco puntava
decisamente contro la capitana comandata dal Flangini. La battaglia scoppiò a quel punto furiosa e senza
esclusione di colpi coinvolgendo completamente entrambe le flotte.
All'alba i veneziani si ritrovarono alla punta di Lemno a
circa 15 miglia dal nemico al quale mancavano all'appello due navi e altre più
piccole imbarcazioni. Pur intravvedendosi, tuttavia, le due flotte non si
muovevano, scoprendosi paralizzate dalla totale mancanza di vento che le rese
inoperose ed immobili per alcune ore.
Al primo alito di brezza, la situazione prese a muoversi. I
turchi infatti puntarono immediatamente contro due navi veneziane di
retroguardia costringendo il capitano Flangini a manovrare per poterle
soccorrere. A quel punto però i turchi decisero per il ritiro non volendo
ancora rischiare. Lo scontro decisivo infatti sarebbe scoppiato solo due giorni
dopo, il 16 giugno, quando i turchi poterono contare sul vento a favore.
La battaglia che ne seguì si protrasse per circa tre ore
durante le quali il Flangini animò continuamente i suoi uomini riuscendo alla
fine a fracassare la capitana nemica e ad affondare tre grossi vascelli.
La vittoria a quel punto era in pugno, ma sarebbe costata
cara al giovane comandante veneziano che venne infatti improvvisamente colpito.
Lo sconcerto che presto si diffuse tra
le fila veneziane fu tale da consentire ai turchi di ritirarsi momentaneamente.
Il giorno dopo lo scontro riprese su ordine dello stesso
Flangini ormai moribondo. La sua condizione infatti, non gli impedì di farsi
condurre sopra il cassero della sua nave per poter assistere alle ultime,
vittoriose fasi della battaglia alla quale
volle partecipare fino all'estremo respiro. Morì così fra le braccia dei suoi
uomini, certo della vittoria che aveva portato alla Repubblica.
Se per lo sfortunato Flangini la partita poteva considerarsi
conclusa, non così per i turchi e la flotta veneziana, impegnate in un altro
scontro solo un mese dopo allargo di Matapan dove ancora una volta comunque la
flotta nemica venne battuta e costretta al ritiro dalle navi comandate da
Andrea Pisani.
Il comandante veneziano riuscì anche, prima dell'arrivo
della nuova stagione invernale, a riconquistare Prevesa e Vonitsa mentre anche
in Dalmazia Alvise Mocenigo infilava una vittoria dietro l'altra in nome di S. Marco.
Ma il colpo decisivo per i turchi arrivò dal principe
Eugenio di Savoia che già li aveva duramente sconfitti alcuni anni prima nelle
pianure ungheresi.
Anche in quell'occasione il Savoia riuscì nell'impresa conquistando
niente meno che la roccaforte dei turchi nei Balcani: Belgrado. A quel punto i
turchi, che battevano in ritirata su tutti i fronti, si videro costretti a
chiedere la pace.
La riscossa
dell'Europa cristiana, seppur tardiva, si dimostrò sul campo in tutta la sua
efficacia. Le parti in causa si incontrarono questa volta a Passarowitz nel
maggio del 1718 per le trattative di pace. Mediatori: Inghilterra e Olanda, ma
per Venezia si stava preparando un'amara sorpresa.
Il suo maggior alleato, l'impero, era troppo impegnato
altrove per rivolgere una seria e motivata attenzione al tavolo delle
trattative lasciando solo il rappresentante veneziano, Carlo Ruzzini a
difendere gli interessi della Serenissima di fronte agli altri paesi europei.
Agli occhi di questi ultimi il vero ed unico eroe della situazione non era
Venezia, bensì Eugenio di Savoia.
E così Venezia non riotteneva nè la Morea, nè Suda o
Spianlonga, nè la possibilità di espandersi in Albania come richiesto dal
povero Ruzzini che invano per sei ore parlò animatamente in favore del suo
governo.
Venezia dovette accontentarsi, così, solo di alcune isole di
scarso valore strategico - eccetto Corfù naturalmente - e di alcune fortezze
lungo il confine dalmata in una scomoda convivenza con i turchi. Questo era
tutto quello che la Serenissima portava a casa dopo quattro anni di guerra e di
esaltanti vittorie!
Quelli furono anche i suoi ultimi e mai più modificati
confini fino alla caduta. Il 21 luglio del 1718 la firma del trattato sanciva
infatti questo stato di cose. Era un boccone amaro da mandare giù per la
Repubblica, un'umiliazione alla quale ben presto avrebbe fatto seguito anche la
beffa.
Esattamente due mesi dopo la firma del trattato, Venezia,
dopo l'irriconoscenza degli uomini, doveva infatti fare i conti con le forze
del destino e della natura. Un fulmine durante uno spaventoso temporale, colpì
in pieno la polveriera del castello di Corfù. Ne seguirono esplosioni a catena
in tutti gli altri depositi. Un inferno che devastò completamente l'antica
cittadella provocando numerosi morti e feriti. Quello che non era riuscito ai
turchi solo due anni prima, riuscì nelle sue conseguenze molto più devastanti
alla natura, quella stessa natura che allora si era scatenata sui turchi in
fuga.
Quella tragedia dovette risuonare funestamente a Venezia,
quasi un'ulteriore conferma della precarietà e dell'inconsistenza del suo ormai
esiguo e fantomatico impero.
Fonte: srs di
Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura
Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA VENETA,
volume 5, SCRIPTA EDIZIONI
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