di REDAZIONE
Proponiamo in ANTEPRIMA per L’Indipendenza la
traduzione in italiano dell’articolo Nelson
Mandela, ‘The Che Guevara of Africa’, un estratto dal capitolo The Che Guevara of Africa scritto
da Ilana
Mercer, scrittrice liberale classica/paleolibertaria canadese
nata in Sud Africa, è opinionista e commentatrice presso varie testate
giornalistiche statunitensi. I brani sono tratti dal suo libro Into
the Cannibal’s Pot: Lessons for America from Post-Apartheid South Africa,
edito nel 2011 (si fa riferimento alle pagine 140-151), il quale oltre a
confutare vari falsi miti apologetici nati attorno alla figura di Nelson
Mandela, descrive in ambito socio-politico il Sud Africa post-apartheid.
(Traduzione di Luca Fusari, Copyright 2013 Ilana Mercer.com)
IL CHE GUEVARA
D’AFRICA
(…) In una certa misura, la leggenda di Mandela è stata
nutrita e addirittura creata dagli occidentali sentimentali. La valutazione
dell’uomo (che Oprah Winfrey e la top model Naomi Campbell hanno preso a
chiamare col titolo onorifico africano di ‘Madiba’) l’affettuosità di Winfrey e
Campbell è stata determinata dall’imbevuto sentimentalismo che la nostra
cultura in stile Mtv ha generato. Il sorriso televisivo di ‘Madiba’
ha prevalso sulla sua filosofia politica, fondata su una energica
redistribuzione del reddito nella tradizione neo-marxista, per la “riforma
agraria” della stessa tradizione, e sull’animosità etnica verso gli afrikaner.
Guru e tafano, saggio e showman, Nelson Rolihlahla
Mandela non è al centro di questa monografia. Si possono trovare navi
cariche di biografie osannanti il personaggio. Del resto concentrarsi su
Mandela in un racconto sul Sud Africa di oggi, sarebbe come concentrarsi su
Jimmy Carter in un racconto sull’America del 2010.
Andando contro la tendenza agiografica attuale, si
deve ammettere che, nonostante il consenso sul “socialismo razziale” di Mandela
(il quale sta attualmente contribuendo alla distruzione del Sud Africa),
il suo ruolo attuale nella zimbabwenizzazione
del suo Paese è maggiormente simbolico, come simbolica è la sua tardiva condanna
di Mugabe davanti ad una folla intellettualmente carnosa di “modelli di Moody,
dive disperate e priapici ex presidenti”, che si sono riuniti per festeggiare
il novantesimo compleanno di Nelson. La nostra attenzione è quindi rivolta non
al vecchio leader, ma alla sua eredità: l’ANC, The Scourge of the ANC, per
citare il titolo del saggio polemico di Dan Roodt.
Il patrizio Mandela merita certamente i soprannomi
riversati su di lui dall’insigne storico liberal Hermann Giliomee: «ha
avuto una postura imponente e una presenza fisica seria e carismatica. Aveva
anche quella rara qualità intangibile meglio descritta da Seamus Heaney come la
‘grande trasmissione della grazia‘». Innegabilmente ed unicamente, Mandela
combina «lo stile di un capo tribale e quella di un leader democratico
istintivo, accompagnato dalla cortesia del vecchio mondo». Ma c’è di più su Mandela per soddisfare
l’occhio proverbiale.
Anno 1992, l’occasione è stata immortalata su YouTube
nel 2006. Mandela saluta stringendo col pugno del potere nero. Lo
fiancheggiano i membri del Partito Comunista Sudafricano, i leader
del Congresso Nazionale Africano (ANC), e il braccio terrorista dell’ANC,
la Umkhonto we Sizwe (‘Lancia della Nazione’ o MK), che Mandela ha guidato. I
suoni dolci dell’inno MK mascherano le parole assassine della canzoncina:
«Vai sicura
lancia
Lancia della Nazione,
Noi i membri della Lancia ci siamo
impegnati a ucciderli, uccidere i bianchi»
Il ritornello orecchiabile è ripetuto molte volte e
infine sigillato con il responsoriale, ‘Amandla!’ (‘Potere’), seguito da
‘Awethu’ (‘al popolo’). Il geniale
contegno di Mandela è in contrasto con l’inno agghiacciante che sta
pronunciando con la sua bocca. «Uccidere i bianchi» è il grido di
battaglia che suscita ancora l’entusiasmo ai funerali e alle riunioni politiche
in tutto il Sud Africa, ed è in pratica una colonna sonora per l’epica campagna
d’omicidio attualmente condotta (ma di rado divulgata) contro i boeri del
Paese.
Questo è un lato del venerato leader che il
mondo vede raramente, o meglio, che ha scelto di ignorare. In effetti,
sembra impossibile convincere i circoli incantati dell’Occidente che il loro
idolo (Mandela) aveva un lato sanguinario, che il suo Paese (il Sud Africa) è
lontano dall’essere un idillio politico, e che questi fatti potrebbero in
teoria essere importanti da valutare circa il personaggio.
Grazie alla stampa estera, un’aura sfuggente ha sempre
circondato Mandela. Al momento della sua cattura, nel 1962, e nel suo
processo per terrorismo, nel 1963, è stato descritto in possesso di
qualità da Primula Rossa, come capacità di materializzarsi e smaterializzarsi
misteriosamente per i suoi cammei spettacolari. In realtà il suo arresto e la
sua cattura sono stati decisamente più prosaici (a quel tempo, il padre della
scrittrice aveva brevemente dato riparo ai figli di due ebrei fuggiaschi
coinvolti con le attività dell’ANC. La casa di famiglia fu saccheggiata, e il
materasso di Ilana, allora bambina triturato dalla polizia sudafricana).
Circa il mito di Mandela come disciplinato combattente
per la libertà, la Pittsburgh Tribune Review scrive ironicamente:
«Quale
recente avvocato qualificato, [Mandela] era conosciuto più come
un gran donnaiolo che come un attivista politico mirato. Per l’orrore dei
suoi colleghi del Congresso Nazionale Africano (ANC), ha anche
immaginato di diventare un pugile professionista, quindi alcuni dell’ANC hanno
tratto un sospiro di sollievo quando è andato in galera».
Né l’ANC era molto capace col terrorismo, certamente
non aveva nulla di ascetico e di auto-sacrificale come invece i salafiti e gli
uomini di al-Qaeda. «Senza le competenze e la logistica dell’Europa
orientale, per non dimenticare dei soldi svedesi, [l'ANC] non sarebbe mai
riuscito a realizzare e a trasportare una bomba attraverso il confine
sudafricano», sostiene Roodt.
Non fu certamente questo a smorzare l’entusiasmo di
Joseph Lelyveld per The Struggle. Ma quando l’ex (di cui sopra),
editorialista del New York Times andò a cercare i suoi eroi dell’ANC in
esilio per tutta l’Africa, non trovò altro che uomini ubriachi monosillabici ed
apatici, che egli disperatamente cercò di svegliare con la retorica
rivoluzionaria.
In ogni caso, il santificato Mandela fu catturato mentre
tramava un sabotaggio ed una cospirazione per rovesciare il governo. «Mandela
(…) liberamente lo ha ammesso al suo processo, ‘Io non nego di aver
pianificato un sabotaggio. L’ho programmato come il risultato di una
valutazione calma e sobria della situazione politica». Conferma Giliomee: « sotto
la guida di Nelson Mandela, il braccio armato dell’ANC, la Umkhonto we Sizwe,
ha intrapreso una campagna di basso profilo di sabotaggio».
Per questo fu incarcerato a vita. Nel 1967, gli Stati
Uniti avevano similmente incarcerato la Pantera Nera Huey Newton per aver
commesso omicidio ed altri atti “rivoluzionari” contro la “razzista” America. L’Fbi sotto Edgar J. Hoover procedette a dare
la caccia ai suoi connazionali che stavano tramando sabotaggi ed assassini.
Erano davvero in errore? Il governo sudafricano in seguito offrì a Mandela la
sua liberazione se avesse delegittimato la violenza. Mandela eroicamente,
almeno secondo The New York Times, si rifiutò di fare ciò, così
rimase dentro.
In quegli anni, il Pentagono aveva classificato l’ANC
come organizzazione terroristica. Amnesty International concordava, dato
che Mandela non fu mai riconosciuto quale prigioniero di coscienza a causa del
suo impegno per la violenza. Nel 2002, a un «membro dell’ANC in esilio a
Tokyo (…) è stato rifiutato il visto per gli Stati Uniti a causa del suo
passato terrorista».
Mandela non ha sempre incarnato la «grande
trasmissione della grazia». L’uomo riverito dai Clinton, dal
rocker Bono, da Barbra Streisand, da Richard Branson, e anche dalla Regina
Beatrice dei Paesi Bassi, era più scortese di George W. Bush. Nel 2003, Bush
conferì a Mandela la più alta onorificenza civile della nazione, la Medal of
Freedom.
Mandela avidamente accettò l’onore, ma rispose
sgarbatamente definendo l’America «una potenza con un presidente che non ha
lungimiranza e non può pensare correttamente» e che «ora vuole far
precipitare il mondo in un olocausto. (…) Se c’è un Paese che ha commesso
indicibili atrocità nel mondo, sono gli Stati Uniti d’America. A loro non
importa gli esseri umani». Se l’allora ottantacinque anni Mandela si
riferiva all’invasione dell’Iraq, deve aver dimenticato, nel suo rimbambimento,
che lui aveva invaso il Lesotho nel 1998. Il bue che dà del cornuto all’asino.
RIDENOMINARE IL
SOCIALISMO
La storia è stata estremamente gentile con ‘Madiba’.
Da quando arrivò al potere nel 1994, circa 300 mila persone sono state
assassinate. Il grido di battaglia della Umkhonto we Sizwe è
indubbiamente, emblematico della realtà omicida che è oggi il Sudafrica
democratico.
Pur avendo scelto di non implementare l’agenda radicale
dell’ANC dagli anni ’50, Mandela ha sostenuto dei scribi socialisti
stravaganti e disprezzabili come la canadese Naomi Klein.
L’esigente signora Klein, autrice di No Logo: Taking Aim at the Brand
Bullies, avrebbe brillantemente accreditato a Mandela di aver
ridenominato il socialismo.
A parte la sua furba politica della terza via, Mandela è
tuttavia rimasto impegnato come i suoi predecessori politici nel promuovere la
pianificazione sociale su base razziale. «Un elemento importante della
nostra politica è la derazzializzazione dell’economia per garantire che (…)
nella sua proprietà e nella gestione, questa economia sempre più rifletta la
composizione razziale della nostra società. (…) La situazione non può essere
sostenibile in un futuro nel quale l’umanità si arrendesse al cosiddetto libero
mercato, con il governo a cui verrebbe negato il diritto di intervenire. (…)
L’evoluzione del sistema capitalistico nel nostro Paese ha messo sul più alto
piedistallo la promozione degli interessi materiali della minoranza bianca», ha
dichiarato alla cinquantesima Conferenza ANC, il 16 Dicembre 1997.
Sbagliato ‘Madiba’!. Se non altro, il capitalismo ha minato il
sistema delle caste del Paese. I capitalisti hanno sempre sfidato le leggi su
base razziale dell’apartheid a causa dei loro «interessi materiali». «Il più grande sconvolgimento industriale
della storia del Sud Africa», lo sciopero dei minatori del 1922, scoppiò
perché «la Camera delle Miniere annunciò l’intenzione di estendere l’uso dei
lavoratori neri. Nel 1920, le miniere d’oro impiegavano oltre ventunmila
bianchi (…) e quasi 180 mila neri». I minatori bianchi erano di gran lunga
più costosi dei minatori neri, e non molto più produttivi.
«Uno dei capi minerari, Sir Lionel Phillips, dichiarò
chiaro e tondo che i salari pagati ai minatori europei misero l’esistenza
economica delle miniere in pericolo. (…) I costi di produzione erano in aumento
così le case minerarie, interamente di proprietà inglesi e senza grandi
simpatie per la loro forza lavoro sempre più afrikaner, proposero di
abbandonare gli accordi esistenti con i sindacati bianchi e di aprire ai
lavoratori neri (…) nei lavori precedentemente riservati ai bianchi».
Ne seguì una piccola guerra. Il bigottismo portò a
spargimenti di sangue e alla dichiarazione della legge marziale. Anche se fu un
evento determinante negli annali del lavoro sudafricano, lo sciopero generale
esemplificò il modo in cui i capitalisti del Sud Africa lavorarono contro
l’apartheid per massimizzare il loro interesse. Mandela guarda chiaramente gli
affari attraverso la parte sbagliata del telescopio.
Problematico e troppo orwelliano è l’uso mandeliano della
parola ‘derazzializzazione’, quando ciò che in realtà stava descrivendo era
la prescrizione di una razzializzazione, uno Stato coercitivo in cui l’economia
è costretta, con le buone o con le cattive, a riflettere la composizione
razziale del Paese. Non a caso, il padre della ‘Rainbow Nation’ generò anche l’Employment
Equity Act. Ha visto l’ANC assumere la proprietà parziale degli
affari.
Il compagno d’armi di Mandela, il defunto Joe Slovo,
una volta parlò della natura della proprietà nel Nuovo Sud Africa. In
un’intervista con un giornalista liberal, questo leader dell’ANC e del
Partito Comunista suggerì una alternativa alla nazionalizzazione che
soprannominò ‘socializzazione’. Con una strizzatina d’occhio e un cenno del
capo, Slovo spiegò come lo Stato avrebbe da allora cominciato ad assumere il controllo
dell’economia “senza proprietà”:
«Lo Stato potrebbe approvare una legge per darne il
controllo, senza proprietà, può solo farlo. Si può dire che lo Stato ha il
diritto di prendere le seguenti decisioni sull’Anglo American [la grande
compagnia mineraria]. Si possono avere regolamenti e delle normativa del
genere, senza proprietà».
Tutto ciò è in corso in Sud Africa. Mandela ha
inoltre fornito la base intellettuale per questo catastrofico “socialismo
razziale” (chi può dimenticare come, nel Settembre del 1991, «Mr. Mandela
minacciò con la nazionalizzazione delle miniere e delle istituzioni
finanziarie gli affari sudafricani, a meno che questi non si fossero
realizzati con un’opzione alternativa verso la redistribuzione della ricchezza»?).
Se i valori che hanno guidato la governance di Mandela
possono essere scontati, allora è davvero possibile accreditargli una
agevola transizione senza una rivoluzione in Sud Africa. A differenza di
Mugabe, Mandela non ha nominato se stesso leader per la vita, ed è stato
l’unico capo di Stato nel continente ad aver ceduto il potere volontariamente
dopo un mandato. Se non scimmiotta i
ladri al potere in Africa ciò è una conquista, allora così sia.
Certo, Mandela ha anche tentato di mediare per la pace in
Africa. Ma «non molto tempo dopo
il suo rilascio dalla prigione», osserva l’assistente editorialista James
Kirchick su The New Republic, «Mr. Mandela ha iniziato a
flirtare con personaggi del calibro di Fidel Castro («viva il compagno Fidel
Castro!», disse in una manifestazione a L’Avana nel 1991), Muammar Gheddafi
(che visitò nel 1997, salutando il dittatore libico come «mio fratello
leader»), e Yasser Arafat («un compagno d’armi»).
Bisogna chiedersi, però, perché il signor Kirchick
finga di essere sorpreso e si senta tradito da tali dichiarazioni amorose
di Mandela. Mandela e l’ANC non hanno mai nascosto che erano in stretti
rapporti con dei regimi comunisti e terroristi: Castro, Gheddafi, Arafat, la
Corea del Nord e l’ulcerante Khamenei dell’Iran.
Tuttavia, e in quel momento, gli intellettuali pubblici
come Kirchick non pensavano affatto che il Sud Africa fosse stato consegnato
nelle mani di terroristi di professione, dei marxisti radicali. Chiunque
avesse suggerito una tale follia alla saggia Margaret Thatcher avrebbe
rischiato di prendere una borsettata. La Lady di ferro azzardò ad
affermare che il governo dell’ANC per il Sudafrica equivaleva a «vivere
in una terra di cuculi tra le nuvole».
A giudicare da come l’ANC è contro la
storia afrikaner del Paese, degli eroi, dei punti di riferimento
e di apprendimento, Mandela non ha trasmesso al partito politico che ha
creato una profonda comprensione delle istituzioni degli afrikaner. Di
recente, l’establishment locale ed internazionale ha inondato il signor Mandela
di molti elogi per aver mantenuto le potenti mascotte degli Springboks.
Gli Springboks sono la squadra nazionale di rugby del Sud
Africa campione del mondo. Non sembra dal film Invictus, “film
biografico ultra-riverente” di Clint Eastwood, ma Mandela non ha mai alzato la
sua voce autorevole contro i piani dell’ANC per forzare il gioco tradizionalmente
afrikaner affinché diventasse razzialmente rappresentativo. Al contrario,
l’assenza di visi pallidi tra i ‘Bafana Bafana’, l’altrettanto celebre squadra
di calcio nazionale del Sud Africa, non è riuscita a risvegliare simile impulsi
sulla pianificazione centrale del leader.
Mandela si è forse opposto agli attacchi incessanti
dell’ANC all’afrikaans come lingua di insegnamento nelle scuole afrikaner e
nelle università? O circa l’abbattimento sistematico delle comunità
agricole bianche? Quell’esempio di virtù di Mandela, ha forse chiesto
pubblicamente la fine di questi pogrom? Ha forse annullato una festa di
compleanno con il “vacuo jet set internazionale di ex-presidenti, politici
vuoti ed egocentrici, di starlette, di modelle sotto effetto della cocaina, di
musicisti intellettualmente e moralmente impegnati”? Ha forse chiamato ad una
giornata di preghiera (oops, lui è un ex-comunista)? No, no e ancora no.
A poco a poco il barbarico Sud Africa è stato smantellato
grazie al socialismo razziale ufficiale, a livelli osceni di criminalità
organizzata e disorganizzata, all’Aids, alla corruzione, e ad una cleptocrazia
in accrescimento. In risposta, le
persone sono state «imballate per Perth», o come direbbe Mandela, i «traditori»
sono stati spediti a Perth. Il South African Institute of Race Relations
(SAIRR) era giustamente sgomento nello scoprire che quasi un milione di bianchi
avevano già lasciato il Paese, la popolazione bianca si è ridotta da 5 milioni
e 215 mila abitanti nel 1995 a 4 milioni e 374 mila abitanti nel 2005 (quasi un
quinto di questa demografia).
Fra le ragioni addotte per l’esodo vi sono i crimini
violenti e le affirmative action. Ahimè, con la crescita della criminalità
il governo ha interrotto la raccolta delle statistiche necessarie per
l’emigrazione (la correlazione non è causale…). La stessa strategia è
stata inizialmente adottata per combattere il crimine fuori controllo:
sopprimere le statistiche.
I numeri esatti sono dunque sconosciuti. Quello che
si sa è che la maggior parte degli emigrati sono uomini bianchi qualificati.
Anche in un messaggio registrato Mandela li apostrofa come: «vigliacchi».
Ha accusato i bianchi di averlo tradito e di essere «traditori».
‘Madiba’ ha lottato con questo problema, forse erano meritevoli di assistere
alle mostruose statue erette in suo onore. Anche queste sono nella tradizionale
estetica realista socialista.
SALUTO AL MASCHIO
ALFA
Torniamo alla domanda iniziale: perché i leader del Paese
più potente del continente (Mandela e Mbeki) soccorrono il leader del più
corrotto (Mugabe)? I luminari della società del caffé occidentale non sono
stati gli unici ad aver approvato Mugabe. Così fecero i neri. «Quando Mugabe
macellò 20 mila persone di colore nel sud Zimbabwe nel 1983 nessuno al di
fuori dello Zimbabwe, tra cui l’ANC, vi diede la minima attenzione. Né si
preoccuparono quando, dopo il 2000, guidò migliaia di lavoratori agricoli neri
via dai loro mezzi di sussistenza, commettendo innumerevoli atrocità contro la
popolazione nera. Ma quando ha ucciso una dozzina di agricoltori bianchi e
spinto altri fuori dai loro poderi, ha provocato grande eccitazione»,
osserva l’editorialista Andrew Kenny.
Facendo con la forza il fighetto, Mugabe ha cementato il
suo status di eroe attivista tra i neri e i sicofanti bianchi in Sud Africa,
Stati Uniti ed Inghilterra. «Ogni
volta che c’è un programma sudafricano sullo Zimbabwe al telefono in
radio [sic], i sudafricani bianchi e i neri dello Zimbabwe
denunciano Mugabe, mentre i sudafricani neri lo applaudono. Pertanto la
teoria è che Mbeki non poteva permettersi di criticare [sic] Mugabe», il
quale è venerato e mai insultato dai neri sudafricani.
Il giornalista di sinistra liberal John Pilger e
l’editorialista liberale classico Andrew Kenny concordano: nei bar dello
Zimbabwe, i neri in Africa ed altrove, hanno un debole per Mugabe. Pur
evidenziando le denunce sul despota, Pilger chiarisce che Mugabe è solo un
ingranaggio di una vera e propria «guerra silenziosa sull’Africa»,
combattuta dai borghesi, da uomini d’affari neo-coloniali e dai loro
intermediari nei governi occidentali.
Dal suo comodo trespolo in Inghilterra, questo fan di
Hugo Chávez predica contro il colonialismo e il capitalismo. Scrivendo sul Mail
& Guardian online, Pilger scioglie il mistero di Mbeki e il suo
rapporto intimo con Mugabe: «quando Robert Mugabe partecipò alla cerimonia
per il secondo mandato di Thabo Mbeki come presidente del Sud Africa, la folla
nera ha riservato al dittatore dello Zimbabwe una standing ovation». Questa
è una «espressione simbolica di apprezzamento per un leader africano che
molti neri poveri ritengono abbia dato a quegli avidi
dei bianchi, con lungo ritardo, solo una giusta punizione».
Gli uomini forti del Sudafrica stanno salutando il loro
maschio alfa, Mugabe, implementando una versione slow-motion del suo programma.
«E’ sufficiente guardare al presente dello Zimbabwe se volete vedere il
futuro del Sud Africa», avverte Kenny. «Quando Mugabe ha preso il
potere nel 1980, c’erano circa 300 mila bianchi in Zimbabwe. Ai sensi delle
purghe condotte dal leader e dal suo popolo, oggi rimangono meno di
20 mila bianchi; di questi, solo 200 sono agricoltori, il 5% del totale otto
anni fa».
Sebbene la maggior parte dei terreni agricoli in Sud
Africa siano ancora di proprietà dei bianchi, il governo intende cambiare il
paesaggio di proprietà terriera entro il 2014. «Finora la compravendita
della terra si basava su un’acquirente disposto e un venditore disponibile, i
funzionari hanno però segnalato che le espropriazioni su larga scala sono
possibili».
In Sud Africa il principale strumento di trasformazione è
il Black Economic Empowerment (Bee). Ciò richiede ai bianchi di consegnare
grandi blocchi di proprietà d’aziende ai neri e di cedere a loro i migliori
posti di lavoro. Quasi tutti i neri così arricchitisi appartengono ad una
piccola élite collegata all’ANC. Il Bee sta già accadendo nelle miniere,
nelle banche e nelle fabbriche.
In altre parole, un programma simile a quello di Mugabe è
già in corso in Sud Africa. Solo che non è così tranquillo e pacifico. I
sudafricani stanno morendo in massa, una realtà che l’affabile Mandela,
l’imperioso Mbeki, e il loro successore Zuma hanno accettato senza pietà e
compassione.
Fonte: visto su L’Indipendenza del 7 dicembre 2013
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