La civiltà che gli italiani stanno cercando di salvare
Le sepolture sono sugli strati più alti dell’argilla che
copre i resti della città. Uno scheletro di maschio adulto in posizione fetale
con un bicchiere di ceramica ancora stretto nel pugno destro. Un infante
riposto in una culla di giunchi. Un sarcofago spezzato, probabilmente da
tombaroli, già in epoca molto antica. Segno che non vi fu un epilogo violento.
Non ci furono assedi epici, non battaglie finali all’ultimo sangue. Non si
vedono resti di incendi, le case non furono distrutte, non ci fu massacro di
massa come a Ebla o a Troia. Semplicemente gli abitanti se ne andarono via in
modo progressivo e forse nell’arco di pochi decenni. Restarono solo i cimiteri,
le anfore funerarie piene di granaglie a garantire l’estremo viaggio dei
defunti. E gli ultimi vivi, che fu di loro? Cosa li spinse a partire?
Difficile capire come decade una civiltà antica, ancora di
più comprenderne le cause. Di recente due noti archeologi americani, Harvey
Weiss e Raymond Bradley, hanno notato in un saggio intitolato What Drives Societal Collapse? («Che
cosa provoca il collasso delle civiltà?») che la fine può essere relativamente
veloce anche per civiltà durate parecchi secoli. E le cause scatenanti
andrebbero ricercate nei cambiamenti climatici. Fu forse così per i cacciatori nomadi
nell’Asia sud-occidentale, spinti a diventare sedentari verso la fine
dell’ultima glaciazione importante, 11 mila anni fa? Così per i popoli nelle
valli dell’Indo, 8 mila anni dopo? Per i «granai» della Roma imperiale nel Nord
Africa sempre più arido nei primi secoli dell’era cristiana?
Uno studioso italiano sostiene con loro che anche la
civiltà sumera potrebbe essere decaduta per motivi ambientali. I muri a secco
di Abu Tbeirah, nell’area di Nassiriya, quando vengono portati all’aria aperta,
tendono a disfarsi rapidamente. Pioggia, vento e sole erodono facilmente le
strutture non fatte di pietra, antiche in certi casi ben più di 4500 anni. Ma
le ceramiche restano, così i perimetri delle abitazioni, i pavimenti, le ossa,
le strutture dei sistemi di drenaggio dell’acqua, i vasi e i cocci.
Franco
D’Agostino, docente di Assirologia all’Università la Sapienza di Roma, guarda
la decina di operai iracheni che scavano tra il fango, che ha invaso la pianura
piatta e monotona tutt’attorno al sito dove dirige gli scavi. Grandi
pozzanghere circondate da cespugli bassi: ci vorrà tempo prima che il sole
asciughi i resti delle piogge recenti. Da aprile a settembre qui i 50 gradi
sono la regola, il deserto impera, ma da novembre a marzo possono scoppiare
all’improvviso acquazzoni furiosi. «È la natura allo stato estremo che si
manifesta periodicamente su uomini e cose della Mesopotamia. Oggi, come ai
tempi dei Sumeri», dice a «la Lettura». E non sono parole dettate solo dalle
circostanze immediate. Il recente uragano nelle Filippine, i dibattiti
sull’effetto serra e l’innalzamento dei mari, oltre a quelli sulle
responsabilità dell’uomo nei cambiamenti della natura, ovviamente fanno da
sottofondo.
Non è strano che storici e studiosi delle civiltà
antiche vadano sempre più cercando un nesso con i mutamenti ambientali. Ma nel
suo caso è da quando iniziò a occuparsi della storia dei Sumeri, una trentina
d’anni or sono, che ha ben presente questa tematica. Qui fu collocato il
Diluvio Universale e vennero per la prima volta raccontate nella grafia
cuneiforme le conseguenze drammatiche delle grandi siccità. «Non voglio
sembrare un determinista a tutti i costi. Ma ritengo che proprio i cambiamenti
climatici siano stati una delle cause della decadenza e poi dell’estinzione della
cultura sumerica alla fine del terzo millennio avanti Cristo», sostiene
D’Agostino.
Le prove più
importanti? «Ne ho almeno tre», risponde. «Sappiamo che attorno al 2400
a.C. l’eruzione violenta di un vulcano sull’altopiano anatolico spinse diverse
popolazioni esterne alla Mesopotamia a emigrare verso i campi irrigati della
Mezzaluna Fertile. Abbiamo trovato cospicue tracce di cenere negli strati del
terreno risalenti a quel periodo in un’area molto vasta. Arrivarono allora
gruppi diversi, gli Amorrei e i Gutei tra loro, che spinsero al collasso la
civiltà accadica, la quale a sua volta aveva invaso i Sumeri. Per di più venne
scavata una fitta rete di canali nel Nord della Mesopotamia, a settentrione
dell’odierna Bagdad, che contribuì all’impoverimento dei canali costruiti più a
sud dai Sumeri e probabilmente accelerò il processo di salinizzazione dei
terreni, causando la crisi dell’agricoltura nel meridione. In meno di un secolo
la produzione agricola dei Sumeri scese di due terzi. Infine va annoverata tra
le cause la gravissima siccità, durata forse duecento anni».
Il risultato fu catastrofico. In pochi decenni venne
meno quello che era stato uno dei fattori vincenti del trionfo dei Sumeri: la
capacità cioè di creare un’organizzazione sociale finalizzata ad avere a
disposizione larghe masse di popolazione in grado di non dover lavorare per il
proprio sostentamento, bensì dedicarsi alle grandi opere pubbliche quali i
canali. A ciò si aggiunse un altro grave fenomeno di lunga durata: il ritiro
progressivo del mare. In quello stesso periodo si insabbiano i due porti di Ur,
rallentando i commerci via nave con le Indie e l’Africa. Carenza d’acqua,
avvelenamento dei campi, crisi commerciale per l’allontanamento del mare,
sovrappopolazione, interramento dei canali, temperature medie in salita, fame:
basta e avanza per descrivere il disastro ecologico in una società interamente
fondata sull’agricoltura. Probabilmente non è un caso che già nell’epopea di
Gilgamesh la siccità venisse descritta come la vendetta del «Toro Celeste». Un
evento terribile, divino e inarrestabile. Una piaga destinata a ridurre
brutalmente il numero degli abitanti della Terra.
D’Agostino, prima
che archeologo, è filologo specializzato in sumerologia (suo Gilgamesh alla
conquista dell’immortalità, pubblicato nel 1997). «Nel ciclo epico sumerico -
aggiunge - la siccità è raccontata quale strumento della vendetta della dea
Inanna ai danni di Gilgamesh e la sua città, Uruk. Circa mille anni dopo il
celebre poema assiro-babilonese Atram-Hasis (in italiano Colui che è
straordinaria mente saggio ) canta invece il Diluvio Universale descritto come
punizione degli dei contro gli uomini diventati troppo numerosi, tali da
disturbare il sonno del capo del pantheon, Enlil».
Le catastrofi naturali sono narrate dunque come
immanenti alla realtà degli uomini, tanto minacciose che persino nella culla
della civiltà, tra il Tigri e l’Eufrate, assurgono a un ruolo fondamentale
nella mitologia. I due fiumi tra l’altro appaiono causa di costante preoccupazione.
I loro flussi sono molto meno regolari di quelli del Nilo. Le piene, che in
Egitto portano limo e ricchezza, in Mesopotamia fanno paura. Le fonti del Tigri
e dell’Eufrate, sulle montagne nevose della Turchia, si rivelano molto più
imprevedibili che non quelle del Nilo, moderate dai grandi laghi dell’Africa
centrale. Si spiegherebbero così anche le cause del progressivo spopolamento di
Abu Tbeirah (letteralmente in arabo «quelli della piccola ascia»), il sito
archeologico sette chilometri a sud di Nassiriya e a sedici dall’antica Ur dei
Caldei.
Da tre anni vi lavorano una decina di archeologi
dell’università romana sotto la direzione di D’Agostino, grazie anche ai
finanziamenti del ministero degli Esteri italiano e a donazioni private. Questi
sono in coordinamento con le autorità irachene, che vorrebbero fare di Ur e dei
siti limitrofi un grande parco archeologico aperto ai turisti di tutto il
mondo.
«Il governo di Bagdad ha già destinato 600 milioni di dollari. Contiamo
molto sul contributo dei ricercatori italiani», sostiene il nuovo governatore
di Nassiriya, il quarantaseienne Yahia al Nasri. Lo scavo è ampio 46 ettari.
Una zona relativamente grande e ben identificabile grazie alle immagini riprese
dal cielo. È attraversata da un gasdotto della compagnia nazionale irachena, la
cui costruzione ha causato gravi devastazioni ai reperti. Però non ha intaccato
il letto dell’antico canale artificiale scavato nel terzo millennio avanti
Cristo, che presumibilmente collegava questa città a Ur, partendo dall’Eufrate
e gettandosi nel Tigri. Non ci sono ancora prove archeologiche, ma, se così
fosse, sarebbe lungo almeno una cinquantina di chilometri. «Il canale funzionò
per quasi cinque secoli. Poi, verso il 2200, si insabbiò. E la sua fine portò
alla morte della città. Divenne impossibile coltivare, viaggiare, vivere»,
dicono i ricercatori italiani.
La vicina Ur era molto più importante e infatti
venne abitata a lungo, sino a essere occupata dagli Assiro-Babilonesi. Ma
allora i Sumeri erano già estinti. Più tardi vi furono alcuni tentativi di
rinascita, tutti falliti nell’arco di pochi anni. «La mia ipotesi è che qui
fosse situata la mitica Eneghi, citata in alcuni testi classici sumerici del
terzo millennio, dove si racconta del viaggio del dio Nannar, originario di Ur,
in visita al capo del pantheon, suo padre. Se così fosse, potremmo ritrovare
anche il tempio dedicato a Ninazu, la divinità dell’oltretomba nella fase più
arcaica della cultura sumerica», sostiene il capo missione dopo gli ultimi tre
mesi di attività sul campo. Tra gli obiettivi principali della sua ricerca
resta quello di individuare testi scritti che possano narrare gli ultimi anni
della città. Gli scavi riprenderanno il prossimo settembre.
Fonte: visto su CORRIERE DELLA SERA.it, cultura; del 1 dicembre 2013
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