venerdì 6 dicembre 2013

L’APOCALISSE DEI SUMERI DOPO ERUZIONI VULCANICHE, SICCITÀ, DESERTIFICAZIONE.



La civiltà che gli italiani stanno cercando di salvare

Le sepolture sono sugli strati più alti dell’argilla che copre i resti della città. Uno scheletro di maschio adulto in posizione fetale con un bicchiere di ceramica ancora stretto nel pugno destro. Un infante riposto in una culla di giunchi. Un sarcofago spezzato, probabilmente da tombaroli, già in epoca molto antica. Segno che non vi fu un epilogo violento. Non ci furono assedi epici, non battaglie finali all’ultimo sangue. Non si vedono resti di incendi, le case non furono distrutte, non ci fu massacro di massa come a Ebla o a Troia. Semplicemente gli abitanti se ne andarono via in modo progressivo e forse nell’arco di pochi decenni. Restarono solo i cimiteri, le anfore funerarie piene di granaglie a garantire l’estremo viaggio dei defunti. E gli ultimi vivi, che fu di loro? Cosa li spinse a partire? 


Difficile capire come decade una civiltà antica, ancora di più comprenderne le cause. Di recente due noti archeologi americani, Harvey Weiss e Raymond Bradley, hanno notato in un saggio intitolato What Drives Societal Collapse? («Che cosa provoca il collasso delle civiltà?») che la fine può essere relativamente veloce anche per civiltà durate parecchi secoli. E le cause scatenanti andrebbero ricercate nei cambiamenti climatici. Fu forse così per i cacciatori nomadi nell’Asia sud-occidentale, spinti a diventare sedentari verso la fine dell’ultima glaciazione importante, 11 mila anni fa? Così per i popoli nelle valli dell’Indo, 8 mila anni dopo? Per i «granai» della Roma imperiale nel Nord Africa sempre più arido nei primi secoli dell’era cristiana?




Uno studioso italiano sostiene con loro che anche la civiltà sumera potrebbe essere decaduta per motivi ambientali. I muri a secco di Abu Tbeirah, nell’area di Nassiriya, quando vengono portati all’aria aperta, tendono a disfarsi rapidamente. Pioggia, vento e sole erodono facilmente le strutture non fatte di pietra, antiche in certi casi ben più di 4500 anni. Ma le ceramiche restano, così i perimetri delle abitazioni, i pavimenti, le ossa, le strutture dei sistemi di drenaggio dell’acqua, i vasi e i cocci. 
Franco D’Agostino, docente di Assirologia all’Università la Sapienza di Roma, guarda la decina di operai iracheni che scavano tra il fango, che ha invaso la pianura piatta e monotona tutt’attorno al sito dove dirige gli scavi. Grandi pozzanghere circondate da cespugli bassi: ci vorrà tempo prima che il sole asciughi i resti delle piogge recenti. Da aprile a settembre qui i 50 gradi sono la regola, il deserto impera, ma da novembre a marzo possono scoppiare all’improvviso acquazzoni furiosi. «È la natura allo stato estremo che si manifesta periodicamente su uomini e cose della Mesopotamia. Oggi, come ai tempi dei Sumeri», dice a «la Lettura». E non sono parole dettate solo dalle circostanze immediate. Il recente uragano nelle Filippine, i dibattiti sull’effetto serra e l’innalzamento dei mari, oltre a quelli sulle responsabilità dell’uomo nei cambiamenti della natura, ovviamente fanno da sottofondo.

Non è strano che storici e studiosi delle civiltà antiche vadano sempre più cercando un nesso con i mutamenti ambientali. Ma nel suo caso è da quando iniziò a occuparsi della storia dei Sumeri, una trentina d’anni or sono, che ha ben presente questa tematica. Qui fu collocato il Diluvio Universale e vennero per la prima volta raccontate nella grafia cuneiforme le conseguenze drammatiche delle grandi siccità. «Non voglio sembrare un determinista a tutti i costi. Ma ritengo che proprio i cambiamenti climatici siano stati una delle cause della decadenza e poi dell’estinzione della cultura sumerica alla fine del terzo millennio avanti Cristo», sostiene D’Agostino.

Le prove più importanti? «Ne ho almeno tre», risponde. «Sappiamo che attorno al 2400 a.C. l’eruzione violenta di un vulcano sull’altopiano anatolico spinse diverse popolazioni esterne alla Mesopotamia a emigrare verso i campi irrigati della Mezzaluna Fertile. Abbiamo trovato cospicue tracce di cenere negli strati del terreno risalenti a quel periodo in un’area molto vasta. Arrivarono allora gruppi diversi, gli Amorrei e i Gutei tra loro, che spinsero al collasso la civiltà accadica, la quale a sua volta aveva invaso i Sumeri. Per di più venne scavata una fitta rete di canali nel Nord della Mesopotamia, a settentrione dell’odierna Bagdad, che contribuì all’impoverimento dei canali costruiti più a sud dai Sumeri e probabilmente accelerò il processo di salinizzazione dei terreni, causando la crisi dell’agricoltura nel meridione. In meno di un secolo la produzione agricola dei Sumeri scese di due terzi. Infine va annoverata tra le cause la gravissima siccità, durata forse duecento anni».

Il risultato fu catastrofico. In pochi decenni venne meno quello che era stato uno dei fattori vincenti del trionfo dei Sumeri: la capacità cioè di creare un’organizzazione sociale finalizzata ad avere a disposizione larghe masse di popolazione in grado di non dover lavorare per il proprio sostentamento, bensì dedicarsi alle grandi opere pubbliche quali i canali. A ciò si aggiunse un altro grave fenomeno di lunga durata: il ritiro progressivo del mare. In quello stesso periodo si insabbiano i due porti di Ur, rallentando i commerci via nave con le Indie e l’Africa. Carenza d’acqua, avvelenamento dei campi, crisi commerciale per l’allontanamento del mare, sovrappopolazione, interramento dei canali, temperature medie in salita, fame: basta e avanza per descrivere il disastro ecologico in una società interamente fondata sull’agricoltura. Probabilmente non è un caso che già nell’epopea di Gilgamesh la siccità venisse descritta come la vendetta del «Toro Celeste». Un evento terribile, divino e inarrestabile. Una piaga destinata a ridurre brutalmente il numero degli abitanti della Terra.

D’Agostino, prima che archeologo, è filologo specializzato in sumerologia (suo Gilgamesh alla conquista dell’immortalità, pubblicato nel 1997). «Nel ciclo epico sumerico - aggiunge - la siccità è raccontata quale strumento della vendetta della dea Inanna ai danni di Gilgamesh e la sua città, Uruk. Circa mille anni dopo il celebre poema assiro-babilonese Atram-Hasis (in italiano Colui che è straordinaria mente saggio ) canta invece il Diluvio Universale descritto come punizione degli dei contro gli uomini diventati troppo numerosi, tali da disturbare il sonno del capo del pantheon, Enlil».

Le catastrofi naturali sono narrate dunque come immanenti alla realtà degli uomini, tanto minacciose che persino nella culla della civiltà, tra il Tigri e l’Eufrate, assurgono a un ruolo fondamentale nella mitologia. I due fiumi tra l’altro appaiono causa di costante preoccupazione. I loro flussi sono molto meno regolari di quelli del Nilo. Le piene, che in Egitto portano limo e ricchezza, in Mesopotamia fanno paura. Le fonti del Tigri e dell’Eufrate, sulle montagne nevose della Turchia, si rivelano molto più imprevedibili che non quelle del Nilo, moderate dai grandi laghi dell’Africa centrale. Si spiegherebbero così anche le cause del progressivo spopolamento di Abu Tbeirah (letteralmente in arabo «quelli della piccola ascia»), il sito archeologico sette chilometri a sud di Nassiriya e a sedici dall’antica Ur dei Caldei.
Da tre anni vi lavorano una decina di archeologi dell’università romana sotto la direzione di D’Agostino, grazie anche ai finanziamenti del ministero degli Esteri italiano e a donazioni private. Questi sono in coordinamento con le autorità irachene, che vorrebbero fare di Ur e dei siti limitrofi un grande parco archeologico aperto ai turisti di tutto il mondo. 
«Il governo di Bagdad ha già destinato 600 milioni di dollari. Contiamo molto sul contributo dei ricercatori italiani», sostiene il nuovo governatore di Nassiriya, il quarantaseienne Yahia al Nasri. Lo scavo è ampio 46 ettari. Una zona relativamente grande e ben identificabile grazie alle immagini riprese dal cielo. È attraversata da un gasdotto della compagnia nazionale irachena, la cui costruzione ha causato gravi devastazioni ai reperti. Però non ha intaccato il letto dell’antico canale artificiale scavato nel terzo millennio avanti Cristo, che presumibilmente collegava questa città a Ur, partendo dall’Eufrate e gettandosi nel Tigri. Non ci sono ancora prove archeologiche, ma, se così fosse, sarebbe lungo almeno una cinquantina di chilometri. «Il canale funzionò per quasi cinque secoli. Poi, verso il 2200, si insabbiò. E la sua fine portò alla morte della città. Divenne impossibile coltivare, viaggiare, vivere», dicono i ricercatori italiani.

La vicina Ur era molto più importante e infatti venne abitata a lungo, sino a essere occupata dagli Assiro-Babilonesi. Ma allora i Sumeri erano già estinti. Più tardi vi furono alcuni tentativi di rinascita, tutti falliti nell’arco di pochi anni. «La mia ipotesi è che qui fosse situata la mitica Eneghi, citata in alcuni testi classici sumerici del terzo millennio, dove si racconta del viaggio del dio Nannar, originario di Ur, in visita al capo del pantheon, suo padre. Se così fosse, potremmo ritrovare anche il tempio dedicato a Ninazu, la divinità dell’oltretomba nella fase più arcaica della cultura sumerica», sostiene il capo missione dopo gli ultimi tre mesi di attività sul campo. Tra gli obiettivi principali della sua ricerca resta quello di individuare testi scritti che possano narrare gli ultimi anni della città. Gli scavi riprenderanno il prossimo settembre. 



Fonte: visto su CORRIERE DELLA SERA.it, cultura;  del 1 dicembre 2013


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