(Prima Parte)
Secondo il medico tedesco Ryke Geerd Hamer, l’eziologia delle malattie va ricercata nella psiche. Dai suoi studi, egli giunge alla conclusione che l’inizio del processo di malattia è rappresentato da un evento shockante, che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, da lui definito Sindrome di Dirk Hamer (DHS).
Il lavoro di Hamer s’inserisce all’interno dello storico filone di ricerca psicosomatico, ma le conclusioni a cui arriva completano così tanto il quadro da andare a ridefinire nella sostanza il concetto stesso di malattia. La reazione del mondo accademico non fu favorevole, ma le recenti acquisizioni della neurobiologia spiegano esattamente cosa succede a livello psichico, cerebrale ed organico durante la DHS e come mai la tutta ricerca sullo stress abbia fallito, mantenendo i ricercatori all’interno dell’antica convinzione della malattia come “errore della natura”.
Dott. Danilo Toneguzzi, psichiatra, psicoterapeuta; presidente Comitato Scientifico di ALBA (Associazione Leggi Biologiche Applicate)
L’ORIGINE DELLA MALATTIA.
Nel 1981 il dott. Hamer condensò nella “Legge ferrea del cancro” la prima legge biologica da lui scoperta: ogni programma speciale, biologico e sensato (SBS) inizia con una DHS (Sindrome di Dirk Hamer), cioè con uno shock conflittuale gravissimo, inaspettato, altamente drammatico e vissuto nell’isolamento (Hamer, 1981). La scoperta che le malattie corrispondono ad un processo biologico con una sequenza di fasi ben precise (programma SBS) e che sono causate da un evento psichico con determinate caratteristiche (DHS) ha posto le basi per una nuova comprensione della genesi della malattia e per un definitivo superamento del dualismo tra mente e corpo.
Con la formulazione della legge ferrea del cancro, il dott. Hamer ha posto una pietra miliare verso un cambio di paradigma, una vera e propria rivoluzione copernicana che ha permette finalmente di poter dare risposte molte più esaustive alla domanda che dalla notte dei tempi l’uomo si pone, cioè: “Perché ci si ammala?”, e che ridefinisce la malattia, nella sua sostanza, come evento sensato dell’organismo, e non come un evento “sbagliato” come si era, invece, sempre pensato.
DHS è l’acronimo di Sindrome di Dirk Hamer, nome che il dott. Hamer diede all’evento che lo colpi personalmente nel 1978, quando suo figlio fu ucciso e che, in seguito, gli causò un cancro al testicolo. La DHS è un evento che colpisce l’individuo in maniera inaspettata, uno shock acuto, drammatico che lo coglie in contropiede e che da luogo ad una cascata di eventi biologici; tra l’altro, tali conseguenze, attivate dalla DHS, da sempre indicate con i termini di “sintomi” o “malattia”, non sono casuali ma seguono una sequenza precisa andando a costituire un processo biologico denominato, invece, dal dott. Hamer “Programma SBS”, dove SBS sta per “sensato”, “biologico” e “speciale”.
La DHS, quindi, da avvio ad un programma SBS; in altri termini, uno shock inaspettato determina l’attivazione di un funzionamento normalmente inteso come patologico dell’organismo. Per dirla in termini ancora diversi, un evento psichico sta alla base e determina un evento fisico e quindi la malattia è la precisa espressione sul corpo di un preciso evento emotivo.
Le conclusioni a cui giunge Hamer si inseriscono all’interno di un lungo filone di ricerca e ne completano magistralmente il quadro; ma vediamo, nello specifico, come è avvenuto tutto ciò.
ANTECEDENTI NELLA LETTERATURA DEL NOVECENTO.
Nella letteratura scientifica e tradizionale, l’idea di una correlazione tra eventi emotivi e malattie, in realtà, viene da molto lontano, soprattutto da quando, nel secolo scorso, si è aperto un filone di ricerca in merito allo “stress” e alle sue conseguenze sulla salute. Pioniere di tale filone fu Hans Selye il quale, scrivendo una lettera alla rivista “Nature” già nel 1936 diede avvio a questo campo d’indagine che, a tutt’oggi, si stima abbia prodotto non meno di 150.000 pubblicazioni (Favretto, 1994). Gli studi sullo stress, infatti, iniziati da Selye ma proseguiti successivamente da altri numerosissimi ricercatori, rappresentano i pilastri delle concezioni da cui si è sviluppata la Medicina Psicosomatica in tutta la seconda metà del Novecento. Ma il successo della Medicina Psicosomatica rimane a tutt’oggi quanto mai controverso: nonostante una serie di acquisizioni più o meno accettate, lascia aperti alcuni interrogativi fondamentali. Ad esempio, come si spiega la scelta dell’organo? Cioè, perché lo stress determinerebbe in alcuni soggetti una dermatite ed in altri un’asma? Oppure, perché determinati soggetti, visibilmente stressati, non si ammalano? E perché qualcuno, pur conducendo una vita, tutto sommato, tranquilla, sviluppa un tumore? Ed infine, perché spesso si può notare che le persone non si ammalano sotto stress, ma quando lo stress finisce, come ad esempio nel caso dell’emicrania da week-end o nel caso in cui gli individui si ammalano quando vanno in vacanza? A questi interrogativi la medicina psicosomatica non è mai riuscita a dare delle risposte precise e univoche.
In ogni caso, gli antecedenti delle acquisizioni che connettono gli eventi psichici agli eventi fisici vanno ricercati già all’inizio del secolo scorso. Un contributo fondamentale avvenne ad opera di Walter Cannon, il quale diede una svolta fondamentale nella comprensione dei meccanismi di funzionamento dell’organismo formulando la teoria dell’omeostasi (Cannon, 1932). Nel continuo rapporto con l’ambiente in cui è immerso, cioè, l’organismo vivente è impegnato incessantemente nel mantenere costanti le condizioni del suo ambiente interno: l’omeostasi, quindi, è, al tempo stesso un mezzo ed un fine per la sopravvivenza degli individui. In questo processo di continuo adattamento, l’organismo interviene sull’ambiente e reagisce ad esso per mantenere l’equilibrio. Cannon identificò tra queste reazioni dell’organismo impegnato nel processo di adattamento una specifica forma che chiamò reazione d’allarme, ovvero una risposta automatica che viene attivata in determinate condizioni particolari. Egli aveva messo in evidenza, ad esempio, come un incremento della secrezione di adrenalina e noradrenalina da parte della porzione midollare delle ghiandole surrenali avesse una funzione indispensabile, anche negli animali, nel predisporre l’organismo a comportamenti di attacco e di fuga. Tale reazione si accompagna, infatti, all’aumento della pressione sanguigna, all’incremento della frequenza cardiaca, alla vasocostrizione periferica, alla dilatazione pupillare, alla riduzione della salivazione, all’incremento della funzionalità respiratoria, all’aumento della sudorazione, ecc (Cannon, 1929).
LA RICERCA SULLO STRESS.
Selye, il ricercatore che, come detto poc’anzi, aprì la strada a tutto il filone di ricerca sullo stress e sul concetto di psicosomatica, scoprì successivamente che le reazioni fisiologiche studiate da Cannon non erano le uniche manifestate da un organismo in difficoltà ma che costituivano una concatenazione di eventi omeostatici e modificazioni fisiologiche nella funzione di adattamento di cui la reazione d’allarme non è che il primo passo. Per questo, prendendo a prestito un termine dalla metallurgia che indicava gli effetti delle grandi pressioni sui metalli, Selye denominò stress quel insieme di modificazioni a carico dell’organismo e, più specificatamente, Sindrome Generale di Adattamento quel processo, articolato in tre fasi e finalizzato all’adattamento, scatenato da stimoli stressanti di natura diversa (Selye, 1936).
Per Selye, lo stress è “una risposta generale, aspecifica dell’organismo a qualsiasi richiesta proveniente dall’ambiente” (Selye, 1974).
Il concetto fondamentale consiste nell’evidenziare qualcosa che avviene generalmente, in modo aspecifico, indipendentemente dalla natura dello stimolo. Da questo punto di vista, la teoria della Sindrome Generale di Adattamento di Selye fu estremamente innovativa: con il suo carattere aspecifico venne messa in luce l’esistenza di un meccanismo che elude la tradizionale visione che un effetto, una risposta biologica, sia sempre riconducibile ad una sola causa. Tradizionalmente, infatti, si era portati a ritenere che la risposta dell’organismo fosse specifica al tipo di richiesta: ad esempio la sudorazione come reazione al caldo, il brivido come risposta al freddo e così via. Selye, invece, enfatizza una risposta aspecifica, una sindrome generale che ha la funzione di favorire l’adattamento dell’organismo ad uno stimolo “stressante”, indipendentemente dalla sua natura, dove la reazione d’allarme di Cannon rappresenta solo il primo passo.
Passo dopo passo, le considerazioni di Selye giunsero a considerare lo stress come un fenomeno naturale e fisiologico e, come tale, qualcosa che non può e non deve essere evitato: “La completa libertà dallo stress è la morte. Contrariamente a quello che si pensa solitamente, non dobbiamo e, in realtà, non possiamo evitare lo stress, ma possiamo incontrarlo in modo efficace e trarne vantaggio imparando di più sui suoi meccanismi, ed adattando la nostra filosofia dell’esistenza ad esso” (Selye, 1974)
Mosso dalle sue osservazioni, Selye tentò di interpretare in modo semplice la concatenazione di eventi biologici, di meccanismi e di risposte che, se da un lato si connettevano alle scoperte di Cannon sulla generale reazione d’allarme e sull’idea dell’organismo impegnato costantemente nella funzione omeostatica e di adattamento, dall’altro non apparivano giustificabili nell’ambito di una scienza biomedica che in quei tempi si sosteneva in modo molto strutturato sullo studio delle manifestazioni patologiche come effetti specifici di cause specifiche. Pertanto l’obiettivo che coinvolse Selye fino alla fine fu quello di ricercare quel principio o quella sostanza biochimica in grado di giustificare quel complesso di reazioni che lui aveva considerate generalizzate e sintoniche in grado di presentarsi stereotipate anche di fronte a richieste e a stimoli ambientali (nocivi e non) ampiamente diversi. Questo ipotetico “first mediator”, come lo definì Selye, o “mediatore unico” era quella sostanza, presente in tutti i tipi di stress, in grado di giustificare e di spiegare una così ampia e variegata gamma di cambiamenti: una sostanza in grado di scatenare la medesima Sindrome Generale di Adattamento da stimoli molto diversi. In primis egli identificò questo mediatore unico nell’ormone adrenocorticotropo ACTH, che sembrava essere presente in tutte le risposte di stress negli animali da laboratorio; successivamente, però, dal momento che l’ACTH è presente prevalentemente in una delle tre fasi della sindrome, Selye ipotizzò che probabilmente il mediatore unico andava ricercato nelle sostanze che negli anni Ottanta vennero isolate nel cervello, le encefalite e le endorfine.
Nello specifico, la Sindrome Generale di Adattamento descritta da Selye si articola in tre fasi fondamentali.
La prima fase s’identifica con la reazione di allarme scoperta da Cannon e denominata anche da Selye, per l’appunto, fase d’allarme. Essa è caratterizzata dalle attivazioni del sistema neurovegetativo, di tipo adrenergico, in cui la secrezione delle principali catecolamine, adrenalina e noradrenalina, permette una rapida reazione del sistema nervoso autonomo simpatico. Adrenalina e noradrenalina, infatti, sono due ormoni secreti dalla midollare del surrene che vengono utilizzati quali mediatori intersinaptici nel sistema simpatico e che permettono un’immediata risposta del nostro organismo ad uno stimolo stressante. La fase d’allarme, tra l’altro, viene suddivisa da Selye in due sottofasi: la fase dello shock, che corrisponde ad un’iniziale caduta al di sotto del livello fisiologico di funzionamento dell’organismo, e quella di controshock, che corrisponde, di fatto al secondo momento, reattivo, nel quale si attiva il sistema simpatico grazie l’intervento delle catecolamine. In ogni caso, la fase di allarme è necessariamente rapida ed immediata, ma anche labile, vista la velocità con la quale adrenalina e noradrenalina vengono metabolizzate.
La fase successiva della Sindrome Generale di Adattamento è chiamata da Selye fase di resistenza. Questa fase ha una durata maggiore ed è sostenuta da fenomeni endocrini in cui l’ACTH ed altri ormoni adenoipofisari, cioè della porzione anteriore dell’ipofisi, hanno una funzione fondamentale. Se, quindi, nella risposta ormonale immediata della fase d’allarme viene sollecitata la midollare del surrene, nella fase di resistenza è la parte corticale del surrene ad essere interessata, con il rilascio degli ormoni glucocorticoidi, in particolare del cortisolo. L’effetto di tali ormoni è sempre quella, come nel caso delle catecolamine, di mantenere alta l’attivazione del sistema nervoso simpatico, che predispone l’organismo alle azioni necessarie ai fini dell’adattamento. La fase della resistenza perdura tutto il tempo nel quale permane lo stimolo stressante e, secondo Selye, sarebbero proprio i fenomeni legati allo stress, ed in particolare alla fase di resistenza della Sindrome Generale di Adattamento, a contribuire a quelle manifestazioni di deterioramento che vedono nella vecchiaia l’espressione più visibile. Se la fase di resistenza perdura troppo a lungo, infatti, si manifesta nell’organismo la terza fase, secondo Selye della Sindrome Generale di Adattamento, che egli denominò fase di esaurimento, nella quale si assiste ad un vero e proprio sfiancamento delle risorse dell’organismo, con una perdita graduale della vitalità stessa e l’insorgenza, quindi, di malattie.
In sintesi, quindi, secondo Selye, lo stress viene visto come una reazione fisiologica aspecifica, finalizzata all’adattamento, a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei, ed espressa essenzialmente da variazioni di tipo endocrino (attivazione della midollare e della corteccia del surrene) che sbilanciano il sistema neurogetativo a favore del sistema simpatico. I punti salienti sono quindi:
- il carattere di aspecificità;
- il carattere fondamentalmente adattivo;
- il carattere di reazione neurovegetativa a mediazione endocrina.
La teoria di Selye, che in ogni caso aprì la strada ad un ricchissimo filone di ricerca, manifestò ben presto delle lacune. In primo luogo, le ricerche effettuate da Selye partivano dall’analisi degli effetti sull’organismo da parte di agenti stressanti fisici o chimici messi a diretto contatto con l’organismo, come inoculazione di sostanze o contatto con agenti fisici; sappiamo, però, dall’esperienza che non soltanto tali stimoli, fisici o chimici prossimali, sono in grado di produrre risposte di stress: anche agenti distali, quali un evento relazionale o un’informazione, possono rivelarsi fonti di stress che, quindi, inducono una risposta non tanto sulla base di una componente fisica misurabile, quanto piuttosto sulla base della risonanza psicologica soggettiva che sono in grado di determinare. Questa considerazione ha aperto tutto un filone di ricerca sul significato simbolico e sulla risonanza intrapsichica che determinati stimoli detengono, evidenziando significative variabilità che differenziano risposte di individui diversi nei confronti di uno stesso stimolo. In secondo luogo, se stimoli così diversi possono indurre una reazione biologica da stress, come è possibile che esista un unico identico fattore neurormonale, come era stato identificato l’ACTH, quale mediatore comune (first mediator)? Infine, a proposito del carattere di aspecificità, se la risposta di stress è unica, perché gli individui si ammalano di malattie diverse?
IL RUOLO DELLE EMOZIONI.
Le ipotesi su quale fosse l’agente di attivazione della Sindrome Generale di Adattamento si spostarono, pertanto, dall’idea originaria di Selye di un unico mediatore biochimico a quel substrato di natura psicofisiologica che coincide, di fatto, con le strutture ed i meccanismi che sostengono le emozioni. Esponente di maggior spicco di tale ipotesi fu J. Mason il quale, partendo dall’osservazione che l’asse ipotalamo-ipofisi-corticosurrene reagisce ad un gran numero di stimoli psicosociali, suscettibili di indurre una reazione emozionale e che la reazione corticosurrenale a stimoli emotivi è sostanzialmente identica a quella descritta da Selye nella fase di resistenza della reazione da stress, effettuò una serie di ricerche basate sulla dissociazione dello stimolo fisico dallo stimolo emotivo nello stress dando un sostegno empirico alla teoria da lui formulata secondo la quale il mediatore nella reazione da stress sarebbe proprio l’emozione (Mason, 1971). In questa prospettiva, sia l’attivazione del sistema ipotalamo-ipofisi-corticosurrene che l’attivazione della midollare del surrene che seguono all’esposizione a stimoli fisici di varia natura sarebbero comunque una diretta conseguenza dell’eccitamento emozionale che accompagna o precede immediatamente la stimolazione fisica. A svolgere un’azione generalizzante sarebbero, quindi, per Mason, i medesimi meccanismi psicofisiologici coinvolti nelle emozioni e sostenuti dagli apparati neuroanatomici che presiedono alla genesi, al mantenimento ed al verificarsi delle manifestazioni centrali e periferiche legate alle emozioni stesse.
La prospettiva di Mason fu particolarmente significativa dal momento che, attribuendo un ruolo fondamentale alle implicazioni emotive, ha permesso di comprendere meglio i dati sperimentali che depongono in favore sia della specificità che della aspecificità dello stress.
La ricerca sullo stress parte, quindi, dall’osservazione di determinate reazioni generali dell’organismo in risposta a richieste ambientali generate da stimoli di natura diversa; la compresenza, però, sia di elementi aspecifici, come la Sindrome Generale di Adattamento, che di elementi specifici in base alla natura degli stimoli, ha indirizzato progressivamente tali ricerche sul versante delle reazioni emotive e sulle loro implicazioni, un campo di studio, peraltro, quanto mai controverso e difficile in tutta la storia delle neuroscienze. Anche il ruolo e i meccanismi di funzionamento delle emozioni, infatti, hanno rappresentato da sempre un campo di indagine da parte di filosofi e scienziati, senza giungere, di fatto, ad una definizione e ad una comprensione unanimemente condivisa: come affermano Fehr e Russel, “ognuno sa cos’è un’emozione finché gli si chiede di definirla” (1984)
L’importanza delle emozioni nelle reazioni dell’organismo finalizzate all’adattamento e, nello specifico, nella Sindrome Generale di Adattamento ha portato, in ogni caso, alcuni ricercatori ad elaborare il concetto di stress psicologico, indirizzando, così, inevitabilmente, questo filone di ricerca sempre più nella strada delle correnti psicologiche.
Magda Arnold, dapprima, e Richard Lazarus, successivamente, hanno, ad esempio, centrato le loro ricerche sul concetto di “valutazione soggettiva” dello stimolo stressante: se uno stimolo non è valutato come rilevante per l’individuo, a livello conscio o inconscio, non si verifica alcuna attivazione emozionale e dunque non sarà considerato stressante. Questa prospettiva, che vede, quindi, nella valutazione cognitiva la “condizione necessaria e sufficiente dell’emozione” rimane tuttora la pietra angolare della prospettiva cognitivista (Lazarus, 1991).
Una voce particolarmente importante, che si distaccò dalla corrente più accreditata in merito alla ricerca sullo stress e che, come spesso succede, fu boicottato dall’estabilishement accademico, fu Henri Laborit, un biologo francese che negli anni Settanta scoprì che i disordini somatici causati da aggressioni psicosociali sono provocati da uno stato particolare che lui denominò di inibizione dell’azione. In seguito scoprì anche che l’inibizione dell’azione persistente provocava disturbi a carico della memoria.
Nelle sue ricerche, Laborit utilizzava la procedura dell’invio di uno stimolo doloroso (una scossa di corrente) a dei ratti rinchiusi in una gabbia.
Nella prima situazione, il ricercatore mandava la scossa sul pavimento della gabbia, comunicante attraverso una porta con un’altra gabbia non raggiunta dalla corrente: alla scossa, il ratto imparava velocemente a passare nell’altra gabbia e se le condizioni si invertivano (la scossa era inviata nella gabbia in cui il ratto era fuggito) questi ritornava velocemente nella prima. Sottoposto a tali stress per una settimana, il ratto non presentava alcuna lesione patologica: la sua salute restava eccellente.
Nella seconda situazione, la gabbia su cui veniva inviata la scossa elettrica non comunicava con nessun’altra gabbia ma all’interno venivano posti due ratti, anziché uno solo, come nella prima situazione. Alla scarica elettrica, i ratti non potevano fuggire e iniziavano a lottare tra di loro: dopo una settimana di esposizione a tale stress, le loro condizioni di salute si rivelavano eccellenti.
Nella terza situazione, la gabbia era sempre isolata ed il ratto era solo. Alla scarica elettrica, il ratto non poteva fuggire né combattere con qualcun altro: dopo una settimana, presentava segni di dimagrimento importante, ipertensione arteriosa e lesioni multiple alla mucosa gastrica.
Henri Laborit imposta lo studio del cervello e dello stress attraverso il concetto di aggressione: “Quando incontriamo nell’ambiente esseri e cose che ci sono gradevoli, che ci permettono di mantenere questo principio del piacere, nei mammiferi abbiamo un sistema che permette di memorizzare la strategia che abbiamo utilizzato, la nostra esperienza: ricominciamo lo stesso comportamento per ritrovare il piacere. (…) Se invece, al contrario, il vostro contatto con l’ambiente è pericoloso, se non fa piacere, se è doloroso, cominciate a fuggire e, se non potete fuggire, combattete, vale a dire vi orientate verso l’ambiente per distruggere l’oggetto del vostro risentimento.”
“La novità, la scoperta è che, quando non potete né farvi piacere, né fuggire, né lottare, vi inibite.
Il significato biologico dell’inibizione è: meglio non agire, per non essere distrutti dall’aggressione.
Ciò va bene se serve a salvare al momento la vostra pelle, la vostra struttura.
Ma se non siete in grado di sottrarvi molto rapidamente, da questo stato di inibizione, di attesa in tensione, allora in quel momento comincia tutta la patologia” (Laborit, 1970).
Secondo Laborit, questa inibizione d’azione si accompagna alla liberazione di ormoni come i glucocorticoidi e neuro-ormoni come la noradrenalina che tendono ad indebolire fino a distruggere il sistema immunitario. Ciò genera vulnerabilità alle infezioni ed ai tumori. Non si fa un cancro per caso, sostiene Laborit e la lista delle malattie dell’adattamento è lunga.
La sindrome d’inibizione dell’azione, che s’instaura allorché l’aggressione psicosociale si protrae nel tempo e non è risolvibile né con la lotta né con la fuga, ha un aspetto chimico, un aspetto neurofisiologico ed un aspetto comportamentale.
Per Laborit, la salute non è soltanto il mantenimento dell’omeostasi ristretta, dell’equilibrio interno, ma significa mantenere il proprio equilibrio in relazione all’ambiente esterno, con il quale dobbiamo negoziare in continuazione le condizioni per il nostro equilibrio. Quando ciò non è possibile, la risposta naturale è la lotta o la fuga per eliminare ciò che ci impedisce di essere in equilibrio. Ma se le condizioni ambientali non ci consentono né di gratificarci, né di lottare, né tanto meno di fuggire, l’ambiente ci modifica al di là delle possibilità di difesa. In questo caso, si dice che “subiamo l’ambiente”, in altre parole ne riceviamo un’aggressione, e allora il rapporto con l’ambiente ci disorganizza. Per Laborit, quindi, è nell’aggressione, intesa in questi termini, che tutte le dis-regolazioni e le patologie hanno inizio.
LA MEDICINA PSICOSOMATICA.
L’ipotesi, quindi, di una correlazione tra mente e corpo, tra eventi psichici ed eventi fisici ha alimentato nel corso della storia prevalentemente la ricerca intorno allo stress e ai suoi meccanismi; questo concetto ha subito una graduale evoluzione, sulla, base comunque della formulazione originaria di Selye. Paolo Pancheri, nella sua opera “Stress, Emozioni, Malattia”, un classico della Medicina Psicosomatica, definisce lo stress come “la risposta dell’organismo ad ogni richiesta di modificazione effettuata su di essa. Questa risposta si manifesta sia a livello fisiologico che a livello comportamentale, ed è mediata da un’attivazione emozionale indotta da una valutazione cognitiva del significato dello stimolo. Essa è relativamente aspecifica, nel senso che un’ampia gamma di stimoli può innescarla, ma personalizzata in rapporto al significato dello stimolo per il singolo individuo, e alle sue modalità di reazione psicofisiologica. Lo stress è, di per sé, una reazione fisiologica, adattativa, caratteristica della vita, che può tuttavia assumere un significato patogenetico quando è prodotta in modo troppo intenso per lunghi periodi di tempo o quando è ostacolata nel suo regolare svolgimento.” (Pancheri, 1979)
Alla fine degli anni Settanta, quindi, proprio nel periodo in cui il dott. Hamer fu colpito dalla sua tragedia familiare, le acquisizioni inerenti il rapporto tra emozioni e malattia, patrimonio ormai decennale dei ricercatori, erano fondate sul concetto di stress e sulle sue conseguenze nell’organismo. Queste acquisizioni potevano essere così riassunte:
Esistono dei meccanismi di attivazione dell’organismo, la cosiddetta Sindrome Generale di Adattamento, che vengono innescati da stimoli stressanti, cioè in grado di produrre tale mobilitazione organismica.
Gli agenti stressanti possono essere sia di natura fisica o chimica così come di natura psicosociale, agendo, pertanto, direttamente o mediante l’intervento delle funzioni psichiche ed emozionali. Esiste, pertanto, una soggettività della risposta.
Tale attivazione avviene attraverso la mediazione dei sistemi reattivi emozionali che agiscono sul sistema neuroendocrino ed immunitario. Gli agenti stressanti, quindi, vanno ad alterare le funzioni del sistema neurovegetativo, del sistema endocrino e del sistema immunitario.
Esistono risposte specifiche e risposte aspecifiche che si sintonizzano con tre parametri fondamentali: lo stato psicofisiologico precedente l’evento, i fattori endogeni, come il patrimonio genetico e le caratteristiche di personalità, e i fattori esogeni legati all’apprendimento, all’alimentazione, all’uso di farmaci, ecc.
Tutta questa catena di eventi biologici, la cosiddetta “risposta individuale di stress” può essere considerata un “precursore di malattia” Gli agenti stressanti influenzano, quindi, il “terreno biologico” sul quale si può inserire la malattia.
La spiegazione, poi, della scelta dell’organo avveniva sulla base delle seguenti ipotesi:
- Predisposizione genetico-costituzionale o “debolezza d’organo”. Questa, in realtà, è la posizione della medicina organicistica, che nega l’influenza dei fattori emozionali nella genesi della malattia.
- Teorie psicodinamiche. Secondo questi modelli, che affondano le loro radici nella corrente psicoanalitica, gli stimoli esterni attiverebbero dei conflitti inconsci, secondo un meccanismo di “conversione simbolica” mediata dai meccanismi psichici di difesa.
- Teorie comportamentistiche. Secondo questi modelli la risposta dell’organo è appresa, secondo dei meccanismi di stimolo e rinforzo.
- Teorie psicosociali. Secondo questo modello la malattia è legata alle pressioni dell’ambiente ad opera degli stimolo stressanti. Stimoli ambientali specifici interagirebbero con i programmi di risposta biologici dell’individuo, determinati in parte geneticamente ed in parte in base alle esperienze infantili.
- Teoria della personalità. Secondo questo modello sarebbero elementi della personalità individuale a predisporre l’individuo a determinate malattie piuttosto che altre, come la personalità di tipo A, individuata quale fattore predisponente le malattie di tipo cardiologico.
- Modelli integrativi. Alcune teorie cercano di “integrare” le varie ipotesi in un modello onnicomprensivo, nel quale vengono presi in considerazione sia gli aspetti comportamentali delle emozioni che quelli biologici. Secondo tali modelli, la reazione dell’organismo si manifesta sia su base biologica che comportamentale.
Tali considerazioni rappresentavano lo scenario della ricerca della fine degli anni Settanta, ma non sono molto diverse da ciò che la ricerca ha elaborato in merito ai meccanismi psicosomatici nei decenni successivi, fino ai giorni nostri. Il concetto che colpisce maggiormente è quello della “predisposizione alla malattia” o “precursore di malattia” o “terreno biologico”: lo stress agirebbe in definitiva in tale direzione, favorendo, cioè, l’insorgenza delle malattie nel momento in cui gli stimoli stressanti altererebbero le condizioni biologiche dell’organismo.
In definitiva, si potrebbe riassumere che tutta la ricerca sullo stress, quindi, proseguita con lo sviluppo e le elaborazioni della medicina psicosomatica, invece di arrivare ad una spiegazione finalmente plausibile in merito all’origine della malattia e soprattutto che andasse oltre la tradizionale separazione tra malattie del corpo e della psiche, ha aggiunto un’ipotesi in più, rendendo ancora più confusa l’etiologia con i concetti di multicausalità o multifattorialità. Tutta la ricerca sullo stress, in definitiva, lascia sostanzialmente intatta la concezione millenaria che la malattia è “qualcosa”, un’”entità” – ovviamente sbagliata, temibile e da combattere – che può colpire l’organismo, senza che nessuno possa dire perché.
Afferma Pancheri, infatti: “alla luce di quanto è emerso dallo studio dello stress dalla prima formulazione di Selye fino ad oggi, appare chiaro come tale suddivisione (tra malattie somatiche e malattie psicosomatiche) sia priva di significato, e come stressors di varia natura (fisica, biologica o psicosociale) possano, direttamente o attraverso una mediazione emozionale, influenzare il terreno biologico sul quale si inserisce la malattia” (1979)
IL CONCETTO IMMUTATO DI MALATTIA.
La “malattia”, quindi, è salva! Chiamata anche “entità nosografia”, la patologia non centra con lo stress: quest’ultimo è responsabile solamente di renderle la vita più facile. La presunta unificazione tra mente e corpo rimane viva solo nelle parole.
Sempre il padre della medicina psicosomatica italiana afferma, infatti, ancora: “Alcune malattie possono ancora essere considerate come prodotte da un’unica causa (ad esempio la paraplegia da sezione del midollo spinale), ma in molte altre, definite spesso come idiopatiche o essenziali, l’eziologia è certamente pluricausale, senza possibilità di individuare una causa predominante. Anche dove, tuttavia, un agente patogeno appare strettamente connesso a una particolare malattia, è possibile quasi sempre individuare una serie di concause dotate di potere patogeno a livello del terreno biologico. Ogni malattia dove sia individuabile un agente patogeno principale, infatti, può essere vista come la risultante di due fattori: l’aggressività dell’agente patogeno da un lato e le condizioni dei sistemi biologici di difesa (il terreno) dall’altro” (Pancheri, 1979).
Negli ultimi trent’anni, la ricerca sullo stress ed, in particolare, la medicina psicosomatica hanno imboccato, purtroppo, un tunnel da cui non riescono più ad uscire ed hanno determinato l’esatto opposto di ciò che probabilmente era nelle loro intenzioni originarie: cercando, probabilmente di riunire l’organismo in una visione olistica, lo ha spezzettato ancora di più!
“La funzionalità e la ricettività di questi sistemi (neurovegetativo, endocrino e immunitario) sono a loro volta controllate da una serie di fattori reciprocamente ineìteragenti tra loro: la struttura genetico-costituzionale, l’imprinting psicobiologico, l’ambiente fisico e, infine, i determinanti emozionali e psicosociali.
I determinanti emozionali e psicosociali, e la reazione di stress da essi dipendente, sono dunque sempre delle concause nella genesi delle malattie a etiologia totalmente o parzialmente multicausale. Essi, a seconda del momento in cui agiscono, della loro intensità e durata e della loro interazione con altri determinanti, possono agire come elementi predisponesti o come fattori scatenanti. Il punto importante da sottolineare è che, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non è dimostrato un rapporto specifico tra tipo di attivazione emozionale e tipo di malattia somatica sviluppata anche quando il ruolo determinante dello stress emozionale è stato accertato.
Le differenze nel tipo di malattie sviluppate per cause emozionali dipendono dalla particolare vulnerabilità dei singoli organi a sua volta dipendente da fattori puramente fisico-biologici o genetico-costituzionali” (Pancheri, 1979).
Su questi presupposti e su queste conclusioni del filone di ricerca psicosomatico, alla fine degli anni Settanta, inizia la ricerca di Hamer …CONTINUA NEL PROSSIMO ARTICOLO.
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LE 5 LEGGI BIOLOGICHE SCOPERTE DAL DOTT. HAMER: EVOLUZIONE VERSO IL NUOVO PARADIGMA (Seconda parte)
È innegabile che la ricerca sullo stress, da Cannon a Mason, era partita bene, ma, successivamente, si è intrappolata all’interno dello stesso paradigma da cui ha tentato di staccarsi: Cartesio è, in effetti, più duro a morire di quel che non si pensi! Nel tentativo di decollare dal riduzionismo di fine Ottocento, in una direzione – quella olistica o sistemica – che già la fisica quantistica ed i modelli cibernetici della prima metà del Novecento lasciavo intravedere, la medicina psicosomatica è miseramente scivolata di nuovo nel meccanicismo riduzionistico dei secoli passati, condito solamente dai nuovi concetti quali: idiopatico, polietiologico, multifattoriale, multicausale, ecc. Invece che riunire, spezzetta ancora di più.
L’effetto più tragico del moderno riduzionismo lo si vede nel fiorire delle cosiddette équipe multidisciplinari, che sembrano tanto all’avanguardia ma che tanto più multiple sono, tanto più dividono il paziente: “i clinici si sentono molto tranquilli e progressisti quando includono uno psicologo nella loro equipe medica – meglio ancora se è uno “corporeo” – così si formano le équipe multidisciplinari, in cui multiplo è il numero di persone che vedono parti diverse dello stesso soggetto” (Shnake, 1995).
Sostiene ancora la Shnake: “La Medicina Psicosomatica è un grande schermo che copre uno dei fallimenti più drammatici della medicina. Si ampliano i servizi, si aggiunge personale “specializzato” nelle équipe oncologiche, si organizzano congressi ove si riconosce il fattore psicologico nel cancro o nell’asma, nelle gravidanze tubariche, nell’ulcera, negli incidenti automobilistici… La psichiatria e la psicologia hanno vinto la loro battaglia! Non c’è più un quadro clinico in cui non è riconosciuto il fattore psicologico. Finalmente la dimensione psichica forma parte dell’essere umano. (…) Eppure non sono riusciti a divincolarsi dall’attraente approccio medico, che insiste nel chiamarsi scientifico e che li ha obbligati a costruire un ibrido con cui sono consapevoli di non aumentare la saggezza del corpo né contribuire – come era il sogno di Freud – ad una maggiore libertà dell’uomo, a renderlo meno dipendente e schiavo dell’altro” (Shnake, 1995)
Ma se la Medicina Psicosomatica, che si pone come la disciplina che, per eccellenza, tenta di superare il dualismo mente-corpo, al di là delle presunte apparenze, è scivolata nuovamente nel riduzionismo meccanicistico dei secoli antichi, un’altra recente disciplina, la psico-oncologia, che presume anch’essa un’attitudine olistica nei confronti del paziente, è scivolata ancora più in basso. In uno dei testi più accreditati nella letteratura italiana, il “Manuale pratico di psico-oncologia”, si afferma nelle prime righe di presentazione che: “La Psico-oncologia costituisce in ambito sanitario un riferimento per tutti coloro – oncologi, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti – che nel trattamento della malattia neoplastica hanno una visione olistica del malato, tesa a tutelare e favorire una migliore qualità di vita del paziente considerandolo nella sua complessità, vista la inscindibilità negli esseri umani della componente biologica da quella emozionale” (Grassi, Biondi, Costantini, 2003, pag. IX).
Peccato che nelle trecentoventi fitte pagine del testo non c’è una riga in cui si accenni alla possibilità, anche remota, che le emozioni abbiano una qualche determinante nella genesi del cancro! In tutto il manuale pratico di psico-oncologia, le emozioni sono considerate solo in quanto “vissuto di malattia”, cioè la reazione emotiva del paziente alla malattia tumorale! Viene proprio da chiedersi cosa si intenda con il termine “olistico” o con “l’inscindibilità negli esseri umani della componente biologica da quella emozionale”…
Certamente la cura dell’aspetto emotivo dell’ammalato, delle sue reazioni e delle strategie di coping attuale è nobile nonché fondamentale; ma cosa c’è di così nuovo e scientificamente all’avanguardia in questa che, da sempre, è l’attitudine dei sacerdoti e dei religiosi con gli ammalati? Già Gesù Cristo, ben duemila anni fa invitava a prendersi cura amorevolmente delle persone che soffrono!
Se per la Medicina Psicosomatica l’emozione altera i fattori che predispongono e favoriscono l’impianto della malattia, con la Psico-oncologia arriviamo addirittura a considerare l’emozione solamente in termini di reazione e adattamento alla malattia: non soltanto si ritorna nel riduzionismo meccanicistico, ma non si considera neanche lontanamente l’idea che le emozioni possano avere una qualche valenza in termini etiologici. Implicitamente siamo tornati alla completa negazione che il vissuto e le emozioni, relegate alla “predisposizione” o alla “conseguenza”, abbiamo un ruolo significativo nella genesi delle malattie.
IL CAMBIO DI PARADIGMA.
Nel 1981, il dott. Hamer sostiene, invece: “Ogni Programma SBS è causato da una DHS”. Questa affermazione trova, quindi, degli antecedenti nella ricerca scientifica del tempo ma, al tempo stesso, rappresenta, questa volta, un reale cambio di paradigma.
Con la sua intuizione avrebbe potuto infilarsi nella corrente di ricerca alquanto fertile e popolata del suo tempo (siamo, infatti, agli inizi degli anni Ottanta) ma, per fortuna, la sua intuizione si appoggiava chiaramente al di fuori del paradigma meccanicistico fin da subito.
Nella Legge ferrea del cancro, Hamer evidenzia tre criteri fondamentali:
1) Ogni programma speciale, biologico e sensato (SBS) inizia con una DHS (Sindrome di Dirk Hamer), cioè con uno shock conflittuale gravissimo, inaspettato, altamente drammatico vissuto con un senso d’isolamento, contemporaneamente su tre livelli: nella psiche, nel cervello e nell’organo.
2) Nell’istante della DHS, il contenuto del conflitto biologico, ovvero la maniera in cui la persona percepisce un determinato evento, determina sia la localizzazione del SBS nel cervello con il cosiddetto Focolaio di Hamer, sia la localizzazione nell’organo come cancro o malattia oncoequivalente.
3) Il decorso del programma SBS è sincrono su tutti i livelli (psiche – cervello – organo) dalla DHS fino alla soluzione del conflitto, compresa la crisi epilettoide nel punto culminante della fase di riparazione e il ritorno alla normalità.
I tre criteri della Legge ferrea portano in sé la risposta ai “buchi neri” su cui la ricerca sullo stress la Medicina Psicomatica si sono insabbiati, soprattutto al dibattito tra gli elementi aspecifici e specifici della risposta organismica e alla scelta dell’organo.
Gli elementi di svolta che si differenziano dalla ricerca sullo stress sono:
-La reazione dell’organismo, scatenata dalla DHS, avviene per un interessamento diretto del cervello in aree diverse e specifiche.
-La reazione dell’organismo, scatenata dalla DHS, avviene da parte di organi specifici, in relazione al tipo emozioni.
LA SCOPERTA ECCEZIONALE ALLA TAC.
Hamer ha potuto evidenziare tali assunti grazie al tipo di ricerca da lui condotta, partita sostanzialmente dal dramma familiare “shockante” che lo ha colpito in prima persona e non secondo un modello prestabilito dalla letteratura del tempo, nonché dall’osservazione diretta, attraverso lo studio della TAC cerebrale, di “qualcosa” – che chiamò focolai di Hamer – che succedeva nel cervello, sempre nello stesso punto, a seconda della medesima malattia.
La sua ricerca empirica lo portò a mettere l’attenzione sullo shock della DHS, anche se la letteratura del tempo, nonostante avesse da decenni gli occhi sui meccanismi di reazione allo stress, fosse alquanto confusa proprio in merito a ciò. C’è da dire, in ogni caso, che negli anni successivi determinate prospettive di ricerca nell’ambito delle neuroscienze hanno fatto molta luce sui meccanismi delle reazioni emotive ed, in effetti, ora ne sappiamo molto di più su cosa avviene in quel momento in cui Hamer ha posto l’inizio di quella catena di eventi che normalmente è chiamata “malattia”: oltre alle verifiche empiriche condotte da Hamer, abbiamo, ora, la conferma anche dalle più recenti acquisizioni delle neuroscienze.
La chiave di volta sta esattamente nella comprensione dei meccanismi neurobiologici delle emozioni.
DALLA STORIA DELL’ORSO ALLA SCOPERTA DEL CERVELLO EMOTIVO.
Mason, con l’idea che il “mediatore unico” ipotizzato da Selye fosse rappresentato dalle emozioni, è stato il ricercatore che più si è avvicinato alla scoperta delle leggi biologiche di Hamer. Purtroppo, alla fine degli anni Settanta, la ricerca sulle emozioni era ancora troppo confusa e contraddittoria per poter sostenere una tesi di tale portata e, in ogni caso, condizionata dal vecchio paradigma riduzionistico e dualista.
La emozioni hanno rappresentato un oggetto di interesse per scienziati e pensatori di tutti i tempi. Dai tempi antichi in cui si disquisiva su temperamenti, passioni e umori, filosofi, lettereati e uomini di scienza hanno tentato di spigare e collocare all’interno dell’esistenza umana il senso e la funzione della dimensione emozionale.
Gli scienziati hanno cercato di scoprire, oltre al capirne il funzionamento, dove fosse la sede delle emozioni, ma i problemi erano rappresentati dal fatto che il contenuto cosciente dell’emozione – il sentimento, come è definito in neurobiologia – mal si presta all’indagine scientifica. Per questo, l’emozione è rimasta campo d’indagine da parte delle discipline fondate sull’introspezione, come la psicoanalisi, ma che non permette una comprensione biologica del funzionamento, oppure si è limitata allo studio delle reazioni comportamentali fisiologiche, come, ad esempio hanno fatti i comportamentisti, giudicando la coscienza un tema inadatto all’indagine scientifica, oppure è stata deliberatamente esclusa dall’indagine, come ha fatto la corrente di pensiero denominata congitivismo, centrata maggiormente sui processi inconsci di elaborazione dell’informazione, piuttosto che sui contenuti di tale elaborazione. La comprensione dei meccanismi emotivi, quindi, è stato sicuramente il campo più difficoltoso per le scienze della mente nell’ultimo secolo.
William James, considerato il padre della psicologia americana, scrisse nel 1884 un articolo apparso sulla rivista “Mind” dal tipolo “What is an emotion?” (Cos’è l’emozione?) che fece storia e diede inizio, di fatto, all’indagine sulla natura delle funzioni emotive. La riflessione di James partiva dalla seguente domanda: “Perché di fronte ad un orso proviamo paura?” A quel tempo, così come, per certi versi attualmente, il senso comune sosteneva che, di fronte un orso proviamo l’emozione della paura perché è pericoloso e, in conseguenza a ciò, scappiamo. Ebbene, W. James propose una prospettiva diversa: egli sosteneva che, di fronte all’orso, l’organismo reagisce con una risposta essenzialmente fisica che, nel momento in cui viene percepita a livello cosciente, genera successivamente l’emozione della paura. L’emozione, secondo James, sarebbe, pertanto, l’effetto sulla coscienza della retroazione da parte dell’organismo: in altri termini, non scappiamo perché abbiamo paura, ma abbiamo paura perché siamo spinti alla fuga (James, 1884).
La prospettiva di W. James gettò le basi per una indagine sulle emozioni che tenesse conto della dimensione fisico-corporea, quale elemento sostanziale di mediazione in quel fenomeno che chiamiamo emozione. In effetti, i contenuti coscienti dell’emozione sono sostanzialmente delle percezioni di stati fisici: il cuore che accelera, la pelle che suda, una pressione al petto, una contrazione delle viscere, ecc. Appare sensato, quindi, considerare il coinvolgimento del corpo nel processo emozionale. Ma in che termini?
Gli studi successivi portarono a considerare che le risposte fisiche fanno sì parte integrante delle emozioni ma, visto il tempo in cui esse avvengono, sostanzialmente più lungo rispetto alla percezione cosciente, condussero W. Cannon, che abbiamo già incontrato a proposito delle ricerche sulla reazione d’allarme e P. Bard formulare nel 1929 una teoria secondo la quale le emozioni coscienti, ovvero i sentimenti, e le reazioni del corpo avvengono attraverso meccanismi indipendenti e separati: lo stimolo emotivo (che arriva all’organismo attraverso i canali sensoriali che confluiscono nel talamo) produce i sentimenti per azione diretta sulla corteccia cerebrale, mentre, attraverso circuiti paralleli, a mediazione ipotalamica, viene generata una risposta fisica (Cannon, 1929; Bard, 1929).
Il dibattito proseguì tra queste due posizioni fino agli anni Cinquanta, quando venne formulata una delle teorie che ebbero più seguito nella ricerca sulle emozioni. Nel 1949, infatti, il ricercatore Paul McLean ipotizzò la teoria del “cervello viscerale”, come lo chiamò inizialmente, o “sistema libico”, come lo ribattezzò nel 1952, come la sede del “cervello emotivo”, ovvero la sede delle strutture responsabili delle emozioni (McLean, 1949, 1952).
McLean riprese la teoria formulata poco prima della seconda guerra mondiale da James Papez, un anatomista che descrisse un circuito particolare quale responsabile dell’esperienza emotiva. Da considerazioni analoghe a quelle di Cannon e Bard, Papez pensava che gli stimoli sensoriali, afferenti attraverso le vie talamiche andassero direttamente alla corteccia cerebrale e all’ipotalamo. Le esperienze emotive, però, sarebbero state generate anche dal coinvolgimento del talamo anteriore, dall’ippocampo e dalla corteccia cingolata, una parte della corteccia mediale degli emisferi – chiamata anche rinencefalo – filogeneticamente più antica. Proprio alla corteccia cingolata Papez assegnava la funzione d’integrazione tra gli stimoli provenienti dalla corteccia cerebrale laterale – filogeneticamente più recente – e dall’ipotalamo (Papez J.W., 1937).
Ebbene, Paul McLean riprese il circuito di Papez e tentò una teoria generale del cervello emotivo, influenzato non solo dalla neuroanatomia, ma che dalla psicologia dell’inconscio freudiana. Il punto di partenza, a quell’epoca, era che nella genesi delle emozioni erano determinati l’ipotalamo, da un lato e la corteccia cerebrale laterale, o neocorteccia, dall’altro; si sapeva, però che tali strutture avevano poche vie di connessione tra loro.
Condiderando, quindi, che l’esperienza cosciente delle emozioni fosse probabilmente dettata dall’attività della neocorteccia – universalmente considerata sede dell’attività sensomotoria – ma che questa non fosse in grado di influenzare l’ipotalamo e, quindi, le attività viscerali, e considerando, invece, che fossero le regioni filogeneticamente più antiche del rinencefalo a poterle influenzare, McLean identificò il “cervello viscerale” proprio nelle zone rinencefaliche. Mentre la neocorteccia “è signora della muscolatura e favorisce le funzioni dell’intelletto”, il cervello viscerale “ordina il comportamento affettivo dell’animale in certi impulsi elementari come procurarsi e assimilare il cibo, fuggire davanti al nemico o liberarsene oralmente, riprodursi e così via” (McLean, 1949).
La teoria del cervello viscerale nasceva anche dalle considerazioni evoluzionistiche del sistema nervoso: McLean pensava che negli animali primitivi fosse proprio il cervello viscerale a garantire la sopravvivenza e l’adattamento funzionale alle circostanze di vita; nei mammiferi, lo sviluppo successivo della neocorteccia avrebbe permesso quelle funzioni superiori che vedono nell’uomo il loro massimo raggiungimento. Da questo punto di vista, quindi, McLean identificava nei sentimenti una funzione d’integrazione tra gli stimoli provenienti dall’esterno e quelli provenienti dall’interno. Tale integrazione era funzione, appunto, del cervello viscerale; in esso, l’ippocampo svolgeva una funzione fondamentale; secondo McLean era una sorta di “tastiera emotiva” in grado di generare le vaire tonalità dei sentimenti che proviamo.
In una formulazione successiva, McLean denominò “sistema limbico” le parti del cervello che avrebbero costituito il sistema responsabile delle emozioni: rispetto al circuito di Papez, vi aggiunse l’amigdala, il setto e la corteccia prefrontale. Il sistema limbico di McLean era un vero e proprio sistema evoluto per mediare le funzioni viscerali ed i comportamenti emotivi ed istintivi come procurarsi il cibo, procreare, difendere il territorio, ecc (McLean, 1952).
Infine, l’aspetto evolutivo fu specificato ancora meglio nella “tripartizione” del cervello: secondo McLean, nell’evoluzione delle specie animali, il cervello si sarebbe evoluto dalle funzioni arcaiche del tronco encefalico, tipico dei rettili, a quelle dei paleo-mammiferi e, solo alla fine, nelle funzioni superiori dei neo-mammiferi. Nella teoria del cervello trino, il sistema libico corrisponde sostanzialmente al cervello dei paleo-mammiferi (McLean, 1970).
La teoria del sistema limbico, come sede delle emozioni, sembrò così convincente che tutt’ora è considerato il modello tra i più utilizzati per spiegare il funzionamento emotivo. Per decenni, infatti, sembrava potesse dare tutte le risposte in merito al funzionamento delle emozioni, se non altro, nella loro topografia neuroanatomica; inoltre, la concezione evolutiva rendeva plausibile il senso delle emozioni al processo di adattamento e sopravvivenza. Si pensava, grazie, quindi, alla teoria del sistema libico, che “il cervello emotivo” avesse una localizzazione unica.
ORA SAPPIAMO, PERÒ, CHE NON È COSÌ.
In ogni caso, sull’onda della tripartizione del cervello (cervello “rettile”, del “paleo- mammifero” e “neo-mammifero”) sembrava plausibile che le emozioni fossero generate dal cervello del paleo-mammifero e che le funzioni della corteccia avessero una funzione di regolazione su di esso; su questa linea proseguì la ricerca e la speculazione sulle emozioni che condussero Stanley Schachter e Jerome Singer a formulare l’ipotesi, di stampo congitivista, nel 1962, secondo la quale sarebbero le attribuzioni e le spiegazioni cognitive che vengono operate dalla corteccia sugli stati fisici che vengono percepiti a determinare quelli che diventano stati emotivi. In altri termini, gli individui percepiscono sensazioni corporee che, a seconda di come vengono etichettate, generano un’emozione piuttosto che un’altra (Schachter, Singer, 1962).
Altri ricercatori cognitivisti, come Magda Arnold e Richard Lazarus, che abbiamo già nominato a proposito delle ricerche sullo stress, insistevano sulla valutazione come elemento determinante ai fini dell’esperienza emotiva: emozioni diverse si distinguerebbero l’una dall’altra perché valutazioni diverse susciterebbero tendenze diverse all’azione che darebbero, quindi, luogo a sentimenti diversi (Lazarus, 1966).
La teoria della valutazione, di stampo cognitivista, dominò la scena della ricerca sulle emozioni per decenni, per lo meno fino agli anni Ottanta, anche se si sono fondate su due elementi che, alla lunga, come vedremo, hanno portato fuori pista. Il primo errore è stato quello di analizzare le valutazioni dalla verbalizzazione dei soggetti, quando l’introspezione non dà una visone affidabile dei funzionamenti mentali; in secondo luogo, la teoria cognitivista della valutazione ha dato troppo peso ai processi della cognizione, negando la differenza tra emozione e cognizione.
In effetti, alcune ricerche effettuate negli anni Settanta, hanno dimostrato l’infondatezza dell’intero impianto del sistema limbico come sede del cervello emotivo, nonché l’assoluta necessità di ridefinire il concetto di valutazione.
Il neuroanatomista Antony Brodal, ad esempio, ha dimostrato l’impossibilità di accomunare, sulla base dell’evoluzione, strutture quali il lobo limbico, il rinencefalo ed il cervello viscerale (Brodal, 1982); inoltre, tutto il concetto di sistema limbico era fondato sulla connessione delle strutture che lo compongono con l’ipotalamo: L.W. Swanson, però, ha dimostrato, attraverso metodiche più sofisticate, che l’ipotalamo è collegato con tutti i livelli del sistema nervoso e, da questo punto di vista, quindi, tutto il cervello sarebbe da definirsi “sistema limbico” (Swanson, 1983).
Oltre a ciò, si è visto che l’ippocampo, una struttura fondamentale, secondo McLean, per le “tonalità emotive” è implicato non tanto nelle funzioni autonome ed emotive, quanto in quelle cognitive. Infatti, le lesioni dell’ippocampo, e di alcune zone del circuito di Papez, come i corpi mammillari e il talamo anteriore, hanno pochi effetti coerenti sulle funzioni emotive, mentre producono disordini gravi della memoria cosciente o dichiarativa, cioè sulla capacità di sapere cosa si è fatto pochi attimi prima, di immagazzinare l’informazione, di richiamarla e di descrivere verbalmente quanto ricordato. Vale a dire su quei processi che, secondo McLean, non spettavano né al cervello viscerale né al sistema limbico. L’assenza relativa di implicazione nell’emozione e la chiara implicazione nella cognizione contraddicono quindi l’idea che il sistema limbico, comunque lo si definisca, sia il cervello emotivo (LeDoux, 1991)
Un contributo fondamentale nella comprensione dei meccanismi emotivi arrivò nel 1980 grazie a Robert Zajonc, il quale affermò, nel suo storico lavoro del 1980 “Feeling and Thinking: Preferences Need No inferences” che l’emozione precede la cognizione (Zajonc, 1980). Il suo concetto di “affezione inconscia”, inteso come elaborazione emotiva prodotta al di fuori della consapevolezza, dimostrò che le reazioni emotive possono aver luogo in assenza di consapevolezza degli stimoli, gettando le basi per l’idea che l’emozione non è solo cognizione. Le ricerche di Zajonc si basavano sulle stimolazioni subliminali: altri ricercatori seguirono tale filone confermando le acquisizioni dell’elaborazione inconscia. Divenne sempre più chiaro, quindi, che l’emozione avviene per processi inconsci e non c’entra con la cognizione (Bornstein, 1992; Bargh, 1992).
Da tutte le ricerche successive si può affermare, quindi che McLean abbia sbagliato a includere in un unico sistema l’intero cervello emotivo e la sua storia evolutiva. “Credo che la sua logica dell’evoluzione emotiva fosse perfetta ma troppo estesa. Le emozioni sono sicuramente delle funzioni coinvolte nella sopravvivenza, ma siccome emozioni diverse riguardano funzioni di sopravvivenza diverse – difesa contro il pericolo, trovare del cibo, accoppiarsi, occuparsi della progenie, e così via – ognuna potrebbe appartenere a sistemi cerebrali diversi, evolutisi per ragioni diverse. E dunque i sistemi emotivi potrebbero essere non uno ma tanti” (LeDoux, 1996)
Sempre secondo LeDoux, “l’ipotesi di lavoro più praticabile è che diverse classi di comportamento emotivo rappresentino funzioni diverse che si occupano di diversi problemi dell’animale, e ai quali sono dedicati sistemi cerebrali diversi. Se è così, emozioni distinte vanno studiate in quanto unità funzionali distinte” (LeDoux, 1996)
…CONTINUA
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LE 5 LEGGI BIOLOGICHE SCOPERTE DAL DOTT. HAMER: EVOLUZIONE VERSO IL NUOVO PARADIGMA (Terza Parte)
Dalla storia dell’orso di William James, quindi, arriviamo alle conoscenze attuali della neurobiologia in merito al cervello emotivo.
Queste possono essere così riassunte:
Le emozioni sono una risposta complessa dell’organismo ad uno stimolo sensoriale che proviene dall’esterno o dall’interno. Esse sono prodotte automaticamente dal cervello, sulla base della percezione di uno stimolo “emozionalmente adeguato”. “Tutta la catena d’eventi è innescata dalla presentazione di un oggetto adatto, lo stimolo emozionalmente adeguato. L’elaborazione di quello stimolo, nel contesto specifico in cui si manifesta, conduce alla selezione e all’esecuzione di un programma preesistente: l’esperienza emozionale” (Damasio, 2003). Il cervello, cioè, è predisposto dall’evoluzione a rispondere a determinati stimoli, con specifici repertori d’azione, anche se può rispondere a molti altri stimoli che, per apprendimento nel corso delle esperienze di vita sono divenuti emotivamente significativi (Damasio, 1994). In altri termini esistono determinati stimoli che appartengono alle codifiche nella specie tramandate geneticamente; al tempo stesso, durante la vita, determinate esperienze possono imprimere nella memoria l’acquisizione che un determinato stimolo è significativo in termini di sopravvivenza per l’individuo: è il caso, ad esempio, delle esperienze traumatiche, in grado di sensibilizzare l’organismo ad una risposta secondo il meccanismo descritto da Pavlov del condizionamento operante.
L’attivazione emotiva avviene mediante un meccanismo del tipo “chiave-serratura”: uno stimolo emotivamente significativo funge da chiave nel dispiegamento della risposta emotiva – che funge, pertanto da serratura. In altri termini, non tutti gli stimoli attivano una risposta, ma soltanto quelli per i quali esiste una “serratura”. Questo meccanismo spiega il funzionamento degli istinti: ad esempio un individuo che risponde a determinate caratteristiche del “partner sessuale” sarà in grado di generare una risposta d’eccitazione, chiamata istinto all’accoppiamento. Al tempo stesso questo meccanismo spiega le basi neurobiologiche del costruttivismo, una corrente di pensiero che riconosce quanto la conoscenza non è un processo assoluto ma è “creata” dall’osservatore: non conosciamo il mondo per quello che è ma, sulla base delle nostre categorie, isoliamo la nostra esperienza del mondo (Maturana e Varela, 1987)
Il risultato delle risposte emotive è una modificazione dello stato del corpo che viene registrato a livello cerebrale in mappe di quello specifico stato corporeo. L’emozione, cioè, è la mappa del corpo in un determinato stato, una sorta di fotografia delle condizioni “viscerali” dell’organismo in un determinato momento. Ad esempio, quello che noi chiamiamo “tranquillità” corrisponde ad una percezione del nostro corpo in un determinato stato, appartenente, generalmente, alla categoria delle sensazioni gradevoli, mentre ciò che chiamiamo paura, invece, corrisponde ad uno stato corporeo ben differente che, generalmente appartiene alla categoria delle sensazioni spiacevoli, che, quindi, ci spingono ad intervenire per modificare la situazione che lo determina. Antonio Damasio ha, a questo riguardo, ipotizzato la teoria del cosiddetto “marcatore somatico”, una sorta di immagine o rappresentazione sensoriale che viene integrata nella memoria implicita quando uno stimolo è o diventa emotivamente significativo. Quando lo stimolo compare, non serve, come sosteneva William James che si attivino delle risposte di retroazione da parte del corpo, rivelatesi troppo lente per generare un sentimento: è sufficiente che lo stimolo attivi l’immagine dello stato corporeo – il marcatore somatico – per avere la percezione cosciente di una emozione (Damasio, 1994).
Inoltre, sappiamo con certezza che il cervello emotivo opera sostanzialmente a livello inconscio e produce risposte dirette sul corpo, di tipo viscerale, mediate dal sistema nervoso autonomo. La modificazione dello stato del corpo che viene registrata nella risposta emotiva è determinata da un’azione diretta sugli organi e tessuti, attraverso la loro innervazione autonoma. Un aumento improvviso del tono simpatico produce ad esempio…
Tutte le risposte emotive hanno la funzione di regolazione e adattamento dei processi vitali e di attivazione di una risposta adeguata alla richiesta ambientale ai fini di promuovere la sopravvivenza. Gli organismi viventi, in altri termini, sono costituiti in modo da mantenere la coerenza delle proprie strutture e delle proprie funzioni, a dispetto delle numerose circostanze che possono metterne a rischio la vita. Le risposte emotive appartengono a quei dispositivi contenuti nei circuiti cerebrali che, una volta attivati dal verificarsi di particolari condizioni interne o esterne, puntano alla sopravvivenza e al benessere dell’organismo.
Le risposte emotive non sono determinate da un unico sistema emotivo: si attivano sistemi differenti da stimoli emotivi diversi (LeDoux, 1996). Così come esiste un sistema della paura, così esiste un sistema per procacciarsi il cibo o per l’accudimento dei cuccioli. Ogni emozione, cioè, attiva un determinato sistema! Hamer ha dedotto questo aspetto notando direttamente sulla TAC l’interessamento di aree specifiche e sempre precise a seconda del contenuto emotivo vissuto dall’individuo.
Così come a livello cerebrale si attivano aree diverse, anche il sistema nervoso autonomo, che controlla le viscere, reagisce selettivamente e attiva organi diversi. In uno studio del 1992, Levenson ha mostrato come si possano addirittura distinguere le varie emozioni (rabbia, paura, disgusto, tristezza, felicità, sorpresa) proprio misurando le diverse risposte del sistema nervoso autonomo, come la temperatura della pelle, la frequenza cardiaca, ecc. (Levenson, 1992). A stimoli diversi, quindi, corrispondono attivazioni cerebrali diverse, che corrispondono ad emozioni diverse, che corrispondono ad attivazioni viscerali diverse: sembra qualcosa che ricorda proprio la legge ferrea del cancro! Nello specifico, inoltre, si attivano i sistemi che sono deputati ad una determinata funzione. Un determinato sistema viene attivato quando è implicata la funzione per cui quel sistema è deputato, ad esempio il sistema della paura per la difesa, il sistema dell’accudimento per la cura della prole, il sistema sessuale per l’accoppiamento, e così via. Le emozioni, quindi, rappresentano la parte di un meccanismo complesso, che si è evoluto intelligentemente nel corso del tempo; esse sono funzionali alla sopravvivenza in quanto producono risposte precise e sensate sulla base del tipo di stimolo, generando delle spinte all’azione per favorire l’adattamento.
Quando tali reazioni arrivano alla coscienza abbiamo quell’esperienza consapevole denominata emozione cosciente o sentimento. Le emozioni hanno lo scopo di fornire risposte adattative immediate; appartengono a dispositivi antichi nella storia dell’evoluzione, ben precedenti lo sviluppo della capacità di “provare” sentimenti, per i quali, oltre alla funzione della coscienza è necessario anche la costituzione della coscienza di un sé. I sentimenti, dal punto di vista evolutivo, avrebbero quindi, una funzione “superiore” alle emozioni e, nello specifico la possibilità di una valutazione migliore e ponderata in merito a decisioni complesse (Damasio, 2003). I sentimenti, quindi sono un sistema per elaborare risposte più precise ma che necessitano di un tempo relativamente lungo.
I sentimenti rappresentano, quindi, una dotazione dell’evoluzione finalizzata alla possibilità di risolvere problemi complessi o prendere decisioni che richiedono tutta una serie di valutazioni a lungo termine e comparative; l’organismo rimane, tuttavia, dotato dei meccanismi filogeneticamente più antichi e più rapidi, anche se meno precisi. LeDoux parla delle cosiddette “vie alte” e “vie basse” di elaborazione. La via bassa di elaborazione, che nel caso della paura, ad esempio, coinvolge l’amigdala, è in grado di attivare delle risposte automatiche di tipo viscerale, senza la mediazione dell’elaborazione cosciente. La “via bassa” corrisponde alla storica reazione d’allarme, già studiata da Cannon. Per fare un esempio della differenza tra una risposta “alta” ed una “bassa”, basti pensare, ad esempio a cosa succede quando immergiamo la mano in un recipiente con dell’acqua che si sta riscaldando. Sentendo il calore che sale, arriveremo ad un determinato momento in cui ci accorgeremo che la temperatura è troppo calda e dovremo ritirare la mano (reazione mediata dall’esperienza cosciente); ma nel caso in cui mettessimo la mano in un recipiente d’acqua bollente, senza saperlo, avremmo una risposta di retrazione immediata della mano, automatica, ancor prima di essercene accorti (via bassa di elaborazione). Gli eventi emotivamente significativi che giungono inaspettati vengono, quindi, processati da vie nervose dirette ed immediate, in grado di attivare delle risposte viscerali, ancor prima che la nostra coscienza possa tranquillamente rendersene conto. In questi casi, non abbiamo il lusso di poter decidere mediante una valutazione emotivamente cosciente, ma la decisione viene presa dal programma emotivo che, nello specifico, lo stimolo ha attivato.
LA MALATTIA NON È “QUALCOSA”
Con le recenti acquisizioni delle neuroscienze, abbiamo tutti gli elementi per comprendere cosa succede in quel momento in cui scatta la DHS (Sindrome di Dirk Hamer), che Hamer ha identificato come l’origine di tutte le malattie. Diventano, ora, facilmente comprensibili gli enunciati esposti nella Legge ferrea del cancro:
Ogni programma speciale, biologico e sensato (SBS) inizia con una DHS (Sindrome di Dirk Hamer), cioè con uno shock conflittuale gravissimo, inaspettato, altamente drammatico vissuto con un senso d’isolamento, contemporaneamente su tre livelli: nella psiche, nel cervello e nell’organo.
Una chiave speciale, apre una serratura speciale! Uno stimolo emotivamente adeguato attiva una via diretta di risposta, senza la mediazione della coscienza. L’intelligenza evolutiva dell’organismo viene in aiuto quando le circostanze colgono impreparato l’individuo (o l’animale, visto che, da questo punto di vista, i meccanismi di salute e malattia sono identici). Hamer sottolinea con enfasi il concetto di “inaspettato”: la DHS, con l’attivazione conseguente delle catecolamine, diventa, così, la prima risposta automatica, preconfezionata dalla natura per predisporre l’organismo ad una risposta efficace.
Nell’istante della DHS, il contenuto del conflitto biologico, ovvero la maniera in cui la persona percepisce un determinato evento, determina sia la localizzazione del SBS nel cervello con il cosiddetto Focolaio di Hamer, sia la localizzazione nell’organo come cancro o malattia oncoequivalente.
La reazione emotiva specifica di un determinato sistema emotivo che, oltre a produrre risposte viscerali specifiche, interessa localizzazioni cerebrali specifiche! Hamer giunge a questa conclusione dall’osservazione diretta dell’interessamento cerebrale mediante le immagini da tomografie computerizzate del cervello. Ora sappiamo anche dalla neurobiologia che non esiste un unico sistema emotivo, ma ogni emozione ha un suo particolare sistema, con interessamento di aree cerebrali specifiche. Inoltre sappiamo che ogni emozione è in grado di attivare risposte viscerali specifiche, coinvolgendo organi e tessuti specifici. La scelta dell’organo, quindi, non è casuale o determinata da ipotetici “difetti costituzionali”: vengono attivati proprio quegli organi la cui funzione è implicitamente coinvolta nel contenuto emotivo dello shock. Proprio come nel caso personale di Hamer dove, avendo subito una DHS dalla perdita del figlio, si è attivato un funzionamento “speciale” proprio nell’organo legato alla riproduzione maschile, cioè il testicolo.
Il decorso del programma SBS è sincrono su tutti i livelli (psiche – cervello – organo) dalla DHS fino alla soluzione del conflitto, compresa la crisi epilettoide nel punto culminante della fase di riparazione e il ritorno alla normalità.
Vi è una compartecipazione di sistemi cerebrali e sistemi viscerali che seguono l’andamento dell’efficacia adattativa della risposta, di cui il livello dell’esperienza emotiva è testimone: fintantoché la risposta non è efficace, il vissuto rimarrà “conflittuale” e il programma attivo, con l’effetto di un funzionamento viscerale simpaticotonico, solo quando la risposta sarà efficace verrà percepita emotivamente come “conflittolisi” (“il problema è, finalmente, risolto!”) con l’evoluzione del programma nella direzione del recupero e della riparazione, con l’effetto di un funzionamento viscerale vagotonico, fino al ripristino della normalità.
Con la legge ferrea del cancro, crolla, quindi, l’idea millenaria che la malattia è un’entità: la malattia non è qualcosa, ma un programma di funzionamento speciale di organi e tessuti, tipico di una funzionalità modificata di tipo neurovegetativo; come lo definisce Hamer è un funzionamento speciale, finalizzato ad uno scopo biologico, in quei frangenti ove non abbiamo altra possibilità di risposta, in quello stato di inibizione dell’azione che già Laborit aveva individuato come pre-condizione di malattia. Il sistema nervoso autonomo o vegetativo, però, non altera il “terreno” su cui s’impianta un’entità denominata malattia, come sostiene da sempre la Medicina Psicosomatica, ma modifica direttamente il funzionamento degli organi, dal momento che direttamente sono regolati da esso.
La malattia non è, quindi, un “parassita” cattivo della natura ma corrisponde alla modificazione funzionale di quello stesso “terreno” così caro agli psicosomatisti, cioè degli organi e dei tessuti. La modificazione avviene con una sequenza precisa e sensata e assolve al compito biologico implicito nel contenuto emotivo-viscerale dello shock. Ad esempio: perdo un figlio, devo riprodurmi; oppure: ho inghiottito qualcosa di indigesto, devo digerire di più; oppure: qualcosa mi ha intossicato, devo evacuare e rigettare subito, e così via.
Un vero e proprio cambio di paradigma!
OLTRE IL DUALISMO MENTE-CORPO, UNA VISIONE OLISTICA.
Le leggi biologiche del dott. Hamer ribaltano totalmente il vecchio paradigma della malattia, intesa come qualcosa di sbagliato, un difetto o un attacco che fosse; ma ribaltano totalmente anche il vecchio paradigma nel quale mente e corpo sono due entità separate.
La malattia è un processo di funzionamento speciale dell’organismo. La DHS è la chiave che apre questo processo denominato “programma SBS”. Un evento emotivamente significativo attiva una risposta automatica per facilitare l’adattamento.
Ma la chiave non esiste se non in relazione alla sua serratura e, come sostiene Damasio, “non c’è mente senza il corpo”. La DHS, quindi, non è un evento slegato dal programma SBS; la DHS è intrinsecamente legata, o, come direbbe Maturana, “strutturalmente accoppiata”, in quanto stimolo iniziale, al programma SBS. Proprio come un lato di una medaglia è strutturalmente accoppiato con l’altro. La mente, corrisponde, di fatto, all’evento fisico: l’evento psichico, infatti è un lato della medaglia dove l’altro lato è rappresentato dalla configurazione neuronale attivata di una mappa corporea in uno stato particolare.
“Non c’è mente senza il corpo”: questo visione che, finalmente, connette, anziché separare, è magnificamente condensata nel terzo assunto della legge ferrea di Hamer. Il programma SBS procede in maniera sincrona sui tre livelli psiche, cervello organo: tre facce della stessa medaglia.
Ma c’è di più! Il superamento del dualismo mente-corpo ci apre, anche, una visione filosoficamente nuova: ci porta ad una comprensione ancora profonda del paradigma olistico, che dagli inizi del secolo scorso, con le acquisizioni della fisica quantistica, della cibernetica e di altre discipline ha lentamente e gradualmente iniziato a far scricchiolare tutta l’impalcatura dualistica su cui si è fondato il pensiero occidentale, filosofico e scientifico, negli ultimi secoli. Sinonimi di “paradigma olistico” sono: “paradigma sistemico”, oppure “relazionale”, oppure “ecologico” (Capra, 1996). Non è sufficiente, quindi, aggiungere uno psicologo ad un’equìpe per avere un approccio olistico al paziente! È necessario entrare in un paradigma di pensiero completamente diverso, e questo vale per chiunque si avvicini al paziente: infermiere, medico o psicologo che sia.
Una visione olistica comporta necessariamente il superamento anche del dualismo spirito-materia.
Cosa caratterizza gli organismi viventi dagli oggetti? Qual è la differenza tra la sostanza “animata” e quella “inanimata”? Per Gregory Bateson, uno degli scienziati che maggiormente hanno segnato la storia del pensiero del secolo scorso, ciò che distingue i fenomeni puramente materiali dagli organismi viventi è che questi ultimi hanno la capacità di trattare le informazioni, mentre nel mondo materiale, non vivente, si reagisce alle forze, agli impatti e agli scambi di energia.
Ma, cos’è un’informazione? Bateson sostiene brillantemente che “un’informazione è la differenza che fa la differenza”, cioè è una differenza che è significativa (Bateson, 1979). Ma come fa un’informazione ad essere significativa? Solo, quindi, se la differenza viene percepita. L’informazione è, quindi, usando sempre i termini di Bateson, una “differenza captata”, una differenza che viene percepita da un organo sensoriale; dunque, l’informazione è una differenza che provoca una reazione nell’organismo, la più semplice delle quali è l’attivazione di un neurone. Per l’informazione, quindi, serve una differenza ed un recettore capace di recepirla: una chiave ed una serratura.
I sistemi sensoriali, quindi, non “portano” meccanicamente informazioni – perché le informazioni non sono “cose” – ma captano le differenze; i recettori permettono, così, che differenze, dall’esterno o dall’interno, diventino informazioni, ovviamente indipendentemente dal fatto che siano coscienti o inconsce.
La chiave è quindi un’informazione ed il recettore è la sua serratura. La differenza diventa informazione solo se esiste un recettore capace di captarla. Su questo si fonda, come sottolineavo precedentemente, la prospettiva costruttivista, secondo la quale la conoscenza dipende da colui che conosce, ovvero il conoscitore influenza il conosciuto. “La mente non conosce il mondo ma ne specifica uno” – sostiene Maturana. La conoscenza è una costruzione della mente.
Ma la differenza non è una “cosa”. È un rapporto. Come fa un’astrazione, come è la differenza, a interagire con la materia? È qui che si è impantanato Cartesio; infatti, non l’ha spiegata: ha semplicemente separato le “res cogitans” dalle “res extensa”.
La differenza non interagisce con la materia se non nel momento in cui si crea un accoppiamento strutturale, ovvero fintanto che non si determina una relazione tra le due; e quando parliamo di relazione, siamo, quindi, nel dominio “meta-fisico” del “”, ovvero non di ciò che è ma di ciò che accade tra. Nell’incontro si genera qualcosa, un processo vitale.
Cos’è, quindi, una DHS? Un’informazione, una chiave, una differenza che fa la differenza per la serratura specifica, cioè per un sistema emotivo specifico. Una non esiste senza l’altra se non all’interno di una relazione tra individuo e ambiente, relazione che rappresenta la sostanza stessa dell’esistenza.
Nel paradigma olistico lo spirito non esiste senza la materia dal momento che lo spirito è una “qualità emergente dell’organizzazione della materia”; non è nelle cose ma accade tra le cose e ci riporta, quindi, alla relazione tra gli elementi, piuttosto che all’essenza degli elementi.
La legge ferrea del cancro di Hamer ci spiega perché ci si ammala; tutto inizia in quel fenomeno denominato DHS.
Ora sappiamo esattamente cosa succede in quel fenomeno, ma la comprensione della DHS ci porta di fronte a qualcosa che è molto di più che “l’etiologia di una malattia”. Ci mette di fronte ad una legge della natura ed, in quanto tale, ad una comprensione più profonda degli organismi viventi e del miracolo della vita.
Per questo non esiste, né potrà mai esistere una terapia “preconfezionata” di Hamer: la Nuova Medicina Germanica non è un “metodo di cura” quanto una “prassi terapeutica” che scaturisce dalla consapevolezza di questo miracolo e del suo intrinseco divenire, specifico per ogni individuo, unico ed irripetibile, e che procede al di là dei giudizi di bene o male, o, come si usa in medicina, di “benigno” o “maligno”.
Ma la prassi terapeutica è un argomento sicuramente troppo importante per non diventare oggetto di approfondimento in un numero futuro di Psiche Cervello Organo.
BIBLIOGRAFIA
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Fonte: Da Stampalibera del 1 aprile 2011 -22 luglio 2011 - 2 agosto 2011
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