San Clemente Romano
Excursus: i Padri Apostolici
Arrivati a questo punto, mi sembra doveroso operare una digressione di approfondimento relativa ai padri apostolici. Con l’espressione “padri apostolici” (coniata dal patrologo laico J. B. Cotelier nel 1672 quando pubblicò il Sanctorum Patrum qui temporibus apostolicis floruerunt ... opera edita e non edita), in senso stretto, si suole indicare gli scrittori dell’antichità cristiana, che hanno conosciuto gli Apostoli.
Tali sono certamente i tre maggiori Padri apostolici: s. Clemente Romano, vescovo di Roma dal 92 al 101; s. Ignazio, vescovo di Antiochia, morto a Roma (divorato dalle fiere al Colosseo?) verso il 110; s. Policarpo, vescovo di Smirne, nato verso il 70 e morto verso il 156 sotto l’impero di Antonino Pio. Se invece intendiamo l’espressione in senso ampio, essa vuole indicare gli scrittori ecclesiastici dalla fine del primo secolo alla prima metà del secondo secolo.
Quindi secondo questa accezione alla lista dei Padri apostolici dobbiamo aggiungere: Pseudo-Barnaba (perché sconosciuto l’autore di questa lettera), Erma (autore de Il Pastore), l’autore della Didachè, l’autore ignoto della Lettera a Diogneto, Papia vescovo di Gerapoli, sebbene questi ultimi due siano compresi anche tra gli apologisti.
Una nota importante: questi scrittori cristiani costituiscono il primo anello consolidato della Tradizione, nelle cui opere appare chiaro come fu ricevuta, compresa e vissuta la fede trasmessa dagli Apostoli.
L’interesse per gli scritti di questi padri, le cui opere dal periodo tardo antico caddero completamente dimenticate, fu destato dalla Riforma nel XVI secolo: i protestanti, separandosi dalla Chiesa di Roma, rifiutavano di riconoscere la fede apostolica dei cattolici. Emerse quindi in campo cattolico l’esigenza di conoscere la fede della Chiesa primitiva e se tale fede fosse stata conservata fedelmente dalla Chiesa cattolica.
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Da Traiano a Filippo l’Arabo (98-249): conquirendi non sunt
L’atteggiamento nei confronti dei cristiani da parte degli imperatori visti sopra, ci dispone a capire come secondo quest’ultimi non ci fosse una netta avversione nei confronti del cristianesimo medesimo, sebbene tale atteggiamento accomunasse in sé una certa ostilità verso la nuova religione. Questa incertezza viene a palesarsi nella politica propria dei singoli imperatori, specialmente sotto gli imperatori “adottivi” o “antonini”, i quali ressero l’Impero nel tempo del suo massimo splendore.
Traiano. Fu uno tra i più grandi imperatori romani, se non anche il più grande. Con lui l’Impero giunse alla sua massima espansione. Traiano adottato da Nerva nel 97 gli successe al soglio imperiale nel 98.
Da buon amministratore, promosse opere pubbliche e godette del sostegno del Senato. In due campagne (101-102 e 105-106) conquistò la Dacia. Dopo l’annessione dell’Arabia Petrea (105-106) iniziò (113) la spedizione contro i parti conquistando Ctesifonte (116) giungendo sulle coste del Golfo Persico.
La sua politica riguardo la questione cristiana è profondamente ambigua, indice della sua incertezza. Ciò lo si desume chiaramente dal suo rapporto epistolare con il proconsole di Bitinia e Ponto, Plinio il Giovane (anno 111-113).
Questo scambio epistolare è documento significativo per comprendere la situazione dei cristiani, non solo dal punto di vista giuridico ma anche sociale.
Lettera 96 del carteggio con Traiano, (Epistolario, lib. X):
Gaio Plinio all’imperatore Traiano.
È mia usanza, o signore, riferirti tutto ciò di cui sono dubbioso. Chi infatti può meglio di te reggere la mia incertezza o illuminare la mia ignoranza. Io non fui mai presente a processi fatti contro i cristiani (vi erano dunque stati dei processi) e perciò ignoro in che cosa e sin dove sia abitudine castigarli o inquisirli (egli ammette la sua ignoranza giuridica in questo campo, ma ha l’idea che con il cristianesimo si collega un qualche procedimento giuridico). Per cui è anche incerto se sia da ammettersi una qualche differenza tra le diverse età e se i fanciulli, per quanto ancora teneri, debbano essere trattati come i più forti. Se si debba perdonare a chi si pente o se a chi abiura di essere cristiano nulla giovi non esserlo più. Se si punisca il solo nome [di cristiano] anche se non vi siano delitti o se siano soggetti al castigo per i delitti connessi a quel nome. Frattanto con quelli che mi sono stati denunciati come cristiani io ho agito in questo modo: li interrogai se fossero cristiani, se confessarono di sì, io feci loro due o tre volte la stessa richiesta minacciandoli di morte (supplicium, cioè condanna a morte), se persistevano li condannavo (duci iussi = la condanna viene immediatamente eseguita, mediante decapitazione con la spada, come nel caso dei martiri scillitani, per i quali il procuratore proclama, con le stesse parole di Plinio, “duci iuss”. Già le tardive Sententiae Pauli(1), (1: Compilazione giuridica d’inizio IV sec. le cui sentenze sono tratte dagli scritti di Giulio Paolo, uno tra i massimi giuristi romani che fiorì al tempo dei Severi (fine II sec – inizio III sec.)
lib. V, c. 21, 2: «Coloro che introducono nuove sette o religioni non razionalmente fondate che turbino le coscienze, se honestiores vengono deportati, se humiliores vengono decapitati»). E non dubitavo, infatti, qualunque cosa fosse ciò che essi confessassero, che si dovesse punire in ogni caso la pertinacia e la [loro] inflessibile ostinazione (è il diritto romano della “coercizione”, che non è dell’autorità giudiziaria, ma della polizia, cioè propria del potere esecutivo. Questa distinzione dei poteri a quel tempo non esisteva ancora, il funzionario giudiziario è anche funzionario di polizia: il potere di coercizione e di giurisdizione sono nella mani dello stesso funzionario. Oltre al potere della coercitio era anche prevista la possibilità di giudicare. La obstinatio e la pertinacia si configurano come una forma di “disprezzo della corte”; che la punibilità di tale atteggiamento non risultasse codificata da leggi specifiche era irrilevante nell’ambito della coercitio del magistrato). Vi furono altri ugualmente pazzi, i quali, perché erano cittadini romani, li posi nella lista per inviarli a Roma (quindi, tra i cristiani ci sono anche dei cittadini romani, i quali, appellandosi alla lex Iulia de vi publica, ricorrevano al diritto di farsi giudicare dall’Imperatore). Quindi diffondendosi questo crimine sorsero vari casi (species = caso giudiziario, ciò che richiedeva un’inchiesta giudiziaria). Mi fu consegnato un libello anonimo dove erano scritti i nomi di molti, i quali, in seguito, negarono di essere o di essere stati cristiani poiché [secondo la formula] seguendo il mio esempio invocarono gli dei (praeeunte me è difficile rendere in italiano. Il verbo praeeo vuol dire “precedere”, e figurativamente “guidare”, ma anche “dettare”, “suggerire” e “recitare per primo”. In quest’ultimo caso il verbo assume anche una coloritura giuridica, poiché è applicato nei casi in cui si debba ripetere, da parte di qualcuno, una formula di giuramento suggerita dal magistrato o dal sacerdote. Quindi, Plinio, nelle sue piene facoltà investigative e giudiziarie, pronunciava una frase per volta di una formula di invocazione agli dei, imponendo agli indagati di ripeterla. Ciò gli permetteva di verificare se fossero fedeli agli dei o se fossero stati cristiani), offersero vino e incenso alla tua immagine che avevo fatto collocare insieme ai simulacri dei numi, e inoltre maledicevano Cristo, cose alle quali, si dice, non possono piegarsi quelli che si dicono veramente cristiani (una buona testimonianza, involontaria, di Plinio per i cristiani di questa regione e di questo tempo), ho ritenuto che dovessero essere rilasciati. Altri, indicati da un delatore, dissero di essere cristiani e dopo lo negarono. Lo erano stati, ma poi avevano smesso, alcuni da tre, altri da più anni, qualcuno perfino da vent’anni (tale affermazione ha indotto alcuni studiosi a ipotizzare una prima persecuzione anticristiana in Bitinia o nel Ponto al tempo di Domiziano. E allora perché non immaginarne una anche tre anni prima dell’invio di Plinio in Bitinia?). Anche tutti costoro hanno adorato la tua immagine e le statue degli dèi, e maledissero Cristo.
Essi affermavano che tutta la loro colpa o il loro errore erano consistiti nell’essere soliti radunarsi in un giorno stabilito, prima del sorgere del sole, di cantare, alternandosi in cori, un inno a Cristo, come ad un dio, e di obbligarsi con giuramento non a compiere delitti, ma di non commettere ruberie, ne latrocini, ne adulteri, di mantenere la parola data e di restituire il deposito (non congiurano per commettere qualche delitto, ma di astenersi). Dopo aver compiuto queste cose, era loro costume andarsene per riunirsi poi di nuovo per consumare insieme un pasto (l’agape eucaristica), ma ordinario e innocente. Tuttavia da tutte queste cose si erano astenuti dopo il mio editto che secondo i tuoi ordini aveva vietato le associazioni (cioè le eterìe. Tutte le associazioni celebrano il loro momento saliente nel pasto in comune. Quindi da qui si potrebbe ben capire che la persecuzione contro i cristiani fosse motivata dal fatto che essi appartenessero ad un'associazione religiosa proibita. Cicerone nel De legibus, lib. II, c. 9, aveva affermato: «Nessuno abbia nuove divinità particolari, se non sono state accolte dall’autorità dello Stato». Comunque sia, il potere romano aveva da sempre paura che le associazioni, anche quelle professionali, in quanto potevano diventare il luogo di aggregazione delle scontentezze e quindi si trasformassero in gruppi ostili allo stato. Nell’epistolario si trova un caso specifico nel quale Traiano vieta la formazione di un corpo dei vigili del fuoco). Ho creduto tanto più necessario, anche per mezzo della tortura di due schiave (= ex duabus ancillis) che erano chiamate ministre, di conoscere la verità (ancora un’ottima testimonianza dei cristiani antichi. Plinio qui rende con il termine latino “ministra” il termine greco “diàkonos”. Di una donna “diàkonos” si parla anche Rom. 16, 1. Le cosiddette “diaconesse” erano in genere delle vedove di almeno 60 anni – 40 dopo il concilio di Calcedonia – alle quali venivano affidati compiti di assistenza e di istruzione per la preparazione al battesimo delle donne. È un’istituzione tipica della Chiesa Orientale, mentre in Occidente, quelle che più tardi verranno chiamate diaconesse, saranno soltanto delle beghine). Ma non venni a scoprire altro che una superstizione cattiva, eccessiva (siamo alla presenza dell’atteggiamento classico del pagano colto di fronte al cristianesimo: superstitio prava et immodica).
Perciò, sospeso il processo, sono ricorso a te per consiglio. La cosa mi è parsa degna di tale consultazione, specialmente per il grande numero di accusati. Infatti sono e saranno molti di ogni età, ordine e sesso, ad essere chiamati in processo. Non solo nelle città, ma anche nelle borgate e nelle campagne si è diffuso il contagio di questa superstizione, la quale [mi] sembra che possa essere fermata e corretta (Plinio mostra la speranza che la nuova religione si possa fermare). Certo già si vede che, vicino ai templi fino a questo momento desolati, cominciano a essere di nuovo frequentati, e i sacrifici solenni, da tempo interrotti, vengono ripresi, e ovunque si vende [la carne] delle vittime, che fino ad ora trovava scarsi acquirenti. Da ciò è facile dedurre quale sia la folla di persone che può essere guarita, se si dà loro la possibilità di pentirsi (da qui si può dedurre il numero delle persone che possano emendarsi o pentirsi: Plinio suggerisce all’Imperatore di perdonare coloro che si pentono).
Questi i problemi e i dubbi manifestati da Plinio a Traiano.
Nel suo Epistolario, Plinio riporta anche la lettera di risposta inviatagli da Traiano (Lettera 97). Dal punto di vista giuridico tale scritto è un rescritto(2).
(2: Esistono 4 diversi tipi di documenti che solo ai tempi di Diocleziano e di Costantino (300 circa) perderanno la loro distinzione confluendo nel constitutum. Essi sono l’editto (edictum), il mandato (mandatum), il decreto (decretum), il rescritto (rescriptum).
L’editto è quel tipo di legislazione che l’imperatore emana per tutto l’Impero.
Il mandato è una disposizione imperiale indirizzata ad un determinato funzionario; l’iniziativa di tale disposizione parte dall’imperatore stesso.
Il decreto è una decisione imperiale riguardante un processo che, avviato da un funzionario, trova la sua soluzione solo davanti all’imperatore.
Il rescritto è una risposta per iscritto da parte dell’imperatore ad una domanda inoltrata da un funzionario relativamente ad un caso giudiziario. Di per sé tale risposta perdeva il suo vigore sia al momento dell’esonero del funzionario, sia alla morte dell’imperatore stesso, ma in realtà, qualora non ci fossero stati altri pronunciamenti, poteva costituire un precedente giuridico per i posteri.)
Traiano a Plinio salute.
Tu hai agito come dovevi, o mio secondo, nell’esaminare le cause di coloro che ti furono denunciati come cristiani. Poiché non è possibile stabilire una norma universale (ciò dimostra che né Plinio né Traiano conoscessero una «legge» di condanna del cristianesimo. Ciò contraddice la teoria dell’institutum Neronianum) che abbia per così dire valore di norma fissa. [I cristiani] non devono essere perseguiti d’ufficio (conquirendi non sunt – vi sono dei delitti che, per la loro oggettiva gravità, lo stato deve perseguire, anche senza un’accusa privata, quindi ex ufficio). Ma se saranno accusati e riconosciuti colpevoli si devono punire. Tuttavia se qualcuno negasse di essere cristiano e lo rendesse manifesto, cioè con il supplicare (= adorare) i nostri dèi, benché sospetto per il passato, a causa del suo pentimento, ottenga il perdono (veniam ex penitentia impetret: non esiste nulla di simile nel diritto penale romano. Un comportamento assai strano: nel caso di un assassino lo stato sicuramente non rinuncerebbe a colpire il colpevole, anche se pentito. Nel nostro caso, però, il pentimento, per essere stato cristiano, fa scattare la sospensione della condanna. La procedura eccezionale riflette la peculiarità della situazione). Quanto poi alle denuncie anonime, esse non devono aver valore in nessun crimine. Infatti ciò è di pessimo esempio e indegno del nostro tempo (perché era necessaria la presenza dell’accusatore al processo).
Alcune considerazioni.
Dalla lettera di Plinio si può conoscere come i cristiani, in Bitinia e nel Ponto, venissero in vari casi denunciati. In questa circostanza, appare chiaro come le autorità non avessero a disposizione una legge imperiale. Infatti sia Plinio sia Traiano non solo non fanno alcun cenno all’esistenza di una legge simile, ma oltremodo sono anche molto incerti su come procedere nei confronti dei cristiani denunciati. Ciò contraddice la teoria dell’esistenza di un institutum Neronianum (Tertulliano).
Inoltre, mancando una legislazione generale per i cristiani, Plinio era nel dubbio se il cristiano fosse giudicabile per il nomem ipsum o per le solite accuse legate a questo nome. Alla fine si opterrà che se la confessione della fede cristiana fosse stata mantenuta davanti al suo tribunale e provata attraverso il rifiuto di sacrificare agli dèi e all’Imperatore, già in forza del potere della coercitio, sarebbe stata punita con la morte poiché eguagliata al delitto di resistenza contro lo stato (crimen laesae maiestatis).
Nella sua risposta Traiano approvò, nei punti essenziali, il comportamento e la prassi di Plinio, senza tuttavia voler dare un regolamento generale. Ribadiva che non si dovevano ricercare i cristiani, conquirendi non sunt: solo se fossero stati denunciati e si fossero dichiarati tali, solo allora dovevano essere condannati, ma coloro che avessero invocato gli dèi potevano essere rilasciati. Proibì di procedere su una denuncia anonima. Per adesso, la decisione di Traiano interessa solo i territori sottoposti all’amministrazione di Plinio.
Perché allora questo rescritto assunse per l’avvenire una così grande importanza?
Questo rescritto venne inserito nell’epistolario pubblicato dal grande letterato Plinio, per fornire agli altri funzionari, un bagaglio di esperienze giuridiche a cui riferirsi. Tra questi casi giuridici c’era anche l’istruttoria elaborata da Plinio, e poi approvata da Traiano, nei confronti di sudditi accusati di essere cristiani. Consultando tali pagine, i magistrati ne avrebbero tratto un’idea generale di come ci si sarebbe dovuti comportare a livello giuridico verso i cristiani. Il rescritto avrebbe dovuto perdere il suo vigore già nell’anno 113 (è forse anche l’anno della morte di Plinio stesso), cioè al momento del termine del mandato di Plinio, tuttavia tale procedura determinerà la mens giuridica dei magistrati fino al 250, quando al suo posto Decio varerà una legislazione per una inquisizione dei cittadini empi/atei organizzata su scala imperiale, sostituendo il non sunt conquirendi con il sunt conquirendi. (3) (3: Un’accusa fatta ai cristiani dai pagani è appunto quella di empietà o ateismo: non credendo alle tante divinità pagane, ma ad un solo Dio, appariva come un crimine di ateismo e di offesa alle divinità per cui il governatore politico si sentiva in obbligo di intervenire in ambito giudiziario e penale.)
Adriano.
Adottato da Traiano, gli succedette nell’agosto del 117 e diresse l’Impero fino al 138. Imperatore saggio e lungimirante, si distinse dal suo predecessore per una politica non più di conquista ma di conservazione e difesa dei limes imperiali.
Nei riguardi dei cristiani questo imperatore sembra essere stato molto tollerante. Sia Eusebio (Historia ecclesiastica, lib. IV, 9, 13) che Giustino (Apologia I, 68, 6) ci hanno conservato il rescritto che Adriano inviò al proconsole d’Asia Minucio Fundano (4) (4: Era amico di Plutarco. Iniziò il suo proconsolato in Asia nel 124-125.) in risposta ad una lettera del predecessore di Fundano, Silvano Graniano. Il tenore della lettera che questi scrisse ad Adriano non ci è pervenuto. Si può ipotizzare, desumendo dalla risposta dell’Imperatore, che Graniano avesse domandato chiarificazioni sul modo di procedere nei riguardi dei cristiani denunciati. In effetti il rescritto di Adriano sembra manifestare la preoccupazione dell’Imperatore per un corretto procedimento processuale nei casi intentati contro i cristiani: tali processi devono svolgersi secondo le leggi, sulla base di accuse circostanziate e non obbedendo ai rumori incontrollati del popolino.
Ma il problema di fondo rimane: che cosa intende Adriano quando parla di «petizioni contro i cristiani»? Intende qui il crimine di essere cristiani o i crimini commessi dai cristiani? Certo è che l’espressione è fortemente ambigua. Stando a quelle che sono le notizie che ci provengono dagli apologeti e dagli atti dei martiri, non ci sono dubbi: durante tutta la reggenza di Adriano i cristiani in sé, cioè per il nomen ipsum (cioè per il fatto stesso di essere cristiani), venivano perseguitati e puniti.
Un’ultima cosa: anche per Adriano, come lo fu per il suo predecessore Traiano, il problema dei sicofanti è sempre un grave inconveniente contro il quale si richiede la massima severità.
A Minuccio Fundano
Ho ricevuto le lettere indirizzatemi dal tuo predecessore Serennio Graniano (= Quinto Licinio Silvano Graniano, errore dovuto ai copisti) uomo nobilissimo, di cui tu sei successore.
Il mio parere è che non si debba lasciar passare inosservata tale cosa affinché gli uomini non siano molestati e non si lasci libero corso ai sicofanti (sicuramente la domanda fatta da Graniano riguardava come comportarsi riguardo alle denuncie anonime). Se dunque gli abitanti della provincia intendono insistere in questa loro petizione contro i cristiani in modo chiaro, fino a sostenerla davanti al tribunale, il solo luogo dove possano rivolgersi, devono farlo però non con petizioni e con schiamazzi (è necessaria una accusa precisa, chiara, da provare, fatta da un accusatore. Nel processo romano è sempre necessaria la persona reale che proferisca l’accusa, quindi giuridicamente responsabile dell’accusa). Nel caso che qualcuno voglia denunciare altri è cosa migliore istruire un regolare processo e quindi se qualcuno prova che la sua accusa è veritiera cioè che l’accusato trasgredisce le leggi (c’è da chiedersi quali leggi? Una legge che proibisca il nomen ipsum? Oppure atti che contravvengono alle comuni leggi dell’ordine pubblico?), solo allora tu ti pronuncerai punendo secondo la gravità del crimine. Ma se, per Ercole!, qualcuno fa un esposto del genere con il solo pretesto di calunniare, tu deciderai secondo la gravità e lo (= il calunniatore) punirai a dovere.
Per concludere: presso gli imperatori “adottivi” non è esistita una legislazione che cambiasse la situazione giuridica dei cristiani. Il vescovo Melitone di Sardi afferma che l’imperatore Antonino Pio (138-161) «non cambiò nulla riguardo a noi (cristiani)». Lo stesso vale per Marco Aurelio e per suo figlio Commodo: non cambia nulla di ciò che fu stabilito da Traiano con il suo rescritto.
Sul piano giuridico si può chiaramente affermare che la situazione rimaneva immutata anche per il tempo della dinastia dei Severi (complessivamente dal 193 al 235: Settimio Severo, Caracalla, Eliogabalo, Alessandro Severo).
Si deve però segnalare che sotto l’impero di Alessandro Severo (222-235) si giunse ad una tolleranza tale che rasentava la legittimazione di fatto. Infatti l’intelligente madre dell’imperatore, Giulia Mamea, nutriva esplicite simpatie per il cristianesimo, tanto che una leggenda del V sec. dice che fosse cristiana. Durante un suo soggiorno ad Antiochia, ella vi convocò Origene per parlare con lui di questioni religiose, ed Ippolito di Roma poté dedicare a lei uno dei suoi trattati.
Questa tolleranza si rifletté sul comportamento dell’imperatore adolescente che tollerò numerosi cristiani nella sua cerchia più stretta e che affidò al cristiano Giulio Africano la costruzione della biblioteca al Pantheon.
La sua tolleranza politico-religiosa viene felicemente caratterizzata dal suo biografo nella Historia Augusta quando dice che egli lasciò agli ebrei i loro privilegi e tollerò l’esistenza dei cristiani. È significativo che nessun processo contro cristiani e nessun martirio di cristiani possa assegnarsi con sicurezza al tempo di Alessandro Severo.
Una reazione si produsse soltanto sotto l’ex ufficiale della guardia Massimino Trace (235-238). Essa colpì per prima i numerosi cristiani che erano a corte, ma come Eusebio sottolinea aveva di mira soprattutto i capi della Chiesa.
Le lotte per il potere tra i successivi imperatori militari non lasciarono loro il tempo di occuparsi della questione cristiana.
Con Filippo l’Arabo (244-249) arrivò al trono un sovrano il quale dimostrò una tale simpatia per i cristiani che parve possibile una completa conciliazione tra l’autorità statale romana e il cristianesimo. Alcune dicerie hanno diffuso la notizia che egli avesse abbracciato il cristianesimo. Nonostante tale vicinanza dell’imperatore ai cristiani, nell’anno 249 si ebbe un’esplosione di furore popolare in Alessandria contro i membri di quella chiesa, ciò che fece perdere a molti di loro ogni avere ed a parecchi costò la vita per essersi rifiutati di fare oltraggio alla propria religione.
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A questo punto si potrebbe anche trarre una prima conclusione a chiusura di questa panoramica storica dei rapporti tra l’Impero e il cristianesimo nei primi 250 anni di storia della Chiesa. Si evince chiaramente che non esiste una legge che regoli uniformemente la condotta dello stato romano verso i cristiani. Dallo stato d’animo ostile della popolazione pagana si viene formando l’idea che l’essere cristiano sia inconciliabile con le consuetudini dell’Impero romano e quest’idea dà origine ad una specie di massima giuridica che rende possibile alle autorità romane punire l’appartenenza al cristianesimo in quanto tale. Le persecuzioni che ne derivano hanno un carattere soltanto locale e sporadico e si rivolgono contro i cristiani a livello di persone singole. Esse sono per lo più provocate da tumulti della popolazione pagana che inducono così l’autorità statale ad intervenire approvando il fatto compiuto. Il numero delle vittime rimane relativamente basso.
Una certa tranquillità si ebbe nella prima metà del III secolo. Ciò dimostra chiaramente che le fasi di una coesistenza realmente pacifica e talvolta anche di una positiva tolleranza furono prevalenti rispetto alle vampate di persecuzione. Soltanto in un caso si può costatare inizi di un procedimento metodico ai danni del cristianesimo: quando Massimino Trace intervenne contro i capi delle comunità cristiane. Per il resto l’incoerenza e l’asistematicità nel modo di procedere contro singoli cristiani tradisce l’incerta politica religiosa delle massime autorità statali e dei funzio-nari provinciali.
La possibilità di un’intesa definitiva tra Impero e Chiesa, che si era delineata sotto Filippo l’Arabo, divenne repentinamente un’utopia quando verso la metà del secolo assunse il potere l’imperatore Decio (249-251), deciso a ridonare allo stato romano, anche mediante la restaurazione dell’antica religione romana, il suo antico splendore.
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Excursus: gli Apologisti
A questo punto, essendo giunti a metà del terzo secolo della storia della Chiesa, è opportuno accennare ad alcuni aspetti che approfondirete in altri corsi. È il caso degli Apologisti.
Chi erano? In tempo di persecuzione, sono quegli scrittori che difendono la religione cristiana contro il paganesimo e il giudaismo.
A tale scopo ricorrono alle categorie culturali coeve (filosofia tardoplatonica e stoica): cristianizzazione dell’ellenismo.
Letterariamente rispondono alle regole della retorica greca.
I destinatari delle loro opere sono i pagani facoltosi, spesso gli imperatori stessi, controbattendo agli attacchi calunniosi provenienti dal popolino e dai pagani colti del tempo (Frontone, Luciano di Samosata, Celso).
La loro dimostrazione si argomenta: sulle predizioni di Cristo (Logos incarnato), dei profeti e la maggiore antichità di quest’ultimi rispetto agli autori pagani; la vita maggiormente etica dei cristiani rispetto ai pagani; attacco alla mitologia e all’immoralità pagana.
Chi sono?
Quadrato. Originario dell’Asia Minore, nel 123-124 indirizza un’apologia all’imperatore Adriano. Di essa è sopravissuto un frammento tramandatoci da Eusebio.
Aristide di Atene. Filosofo cristiano ateniese, dedicò la sua Apologia all’imperatore Adriano. L’idea di fondo: la religione pagana sia dei barbari sia degli ellenisti è inconciliabile con il vero concetto di Dio, nonché deleteria della moralità. Pertanto solo la religione della “quarta stirpe” (1° barbari, 2° greci, 3° giudei) è la più pura e secondo verità.
Giustino (santo) (5). (5: G. GIRGENTI, Giustino Martire. Il primo cristinano platonico. Con in appendice “Atti del martirio di San Giustino”, Milano: Vita e Pensiero 1995.). Originario di Flavia Neapolis (Sichem) da famiglia greco-pagana, fu martirizzato a Roma (verso il 165). Nell’Urbe aveva fondato una scuola filosofica dove teneva pubbliche lezioni e dibattiti. Sembra che la condanna alla decapitazione, impartitagli da prefetto Rustico, sia dovuta ad un accesa disputa avuta con il filosofo sofista Crescente il quale, sconfitto, lo denunciò alle autorità. È il principale apologista del II° secolo. Difende la religione cristiana contro i pagani (le due Apologie) e contro i giudei (Dialogo con Trifone). In questo intento cerca di armonizzare il contenuto della rivelazione con il pensiero di Platone e di Filone. Incappa in manchevolezze ed errori, specialmente per quanto riguarda la dottrina del Logos. Delle otto opere che egli compose, stando a quanto riferito da Eusebio, ci sono pervenute solo la Prima e la Seconda Apologia e il Dialogo con Trifone
La Prima Apologia (68 capitoli), la più antica, è rivolta all’imperatore Antonino Pio (c. 150). Confuta le accuse di ateismo, la pratica dei banchetti tiestici (cannibalismo) e dei rapporti edipoidei (incesti). Cerca di provare la natura divina di Cristo basandosi sulle profezie anticotestamentarie, fornendo nel contempo importanti notizie sul culto cristiano primitivo. Riserva un posto d’onore al platonismo.
La Seconda Apologia (15 capitoli) forse era una specie di appendice della prima. Fu provocata dalla condanna a morte di tre cristiani. Affronta la questione sulla protezione divina ai cristiani: per quale motivo Dio non proteggeva i cristiani lasciandoli uccidere? Vi predomina un linguaggio stoico sebbene le idee di fondo siano platoniche.
Il Dialogo con Trifone affronta questioni relative all’Antico Testamento, la dottrina di Gesù, Figlio di Dio e Messia, e della vocazione dei gentili alla salvezza.
Taziano. Originario dell’Assiria (Siria Orientale), diventa cristiano a Roma dove è discepolo di Giustino. Verso il 172 fonda una setta gnostico-encratita, la quale non solo rigetta il matrimonio ma sostituisce l’acqua al vino nella celebrazione dell’eucaristia (setta degli Acquari o Acquariani). Di natura estremista, rigetta completamente la cultura greca, cosa questa che lo pone in netta differenza con gli altri apologisti.
Discorso ai Greci (Oratio adversos Graecos), composto nel 170 attacca pesantemente la mitologia, la filosofia e la cultura greca. Respinge la novità della religione cristiana, richiamandosi alle rivelazioni anticotestamentarie.
Compose anche il Diatessaron. Esso è un unico racconto desunto dai vangeli. Fu scritto in siriano. Detta opera è andata perduta, anche se di essa ci sono pervenuti numerosi commenti, tra cui quello di s. Efrem, che permettono una sua ricostruzione.
Atenagora. Filosofo cristiano di Atene, nel 177 stese una Supplica per i cristiani e dedicata all’imperatore Marco Aurelio e a suo figlio Commodo. Confuta le calunnie oramai classiche formulate contro i cristiani. Benevolo verso la cultura greca, è pensatore di grande qualità ed espositore chiaro del suo pensiero. Inoltre egli stese uno scritto Sulla risurrezione dei morti, la migliore di questo genere tra tutte quelle dedicate, nel tempo antico, all’argomento. Con essa Atenagora tenta di dimostrare la fede cristiana nella risurrezione del corpo, cosa questa che destava certamente scandalo in ambito greco.
Teofilo (santo). Vescovo di Antiochia al tempo dell’imperatore Commodo, compose in tre libri l’opera Ad Autolico, mediante la quale invitava un suo amico pagano ad abbracciare la fede. È in questa opera che per la prima volta un autore cattolico impiega la parola “Trinità” (Trias). Inoltre per la prima volta viene chiaramente affermato l’ispirazione del Nuovo Testamento.
Lettera a Diogneto. Peters, I, 248: «Piccolo capolavoro anonimo». Fu scritta tra il 120 e la fine del II secolo, esso è un discorso apologetico rivolta a un pagano di nome Diogneto. Vi si sottolinea l’immanenza e la trascendenza del cristianesimo e la bella condotta morale dei cristiani.
Altri apologisti: Melitone vesc. di Sardi, Apollinare vesc. di Gerapoli, Milziade, Aristone di Pella.
(fine quarta parte)
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