domenica 24 gennaio 2010

STORIA DELLA CHIESA ANTICA (3): Il CRISTIANESIMO A ROMA





Su chi sia stato il fondatore della Chiesa di Roma, niente sappiamo (come, d’altronde, non siamo in grado di dire chi fossero i fondatori di molte delle comunità del bacino mediterraneo). Essa è una fondazione pre-paolina. Dagli Atti 18,2 risulta che i cristiani Aquila e Priscilla giungono, come transfughi, a Corinto nell’anno 41 o 48/49. Questo significa che già all’inizio degli anni 40 i cristiani erano a Roma in seguito all’azione missionaria svolta dai giudeocristiani ellenisti. Quindi sembra che la predicazione del vangelo a Roma sia iniziata assai presto, forse poco dopo la morte di Gesù.


Paolo si presentò a questa chiesa nella sua Lettera ai Romani. È comunque difficile dedurre dallo scritto se la comunità fosse giudeocristiana oppure cristiano-pagana. Dal saluto finale con cui Paolo si congeda nella sua Lettera ai Romani, emerge assai chiaramente che nella serie di nomi che lì egli cita (Rm 16,3-16), alcuni di questi sono dei liberti, altri giudei, altri asiatici. Da fonti posteriori (per esempio la Lettera di Clemente, fine del I secolo) sembra risultare che l’influsso del giudaismo ellenistico non fosse trascurabile, cosa presumibile anche per altri luoghi.
Tre momenti vengono a caratterizzare la storia della comunità cristiana di Roma nel corso del I secolo. Questi tre momenti si contrassegnano per il rapporto-scontro che lo stato romano, personificato dagli imperatori, ha avuto con i membri di questa comunità: le prime tre persecuzioni intraprese dagli imperatori Claudio (41-54), Nerone (54-68) e Domiziano (81-96). 


Da Claudio a Domiziano (41-96) 


Claudio. Successe a Caligola (37-41), suo nipote, per nomina dei pretoriani ed avvallo del Senato. Claudio aveva comprensione e rispetto per la comunità cultuale giudaica; era suo amico Erode Agrippa (morto nel 44; cfr At. 12,21-23).
Verso il 49 Claudio cacciò i giudei da Roma. Sotto quale accusa? Le solite nebbie avvolgono questo primo provvedimento anticristiano dell’Impero. Lo storico Svetonio ci dice solo che «Claudio espulse da Roma i giudei, i quali spesso tumultuavano sotto la spinta di Chrestus (iudaeos impulsore Chresto assidue tumultuantes Roma expulit) »(2). (2: C. SVETONIO TRANQUILLO, Vite dei Cesari, lib. V, c. 25. ).
Non c’è dubbio che Svetonio dipenda qui da ottima ed antichissima fonte: una fonte la quale non ha capito (e proprio per questo si rivela antichissima, precedente comunque alla persecuzione neroniana, che rese ben nota la personalità di Gesù Cristo) che si trattava di seguaci di Cristo, non già di ribelli spinti da un certo Chrestus. I giudeocristiani di Roma avranno detto di sé (più o meno, come una delle già ricordate fazioni dei Cristiani in Corinto): «io sono di Cristo». E così la fonte di Svetonio (e così pure moltissimi pagani di questo periodo) avrà creduto che Cristo, anzi Chrestus, fosse un qualunque impulsor di tumulti giudaici in Roma. Da ciò si può dedurre che egli punisse i giudei per punire i cristiani. Si può addirittura dire: puniva i giudei, in quanto cumulava su di essi la responsabilità della propaganda missionaria cristiana. Appunto per questo, noi possiamo e dobbiamo considerare il provvedimento di Claudio come il primo atto nello scontro fra l’Impero e il cristianesimo.
Dopo Claudio, quando ormai il giudaismo avrà ripetutamente fatto intendere che la setta cristiana è cosa ben diversa dalle vere e proprie sette giudaiche (farisei, sadducei, esseni, zeloti), le persecuzioni contro i cristiani saranno esclusivamente persecuzioni contro i cristiani: a cominciare da quella di Nerone.


Nerone. Nel 64, tornarono per questa comunità i giorni tristi. Nerone non ripeté il provvedimento di Claudio: ormai era impossibile coinvolgere tutti i giudei di Roma nella persecuzione della nuova religione cristiana. Ormai era anche chiaro che i Giudei sconfessavano definitivamente e aspramente contrastavano, questo nuovo partito giudaico: il processo di Paolo ne era la prova più clamorosa e più recente. Il 61 è l’anno del processo di appello a cui Paolo aveva fatto ricorso (At 25,11-12.21) ed è probabile che Nerone abbia accostato personalmente, proprio in questa occasione, la sostanza dell’annuncio cristiano e i suoi rapporti problematici con il giudaismo.
Nel 64 scoppiò a Roma un incendio, cosa non infrequentissima nella storia della città. Nerone riversò la colpa sulla comunità cristiana della città. I suoi membri furono sottoposti ad atroci supplizi. La fonte che narra le vicende terribili relative alla persecuzione neroniana sono gli Annales di Publio Cornelio Tacito (3); (3: P. CORNELIO TACITO, Annales, lib. XV, c. 44.)  eccone il racconto:


«Ma nessun mezzo umano, né largizioni del principe o sacre cerimonie espiatorie riuscivano a sfatare la tremenda diceria per cui si credeva che l’incendio fosse stato comandato. Per far cessare dunque queste voci, Nerone inventò dei colpevoli e punì con i più raffinati tormenti coloro che, odiati per le loro nefande azioni il volgo chiamava Cristiani. Il nome derivava da Cristo, il quale, sotto l’imperatore Tiberio, era stato condannato al supplizio dal procuratore Ponzio Pilato: soffocata per il momento, quella rovinosa superstizione che dilagava di nuovo, non solamente attraverso la Giudea, dove quel male era nato, ma anche in Roma, dove tutto ciò che c’è al mondo di atroce e di vergognoso da ogni parte confluisce e trova seguito. Ordunque prima furono arrestati quelli che confessavano la loro fede; poi, dietro indicazione di questi, una grande moltitudine di gente fu ritenuta colpevole non tanto del delitto di incendio, quanto di odio contro l’umanità. E non bastò farli morire, che fu aggiunto anche lo scherno; sicché, coperti da pelli di fiera, morivano straziati dal morso dei cani o venivano crocifissi o dovevano essere dati alle fiamme perché, quando la luce del giorno veniva meno, illuminassero la notte come torce. Per questo spettacolo Nerone aveva offerto i suoi giardini, intanto che dava un giuoco circense, mescolandosi al popolino vestito da auriga e partecipando alla corsa ritto su un cocchio. Per questo, sebbene essi fossero colpevoli e meritassero le punizioni più gravi, sorgeva verso di loro un moto di compassione, sembrando che  venissero immolati non già per il pubblico bene, ma perché avesse sfogo la crudeltà di uno solo». 


Solo Tacito (e molto tardivamente Sulpicio Severo, fra il IV e V sec.), connette l’incendio di Roma con la cruenta persecuzione neroniana, che resta tuttavia un fatto innegabile poiché Melitone di Sardi, Tertulliano ed Eusebio elencano Nerone come primo persecutore della Chiesa. Nella I lettera di Clemente, senza fare menzione di Nerone, si accenna che sia Pietro sia Paolo (con questa successione, prima Pietro e poi Paolo), e con loro una moltitudine di eletti, avevano incontrato la morte dopo crudeli tormenti (cap.li 5-6).
Quante furono le vittime di questa persecuzione? Tacito riferisce di una ingens multitudo, ma ciò sembra esagerato, anche se le vittime sembrano essere parecchie. Il prof. Vincenzo Monachino  parla di 200-300 martiri.
Manca ogni indizio che possa farci pensare che la persecuzione abbia superato i confini della città di Roma. Sembra infatti che nessuna legge speciale avesse proibito il cristianesimo come tale, l’unica accusa, a cui segue la condanna, è quella rivolta ai cristiani di essere degli incendiari.
Non prima di Tertulliano (fine II secolo) si parla dell’Institutum Neronianum: «Et tamen permansit, erassis omnibus, hoc solum institutum neronianum» (Ad nationes, lib. I, c. 7, 9). Si potrebbe intendere questo institutum, non tanto come una legge, quanto nella sua forma grammaticale: ciò che – Nerone – aveva iniziato, cioè la persecuzione dei cristiani. La maggioranza degli studiosi oggi afferma la non esistenza di una tale legge speciale risalente a Nerone, anche se alcuni, fra cui la prof. Marta Sordi, affermano il contrario. Comunque, agli occhi dei contemporanei questa condanna era vista come la proscrizione della nuova religione.


Domiziano. Secondo figlio dell’imperatore Vespasiano (69-79), successe a suo fratello Tito (79-81) nel governo dell’Impero.


La sollevazione giudaica (65-70) di Giovanni di Giscala e di Simone bar Ghiora, con la conseguente riconquista romana di Gerusalemme e la distruzione del Tempio, incrementò il distacco fra giudei e cristiani.
Alla corte flavia c’erano molte personalità conquistate dal fascino delle idee nuove, affascinate dalla gloriosa tradizione del profetismo ebraico, cui l’escatologia cristiana dava aspetto di moderna novità tale era, come sembra, il console Flavio Clemente, i cui figli erano stati destinati da Domiziano stesso alla successione; tale era anche Flavia Domitilla sposa di Clemente; (4) (4: Sembra che ciò sia conseguenza del fatto che alla corte flavia per parecchi anni aveva abitato more uxorio con Tito Berenice figlia di Agrippa I, sorella di Erode Agrippa II. Questa Berenice è colei che aveva ascoltato l’apostolo Paolo, quando questi si trovava agli arresti a Cesarea (At. 25,13. 23; 26,30). Allora Berenice, come lo stesso Agrippa II, aveva mostrato grande comprensione per Paolo e lo aveva riconosciuto innocente. L’incontro di Berenice e Paolo era avvenuto verso la fine del 59. Non è escluso che verso il 68, quando Berenice si incontrò con Tito – intento nella riconquista romana della Palestina –, le simpatie di lei per il cristianesimo fossero divenute ancor maggiori. Ad ogni modo, l’enorme influenza di lei presso Tito dovette essere benefica per la posizione degli ebrei a Roma, posizione che per se stessa era assai grave, dopo la resa di Gerusalemme strenuamente difesa e il crudele trattamento degli ebrei da parte dei vincitori (invano Tito aveva cercato di fermare la violenza dei soldati, e di salvare il “santo dei santi”). Tito si era perdutamente innamorato della bella e infamata Berenice, senza dubbio la più notevole fra le regine ellenistiche del I secolo d. C; dotata di grande influsso sul primogenito di Vespasiano, «quasi moglie di lui» (Cassio Dione). Ebrea strettamente osservante (uno dei suoi mariti, il re di Cilicia, aveva dovuto circoncidersi per sposarla), Berenice dové dunque mitigare, fin dove era possibile, l’ostilità dei romani contro gli ebrei, e anche contro i cristiani, che a Berenice dovevano apparire, più o meno, un adattamento della grande tradizione ebraica (un movimento, insomma, aperto ai gentili; e comunque, meno intransigente che la setta «zelotica» della Nuova Alleanza). Quando si vide che l’imperatore, nonostante le previsioni, tuttavia non la sposava, i circoli senatorii tradizionalisti dovettero considerare con grande ammirazione la rinuncia dell’innamorato. Certo, trassero un respiro di sollievo; non era Berenice una nuova Cleopatra per l’Impero romano? Appunto per questa loro avversione, Tito aveva dovuto rimandarla in un primo momento. Poi, ella era tornata, e tuttavia l’imperatore non la sposò. La vecchia tradizione romana poteva essere soddisfatta: l’imperatore non aveva compiuto il gran passo, il passo fatale di Marc’Antonio.)


 La tolleranza religiosa dello stato romano poteva spiegare tutto ciò: il dio giudaico, all’apparenza, non era meno straniero di altri dèi che ormai avevano culto preminente (per esempio degli dèi egizi; più tardi Svetonio accomunava, quasi fossero tutt’uno, la negligenza di Augusto per l’egiziano Api e il  disprezzo di Augusto medesimo per il dio giudaico in Gerusalemme, a motivo della circoncisione).
Ma nella pratica religiosa e nella concezione della vita, giudaismo e cristianesimo esprimevano un’esperienza religiosa ben più complessa e profonda che altre cerimonie straniere. Figure come Clemente e Domitilla non potevano conciliarsi facilmente con la tradizione romana.
Al tradizionalismo pagano queste figure, e quelle più vicine ad esse, saranno apparse come inspiegabili esempi di contemptissima inertia (così si diceva di Flavio Clemente), o addirittura anche di ateismo; come sempre accade di una realtà spirituale nuova, che si faccia strada in un mondo malato, sebbene ancora lontanissimo dalla consunzione.
Quanto poi a Domiziano, egli stesso, sebbene non fosse di quelli «senza dèi», sebbene inasprisse il fiscus Iudaicus, tuttavia non poteva essere gradito al tradizionalismo senatoriale: adoratore di Minerva-Iside, era già troppo preso da ideali ellenistici, perché i senatori si acconciassero a riconoscere, nel suo impero, quel vecchio paternalismo vespasianeo che Domiziano trasformava in vero e proprio culto di sé medesimo come dominus et deus alla maniera ellenistica.
In una situazione un po’ troppo lunga da spiegare e qui pleonastica, egli si trovò in piena rotta di collisione con il Senato. Ora per recuperare l’appoggio senatoriale scatenò quella sua famosa (anche se non violentissima) persecuzione contro i cristiani, accusati di ateismo e di «costumi giudaici». Il console Flavio Clemente, suo parente, fu una delle vittime. L’anno seguente, il 18 settembre 96, Domiziano fu ucciso dal procuratore di Domitilla e da altri congiurati.
Oltre che ai membri della famiglia del console Clemente Flavio, sempre secondo Eusebio di Cesarea, furono esiliati l’evangelista Giovanni a Patmos. Anche papa Clemente nella sua Lettera ai Corinzi accenna chiaramente alla minaccia mortale vissuta dalla comunità romana quando afferma, dopo aver richiamato la memoria del martirio di Paolo e di Pietro e molti altri, «noi ci troviamo nella stessa arena». Sebbene non risulti facile la datazione dell’Apocalisse di Giovanni il suo accenno a «coloro che avevano vinto sulla bestia e sulla sua immagine» (Ap 15,2), viene interpretata come un’allusione al culto dell’Imperatore e si inquadra bene nella cornice della persecuzione sotto Domiziano, che si era fatto proclamare dominus et deus.


(fine terza parte)

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