Dal testo di Francesco Zanotto
"Giunti i congiurati nel campo di S. Salvatore
si divisero in due schiere. La prima, comandata da Marco Quirini, si volse a
destra, e per la calle dei Fabbri, giunse sulla piazza maggiore di S. Marco. L'altra, guidata da Boemondo Tiepolo, al suono
delle trombe commisto alle grida che intuonavano con orrido suono: Morte al
doge Pier Gradenigo, avviavasi alla piazza medesima, per unirsi alla prima
schiera ora detta. Se non che le genti accorse altre sui tetti ed altre sulle
finestre, argomentando dalla vista di quegli armati, dal tumulto e da quelle
voci di eccidio essere giunto l'estremo dì per la patria alcune gittarono in
basso pietre ... "
ANNO 1310
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il
disegno di Gatteri.
Sullo sfondo dei
contrasti con le altre potenze continentali il vertice della repubblica viene
coinvolto in un tentativo di colpo di stato. Ma i congiurati che intendevano azzerare il direttivo dello Stato non
avevano fatto i conti con l'onnipresente rete di spie che permetteva a tutti di sapere tutto. Così il tentativo
fallisce anche grazie all'ostilità di non pochi veneziani, stanchi di congiure
...
(Nella
illustrazione di Giuseppe Gatteri le milizie di Bajamonte vengono ostacolate
dai cittadini che gettano mobili e pietre)
LA SCHEDA STORICA - 44
Il nuovo secolo, il
XIV, si apriva a Venezia con aspri e violenti tumulti a seguito della
catastrofica sconfitta dei Veneziani a Curzola da parte dei Genovesi nel 1298,
rovescio militare che fomentò il malcontento popolare presto represso dalla
milizia ducale.
Altre ragioni, altre segrete aspirazioni sembravano tuttavia
agitare almeno una parte della società veneziana in quei cupi, primi anni del
secolo e nelle speranze personali di qualcuno questo significava
"Signoria" della città. Ma veniamo agli antefatti.
Nel 1308 moriva a Ferrara il marchese Azzo d'Este
aprendo una grave crisi dinastica e di successione. Scavalcando i due fratelli
infatti, il marchese aveva dichiarato quale suo legittimo erede il nipote
Folco, figlio di un figlio naturale dello stesso Azzo. All'immediata violenta
reazione dei due fratelli esclusi, il padre di Folco chiese aiuto ai Veneziani
che occuparono prontamente con un contingente militare la città. Ferrara
rappresentava infatti per Venezia una base strategica sul fiume Po e già nel IX
secolo la città era stata oggetto, non a caso, delle mire espansionistiche del
ducato veneziano.
In cambio del celere aiuto il padre di Folco riconosceva e
cedeva ai veneti i diritti sulla stessa città dopo essersi accorto tuttavia, di
quello che la sua decisione aveva scatenato e di come le cose si stavano di
conseguenza mettendo. E le cose infatti, non volgevano certo per il meglio.
Il Papa Clemente V,
benchè ad Avignone, avuta notizia della mossa militare di Venezia e della
rivendicazione dei neo-diritti sulla città ferrarese, rispolverò gli antichi
diritti che la Chiesa aveva su Ferrara da tempi immemorabili.
Falliti i tentativi diplomatici a causa specialmente del
netto rifiuto del doge Pietro Gradenigo di rinunciare ad ogni rivendicazione,
la spinosa faccenda finì al Consiglio Maggiore. Qui, ben presto, si scontrarono
due opposte posizioni: quella dei filo-ducali, pronti a resistere a qualunque costo, contrapposta invece a quella più moderata
e saggia di un'altra parte del Consiglio capeggiata da Jacopo Querini,
esponente di un largo fronte popolare di tendenza guelfa e filo-papale, dove
rientrava anche Bajamonte Tiepolo. Prevalse infine la linea intransigente del
doge Gradenigo e della sua parte (Dandolo) procedendo alla nomina di un Podestà
veneziano di Ferrara.
A questo ulteriore atto di forza, il Papa rispose il 27
marzo con una solenne scomunica dell'intera città. Come se non bastasse, dopo
la scomunica, arrivarono anche le armi. Le truppe pontificie presero d'assedio
infatti, il contingente veneziano arroccato in Castel Tedaldo che più che dai
soldati papali, venne alla fine falcidiato da una tremenda epidemia di peste
che costrinse i soldati ad una umiliante resa.
Giunta a Venezia la notizia, il doge Gradenigo divenne
l'uomo più odiato dai Veneziani. Era il clima giusto per organizzare una
congiura che avrebbe visto sicuramente, almeno nelle previsioni dei
cospiratori, una generale sollevazione popolare contro il doge.
Il capo della congiura, Marco Querini, venne persuaso ad
appoggiarsi a colui che resta ancora oggi uno dei personaggi più misteriosi ed
al tempo stesso affascinanti della storia veneziana: Bajamonte Tiepolo.
Pronipote di Boemondo di Brienne, capo di un piccolo stato-crociato bosniaco e
nipote del doge Lorenzo Tiepolo, Bajamonte, per quanto è dato sapere, ebbe una
vita ed una personalità tutt'altro che tranquille e concilianti, ma certamente
originali e carismatiche se la gente comune lo chiamava "il gran cavaliere".
L'insurrezione doveva scoppiare il 15 giugno del 1310. I
congiurati si erano divisi in tre gruppi che dalle case dei Querini dovevano
poi portarsi attraverso percorsi diversi, in Piazza S. Marco. La mattina
stabilita pioveva a dirotto e sulla città infuriava un violento temporale. A
complicare ulteriormente e definitivamente le cose tuttavia, non fu tanto la
violenza degli elementi, quanto il fatto che della congiura il doge era stato
per tempo messo al corrente.
E così Pietro Gradenigo aveva avuto tutto il tempo per
chiedere i rinforzi ai Podestà di Chioggia, Murano e Torcello, mentre faceva
nel contempo ammassare tutte le sue truppe in Palazzo Ducale. Quando il primo
gruppo di rivoltosi guidato dal Querini sbucò in Piazza finì dunque dritto
dritto in bocca alle milizie ducali che lo uccisero insieme al figlio.
Intanto Bajamonte galoppava con il suo gruppo, il secondo,
lungo le Mercerie quando presso la chiesa di S. Zulian, improvvisamente, decise
di fermarsi. Aveva forse avuta notizia di quanto era accaduto al Querini?
Forse, ma quel ritardo gli impedì eventualmente di soccorrerlo. Le milizie
ducali piombarono così anche su Bajamonte e sui suoi uomini proprio all'imbocco
della Piazza dove oggi si trova la famosa torre dell'orologio. E fu proprio
nell'infuriare dello scontro che accadde allora un fatto tragico ma anche
curioso che pose fine all'estremo tentativo di Bajamonte.
Una vecchia donna, certa Giustina o Lucia Rossi,
affacciatasi al balcone della sua casa udendo il gran fracasso che saliva dalla
strada, fece precipitare dal balcone - volontariamente? casualmente? non è dato
saperlo -, un pesante mortaio di pietra.
Il pesante attrezzo cadde sull'alfiere-portabandiera dei
congiurati che di fronte alla sciagura - era forse stato un segno del cielo? -
ed ormai in evidente difficoltà, si diedero alla fuga attraverso il Ponte di
Rialto che in parte distrussero per coprirsi le spalle.
Con loro, anche Bajamonte che venne catturato e
successivamente condannato ad un esilio di quattro anni. Il suo sogno di instaurare
anche a Venezia una Signoria sul modello di numerose altre città del nord
Italia, era miseramente fallito, vuoi per il tradimento del piano, ma anche, e
specialmente, per il mancato seguito ed appoggio popolari su cui i congiurati
contavano per la riuscita.
E così le case dei Querini e quelle di Bajamonte vennero
fatte radere al suolo e sull'area occupata da quella dello stesso Bajamonte,
venne innalzata una colonna in segno d'infamia oggi al Museo Correr, con una
scritta ammonitoria: "Di Bajamonte fo (fu) questo tereno-E mo (ora) per lo
so (suo) iniquo tradimento- S'è posto in chomun per l'altrui spavento - E per
mostrar a tutti (di avere) sempre seno (senno, giudizio)".
Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco
Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA
VENETA, volume 2, SCRIPTA EDIZIONI
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