Dal testo di Francesco Zanotto
"Variano però gli storici nel narrare il
modo con cui potè ottenere il Dandolo quella grazia, pare però che la ottenesse
mediante la costanza sua, la sua umiltà, la sua eloquenza. Se non che molti
storici raccontando che non avendo potuto l'ambasciatore ottenere accesso al
papa, abbia cercato il momento di sorprenderlo a mensa, ed ivi con una corda
(altri dicono una catena) al collo, siasi gettato al suoi piedi, ed in vista di
sì grande atto di umiliazione il pontefice abbia concesso ai Veneziani il
perdono; così, senza invocare la critica, ha l'artista nella tavola unita espresso
il Dandolo ... "
ANNO 1312
Giuseppe Gatteri
Cosa ci racconta il disegno di Gatteri.
Una scomunica non
è solo un fatto morale ma
può diventare anche fatto economico oltre che politico. E Venezia, isolata
dall'ostilità del pontefice, voleva a tutti i costi recuperare credito
negli scambi con l'Occidente. Così il suo ambasciatore ebbe la buona idea di
dimostrarsi umile nel chiedere perdono ...
LA SCHEDA STORICA - 45
L’immediata conseguenza di portata storica della congiura
Querini-Tiepolo del 1310, fu senz'altro l'istituzione del Consiglio dei Dieci,
una sorta di comitato di salute pubblica composto da dieci membri che operavano in strettissimo rapporto
con il doge ed i suoi più stretti consiglieri.
I decreti emanati da questo nuovo organo, diretta emanazione
della volontà ducale, rispondevano alle esigenze di celerità ed efficacia ed
avevano come scopo principale quello di ripristinare per allora e per il futuro
di mantenere l'ordine a Venezia. Da provvisorio infatti, dovuto alle
circostanze eccezionali e drammatiche della congiura, il Consiglio dei Dieci
divenne uno degli organi vitali e irrinunciabili della vita politica della
Serenissima, fino alla sua caduta.
Ma un'altra ben più grave conseguenza nata dagli accampati
diritti del doge Gradenigo su Ferrara, pesava ancora sulla città: la scomunica
papale.
Quando il vecchio doge morì nel 1311 Venezia tirava tutto
sommato un sospiro di sollievo vedendo aprirsi la possibilità di un governo più
conciliante con il Pontefice Clemente V che non aveva dimenticato certo la
faccenda. Questa profonda esigenza di pace portò probabilmente sul trono ducale
in un breve arco di tempo due insignificanti dogi: l'anziano senatore Stefano Giustinian, che fuggì in monastero
alla notizia dell'elezione, e Marino Zorzi, detto il Santo, che dopo un breve
periodo di governo passò a miglior vita nel 1312.
In quel medesimo anno saliva così al trono un altro uomo di
azione, Giovanni Soranzo che nel 1296 durante la guerra con i Genovesi aveva
conquistato l'importante città portuale di Caffa. Al Soranzo era stato anche
affidato il comando del contingente veneziano che avrebbe dovuto respingere
l'assalto delle truppe pontificie a Ferrara, subendo invece una cocente
sconfitta.
Alle glorie militari più o meno brillanti del nuovo doge, si
contrapponeva un'unica ombra che ne fece probabilmente ritardare la sua
elezione sul trono ducale. Sua figlia
infatti aveva sposato un figlio di Marco Querini, andando così ad imparentarsi
proprio con una delle famiglie protagoniste della recente congiura di Bajamonte
e dello stesso Querini. La sua elezione tuttavia, proprio per questa pericolosa
parentela, sembrava dimostrare il mutato clima della città, un clima di
ritrovata conciliazione dopo tanta tensione. E il suo ducato durato ben 16
anni, in questo senso non deluse.
Il più grave problema che il nuovo doge si trovò ad
affrontare e che affliggeva la città ormai da cinque anni, era la scomunica papale.
La questione venne finalmente risolta proprio dal Soranzo che riallacciò
immediatamente dopo la sua elezione le trattative diplomatiche con il Papa. Il
provvedimento di Clemente V stava procurando a Venezia non pochi problemi di
ordine spirituale, ma non solo.
Nella città infatti, a causa del provvedimento, non si
potevano celebrare riti o funzioni sacre, nessuno poteva rendere testimonianza
o redigere testamento e, cosa ancor più grave, i cittadini venivano sciolti da
ogni obbligo di fedeltà al doge. Non solo. Ciascuno di essi poteva essere fatto
schiavo da chiunque avesse voluto senza per questo venirne punito. E ancora: i
traffici con gli altri paesi cristiani erano interdetti - vitale si dimostrerà
allora l'accordo commerciale firmato da Venezia in quegli anni col Sultano
d'Egitto -, mentre tutti i precedenti trattati in materia commerciale venivano
annullati.
Il provvedimento di
scomunica, come ben si nota, non andava quindi a colpire solo l'aspetto
spirituale e religioso della comunità lagunare, ma l'intera sua attività
politica ed economica in particolare.
Ben s'intuisce come ormai dopo cinque anni, la scomunica
stava diventando per la città un vero e proprio cappio al collo che andava
facendosi con il tempo sempre più stretto. E così, allo scopo di risolvere
definitivamente l'annosa e delicata questione, il doge aveva spedito alla corte
avignonese del Papa uno dei suoi più fidati ed abili ambasciatori, Francesco
Dandolo, detto "Cane", curioso soprannome già portato da un suo antenato.
All'ambasciatore veneziano presentatosi presto ad Avignone, fu tuttavia
inizialmente negata la possibilità di avere un colloquio con il Sommo Padre,
che molto probabilmente voleva verificare, dopo cinque lunghi anni, la
sincerità e la reale volontà del governo veneziano. Il Dandolo non si perse
fortunatamente d'animo e dopo una lunga attesa, umilmente, ma anche con vera
abilità diplomatica, riuscì a far togliere l'interdetto e la scomunica sulla
propria città.
Sulla circostanza che portò a questo insperato successo
diplomatico del Dandolo, le fonti sono però discordi. C'è chi racconta infatti
che più che per l'eloquenza dell'ambasciatore veneziano il Papa si sia fatto
convincere delle mutate intenzioni di Venezia da un estremo atto di umiliazione
dello stesso Dandolo. Questi, non riuscendo ad avere l'incontro con Clemente V,
gli si presentò improvvisamente ed inaspettatamente durante la mensa con una
corda (forse una catena) al collo. Così conciato il veneziano si sarebbe poi
gettato ai piedi dell'incredulo ed attonito Pontefice come atto di vera umiltà,
chiedendo, supplicandolo affinchè perdonasse il suo popolo. Il Papa, ottenuta l'estrema umiliazione e con
essa la prova definitiva delle vere intenzioni del governo ducale - che infatti
ritirò le sue truppe da Ferrara e rinunciò ad ogni pretesa - revocò finalmente
la scomunica.
Le cose, tuttavia, non sembra si siano limitate al generoso
atto di prostrazione del Dandolo. Venezia aveva ostinatamente e superbamente
resistito alla scomunica: doveva in qualche modo pagarla. E il governo
veneziano pagò letteralmente il suo peccato.
La revoca papale infatti, gli costò ben 90.000 fiorini
d'oro, una somma esorbitante per le magre casse dello Stato e resa ancor più
pesante dalla cavillosa ostinazione del Pontefice sulla valuta che doveva
essere rigorosamente il fiorino d'oro.
A mali estremi, estremi rimedi, naturalmente. Il governo
veneziano, infatti, con un prestito forzoso del 3% su tutti i redditi
indistintamente e con la minaccia ai locali banchieri fiorentini della immediata
espulsione se non avessero fornito i 90.000 fiorini ad un cambio ragionevole,
riuscì a racimolare l'ingente somma e a far così finalmente revocare la pesante
scomunica. L'anima e i commerci dei
Veneziani erano salvi.
Fonte: srs di Giuseppe Gatteri, Antonio Viviani, Francesco
Zanotto, Giuseppe Grimaldo, Laura Poloni, Giorgio Marenghi; da STORIA
VENETA, volume 2, SCRIPTA EDIZIONI
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