"Sul Cavaliere politico non ci azzecca mai nessuno: il primo a sbagliarsi fu proprio Indro Montanelli. Il senatore non è un mafioso, l’ho detto a Ingroia. Al Tg5 ho lavorato in piena libertà per 12 anni. In diretta da 111 giorni? Non mi stresso". Poi: "Dal 1994 sono andato a votare una sola volta. Per il centrosinistra. Mi sono subito pentito. Se fossi il Cavaliere mi godrei ancor di più la vita e le bellezze del mondo. Stare tutto il giorno con Cicchitto e Gasparri significa farsi del male da solo"
La sera del 3 dicembre Enrico Mentana era al teatro Nuovo di Verona a ritirare il premio 12 Apostoli. Folto pubblico. Sindaco Flavio Tosi in prima fila. Sul palco, col direttore del Tg La7 , anche l’altro premiato, Milo Manara, e alcuni dei 12 giurati, fra cui Ettore Mo, Luca Goldoni, Marzio Breda e Alfredo Meocci, l’ex direttore generale della Rai che trent’anni orsono fu suo compagno di banco al Tg1 . Posso raccontare la scenetta perché ero accanto a loro. All’improvviso Mentana ha sbirciato l’orologio. «Scusate, ma adesso sono le 7 e devo correre a fare il telegiornale », ha interrotto il dibattito. Da oltre tre mesi, le 7 e La7 per lui si equivalgono. A quell’ora, cascasse il mondo, deve prepararsi ad andare in onda, ovunque si trovi. Così s’è infilato il cappotto ed è corso all’hotel Ramada, dove aveva fatto allestire (in camera? nello scantinato?) un mini studio televisivo. E da lì ha condotto la 95ª edizione consecutiva del telegiornale delle 20. Dopodiché, fresco come un branzino di paranza, alle 21 è ricomparso al ristorante 12 Apostoli per la cena in suo onore. Oggi, domenica, dovrebbe essere l’edizione numero 111. «Sarà: non voglio rovinarle il pezzo». Solo il 112, il 113 e il 118, nel senso di carabinieri, polizia ed emergenza sanitaria, potrebbero fermarlo. A muoverlo è sempre la Passionaccia . Quella per il giornalismo che ha dato il titolo al libro ristampato poche settimane fa da Rizzoli per i Saggi della Bur. Quella che da studente gli faceva vendere A , rivista anarchica, davanti all’istituto per geometri Carlo Cattaneo di Milano, la sua città natale. Quella che nel 1973, a soli 18 anni, lo fece diventare correttore di bozze alla Gazzetta dello Sport , dove suo padre Franco era inviato per il calcio. Quella che nel 1980 lo portò al Tg1 e nel 1989 al Tg2 come vicedirettore. Quella che gli ha cucito addosso la divisa da pioniere: direttore del primo Tg5 (13 gennaio 1992), conduttore del primo Matrix ( 6 settembre 2005), direttore del primo Tg La7 (30 agosto 2010).
Ma come fa a stare in video ogni sera da più di 100 giorni?
«Non soffro di stress. Arrivo in studio un minuto prima, mi allaccio il colletto della camicia buttondown e comincio. È questione di carattere. Sono ansioso solo per le persone che amo. Di me stesso mi sento sicuro. Mi conosco da tempo ».
Perché uno studio così spoglio? Quello di Vremja , il telegiornale brezneviano, al confronto sembrava progettato a Las Vegas.
«Quando gli spettacoli hanno troppo arredo, significa che non c'è sostanza ».
E perché si fa rischiarare il viso dai neon nascosti sotto il vetro della scrivania? Circonfuso di luce bianca come il Direttore dei direttori nei film di Fantozzi.
«Scelte degli scenografi. Io guardo la telecamera. Siccome non uso né fogli scritti né gobbo elettronico, devo pensare a quello che dico».
Conduce a braccio?
«Certo, che c'è di strano? Ho ben presente quali sono le notizie. È come imparare i numeri di telefono: se li scrivi, non li ricordi a memoria ».
So che il verde nel fondale dello studio l'ha voluto lei.
«Mi piace. È un colore snobbato».
Non in Parlamento.
«Ho notizie certe che il verde esistesse già prima della Lega».
Preferisce Chicco o Mitraglietta?
«Chicco. Mi chiamava così la mia mamma».
Angelo Guido Lombardi, figlio del leggendario «amico degli animali», mi ha confidato che sua suocera la chiama Andalù, come l'ascaro del programma trasmesso dalla Rai in bianco e nero. L'ha saputo da Giorgio Forattini.
«Frequento mia suocera più di Forattini. Mai sentito un soprannome del genere».
Com'è che un recordman degli ascolti finisce ad accontentarsi di un 6-9% contro il 20-25% dei concorrenti Tg1 e Tg5 ?
«È tanto. Siamo partiti dal 2%, con 90 giornalisti. Che non sono pochi, ma finora hanno lavorato con contratti di solidarietà: quattro giorni a settimana e niente straordinari. Neppure l'osservatore più benevolo ci pronosticava oltre il 5%».
Da parecchie edizioni non pronuncia la parola «Avetrana». Merita un premio.
«Siamo onesti: i servizi sull'uccisione di Sarah Scazzi, basati sul nulla, si fanno solo per lucrare ascolti fra telespettatori in crisi d'astinenza».
Premio Saulo, consegna a Damasco: il suo Matrix s'è ingrassato con le puntate sulla strage di Erba. La Procura di Roma l'ha persino indagata per le nuove rivelazioni sul delitto di via Poma.
«Amo la cronaca, la più democratica delle discipline. Ma l'accanimento è orripilante. Ho avuto discussioni con colleghi stimabili come Bruno Vespa: a che servivano tutte quelle puntate su Cogne? ».
Pensa davvero che la televisione di Telecom decollerà? Non sono tempi per terzi poli, questi. Né in politica né nell'etere.
«Non mi pare il periodo più fausto per certi paragoni. Ma quando un telegiornale nato da nulla è visto mediamente tutti i giorni da più di 2 milioni di persone, direi che è un mezzo miracolo. Nell'anno solare 2010 i primi 50 ascolti di La7 sono 50 edizioni del Tg La7 ».
«Fatti fama, poi siedi all'ombra della palma e riposa», come mi consigliò anni fa Albino Longhi, che fu suo direttore al Tg1 .
«Io ritengo che il nostro lavoro sia già parecchio riposante. Se penso a chi fatica in fonderia o nei campi, per di più senza alcuna gratificazione... Mi sento come un cuoco che non ha nemmeno il dovere d'inventarsi gli ingredienti: mi arrivano sul tavolo tutti i giorni».
Fosse Gianfranco Fini, che farebbe?
«Non lo so. Non sono mai stato Gianfranco Fini».
La fortuna le arride.
«Nel nostro mestiere bisogna mettersi dal punto di vista del cacciatore ma anche della lepre. Fossi Fini, me la giocherei fino in fondo. Quando il dado è tratto, non si può tornare indietro».
E se fosse Pier Ferdinando Casini?
«Sarei in brodo di giuggiole. Berlusconi e Fini hanno lavorato soltanto per Casini negli ultimi sei mesi».
E se fosse Silvio Berlusconi?
«Le direi: Lorenzetto, mi rispetti, sono sempre il fratello del suo editore ».
Nient'altro?
«Mi godrei di più, anzi mi godrei ancora di più, la vita. Chi ha la possibilità di guardare le bellezze del mondo, non solo quelle che interessano maggiormente al Cavaliere, e invece passa le giornate con Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, si fa del male da solo».
Profezia su Berlusconi espressa da Indro Montanelli nel 1993: «Si è convinto che la politica ha bisogno di lui e che lui ha bisogno della politica, non c'è forza umana o richiamo alla ragionevolezza che valgano a trattenerlo: si butterà nella fornace e vi si brucerà». Non molto azzeccata.
«Nessuno di noi ci ha mai azzeccato su Berlusconi. Se Montanelli fosse vivo direbbe: "Non so se avevo sottovalutato Berlusconi o sopravvalutato i suoi avversari". Il problema di questo Paese è la clamorosa mancanza di alternativa a un uomo che, piaccia o no, dal punto di vista politico ha compiuto un'impresa straordinaria, compattando un centrodestra che persino in questo momento è comunque più coeso del centrosinistra. Come disse Indro a Ferruccio de Bortoli nel 1994, di ritorno dal pranzo in cui annunciò a Berlusconi che lasciava Il Giornale , il Cavaliere s'è messo in politica per disperazione, ma è anche vero che si crede un incrocio tra Churchill e De Gaulle. Giudizio perfetto. Il premier è così bravo nella retorica di sé che un giorno leggeremo sui libri di storia questa frase: "Churchill si credeva una via di mezzo fra De Gaulle e Berlusconi" ».
Quando scese in politica, lei rimase direttore del Tg5 . Non mi vorrà far credere che aveva più coglioni di Montanelli, per dirla con Oriana Fallaci, tanto da poter resistere alla forza d'urto del suo editore.
«Toccare un telegiornale di massa avrebbe comportato ricadute economiche pesanti. E poi avevo dalla mia un signore che si chiama Fedele Confalonieri, il quale sa che cos'è l'equilibrio».
Tornerebbe a Mediaset? So che Berlusconi e Confalonieri gliel'hanno offerto.
«Ho trovato un'altra strada. Loro non hanno bisogno di me, io non ho bisogno di loro.
Ho fatto il Tg5 per 12 anni e nessuno mi ha mai ordinato o anche solo consigliato che cosa dovessi o non dovessi mandare in onda. So che farò infuriare gli avversari di Berlusconi, ma questa è la pura verità».
Si sentiva circondato da astio per il fatto di lavorare in un'emittente di proprietà del Cavaliere?
«Nella logica del riflesso condizionato potresti essere Walter Cronkite (l'anchorman morto nel 2009 che per vent'anni condusse il telegiornale della Cbs, ndr) ma, se lavori a Mediaset, vieni percepito in un altro modo. Come se un hitleriano lavorasse a Raitre: passerebbe sempre per comunista ».
Lei crede che Mediaset sia stata creata con i soldi di Cosa nostra e che Marcello Dell'Utri sia un mafioso?
«Se lo avessi creduto, non ci sarei andato a lavorare. Anzi, come testimoniai al processo davanti al pubblico ministero Antonio Ingroia, fu proprio Dell'Utri ad autorizzarmi a produrre nel 1993, poco prima che fondasse Forza Italia con Berlusconi, Cinque delitti imperfetti, un ciclo di storie di mafia che ripercorreva le vite di Peppino Impastato, Boris Giuliano, Giuseppe Insalaco, Mauro Rostagno e Giovanni Falcone».
In Passionaccia lei chiama il Pm «l'amico Ingroia».
«La vuol sapere una cosa? Conservo una foto, scattata a Madrid nel maggio scorso, in cui si vedono Ingroia e il sottoscritto con Maurizio Belpietro».
Non posso crederci.
«E Ingroia ha una copia di Libero sotto il braccio. Tutti e tre tifosi dell'Inter ».
Un'aggravante specifica.
«Eravamo lì per la finale di Champions League».
Di che male soffre il giornalismo?
«Del fatto che si rivolge solo a lettori e telespettatori che non vogliono essere informati bensì confermati nei loro pregiudizi».
Ma lei, Mentana, da che parte sta?
Mi spiace, deludo tutti. Non sto da nessuna parte. Ho smesso di votare nel 1994».
Perché aveva vinto Berlusconi?
«Se il problema fosse stato Berlusconi, tutto avrei fatto tranne che smettere di votare, le pare? No, è che nell'era del maggioritario la politica è diventata una cosa strana, diversa. Con qualcuno che ha sempre ragione e qualcuno che ha sempre torto. Sono tornato alle urne solo nel 2006 e ho posto una croce sul simbolo della Rosa del pugno. Dopo pochi mesi, vedendo all'opera il centrosinistra, m'ero già pentito».
Al Tg1 ha avuto come direttori Emilio Rossi, Franco Colombo, Emilio Fede, Albino Longhi, Nuccio Fava. Il migliore?
«Emilio Rossi. E non perché mi assunse in quota al Psi su suggerimento di un mio amico socialista, Pasquale Guadagnolo, che lasciava il Tg1 ».
Allora perché?
«Perché nessun telespettatore lo vide mai in faccia se non nelle foto dell'attentato, quando le Brigate rosse lo gambizzarono. I terroristi lo aspettavano alla fermata del bus. Ha mai sentito di un direttore che va al lavoro con i mezzi pubblici? Rossi non era una primadonna. Apparteneva a una schiera di cattolici che esercitavano il potere per spirito di servizio. Un civil servant dell'informazione, ecco».
Del Tg1 di Augusto Minzolini che cosa pensa?
«Sono un avversario del Tg1 di Minzolini, non sarebbe elegante».
Suvvia, Minzolini ha le spalle larghe.
«Ha fatto una scelta che da un lato è chiarificatrice e dall'altro lo espone. Il Tg1 è sempre stato filogovernativo. Lui lo ha dichiarato e teorizzato nei suoi editoriali».
Arriva una notizia sgradevole che riguarda il suo amico Diego Della Valle. Che fa? La dà nuda e cruda oppure gli telefona?
«La do nuda e cruda e gli telefono per sentire la sua reazione. Come feci con Giovanni Consorte, Stefano Ricucci, Gianpiero Fiorani, Luciano Moggi, Fabrizio Corona. Come farei con chiunque. Il punto di vista di chi diventa protagonista suo malgrado è sempre interessante ».
Roberto D'Agostino mi ha cofessato che una notizia sgradevole sui suoi amici Barbara Palombelli e Renzo Arbore non la darebbe mai.
«Il bello eventuale di Dagospia è che lo dice e lo sa, non pretende d'essere il New York Times . Ma un telegiornale è un'altra cosa. So quali sono i miei compiti».
Che rapporto ha con la religione di sua madre?
«Lo stesso che ho con quella di mio padre. Mi sento a un tempo ebreo e cattolico».
Battezzato dal futuro Paolo VI.
«Non fui testimone diretto, però sì, ero presente. Sono legato culturalmente a entrambe le religioni. Le considero il fondamento di gran parte delle cose che diciamo e che pensiamo. Le nostre radici sono davvero giudaico-cristiane, non è una frase fatta».
Hanno mai usato questo argomento contro di lei?
«No. Dico di più: ho dedicato un capitolo di Passionaccia al caso di Luis Marsiglia, il professore di origini ebraiche che s'inventò d'essere stato aggredito a Verona da un commando neonazista, proprio per smontare questo riflesso condizionato di tipo religioso per cui se uno dà a un altro del cattolico di merda si offende al massimo il diretto interessato mentre se gli dà dell'ebreo di merda scatta tutta la trafila: la Shoah, Auschwitz, il razzismo... Non avverto antisemitismo in Italia e, se sussiste, è ampiamente al di sotto del livello di guardia. Dai miei genitori ho imparato ad amare tanto gli israeliti quanto i cristiani. Ho capito che Dio non può essere così sadico da farci nascere ebrei in un luogo e cattolici in un altro luogo, da darci una religione giusta e una sbagliata. O Dio esiste o non esiste. E per me esiste».
Il suo matrimonio con Michela Rocco di Torrepadula, miss Italia 1987, resiste da oltre otto anni. Un record nel mondo delle miss. E anche dei giornalisti, visto che lei aveva già avuto due compagne.
«I matrimoni non sono maratone. Talvolta gli amori purtroppo finiscono ».
Ho letto che sua moglie condurrà presto un programma di cucina su La7.
«Su la 7d, un canale digitale. Il progetto era già in cantiere prima del mio arrivo. E le proibisco di scrivere che è stata lei a tirare dentro m ».
Fonte: srs di Stefano Lorenzetto da Il Giornale del 19 dicembre 2010
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