Gabriele Cagliari
Ripubblichiamo la
lettera ai familiari che l’allora presidente Eni inviò dal carcere poco prima
di togliersi la vita. Cagliari venne arrestato dai pm de Pasquale e Di Pietro.
Dopo 4 mesi di carcerazione preventiva, scrisse: «Ci trattano come cani
ricacciati ogni volta al canile»
Gabriele Cagliari fu nominato presidente dell’Eni il 3
novembre 1989. Nel 1993 fu arrestato dai pm milanesi Fabio de Pasquale ed
Antonio Di Pietro, accusato di aver versato ai partiti una maxi tangente. Dopo
quattro mesi nel carcere di San Vittore a Milano si suicidò il 20 luglio del
1993.
Lettera di Gabriele
Cagliari alla sua famiglia del 10 luglio 1993
Miei carissimi Bruna, Stefano, Silvano, Francesco, Ghiti:
sto per darvi un nuovo, grandissimo dolore. Ho riflettuto intensamente e ho
deciso che non posso sopportare più a lungo questa vergogna.
La criminalizzazione di comportamenti che sono stati di
tutti, degli stessi magistrati, anche a Milano, ha messo fuori gioco soltanto
alcuni di noi, abbandonandoci alla gogna e al rancore dell’opinione pubblica.
La mano pesante, squilibrata e ingiusta dei giudici ha fatto il resto.
Ci trattano veramente come non-persone, come cani ricacciati
ogni volta al canile.
Sono qui da oltre quattro mesi, illegittimamente trattenuto.
Tutto quanto mi viene contestato non corre alcun pericolo
di essere rifatto, né le prove relative a questi fatti possono essere
inquinate in quanto non ho più alcun potere di fare né di decidere, né ho alcun
documento che possa essere alterato. Neppure potrei fuggire senza passaporto,
senza carta d’identità e comunque assiduamente controllato come costoro usano
fare
Per di più ho sessantasette anni e la legge richiede che
sussistano oggettive circostanze di eccezionale gravità e pericolosità per
trattenermi in condizioni tanto degradanti.
Ma, come sapete, i motivi di questo infierire sono ben altri
e ci vengono anche ripetutamente detti dagli stessi magistrati, se pure con il
divieto assoluto di essere messi a verbale, come invece si dovrebbe
regolarmente fare.
L’obbiettivo di questi magistrati, quelli della Procura
di Milano in modo particolare, è quello di costringere ciascuno di noi a
rompere, definitivamente e irrevocabilmente, con quello che loro chiamano il
nostro “ambiente”. Ciascuno di noi, già compromesso nella propria dignità agli
occhi della opinione pubblica per il solo fatto di essere inquisito o, peggio,
essere stato arrestato, deve adottare un atteggiamento di “collaborazione” che
consiste in tradimenti e delazioni che lo rendano infido, inattendibile,
inaffidabile: che diventi cioè quello che loro stessi chiamano un “infame”.
Secondo questi magistrati, a ognuno di noi deve dunque essere precluso ogni
futuro, quindi la vita, anche in quello che loro chiamano il nostro “ambiente”.
La
vita, dicevo, perché il suo ambiente, per ognuno, è la vita: la famiglia, gli
amici, i colleghi, le conoscenze locali e internazionali, gli interessi sui
quali loro e loro complici intendono mettere le mani.
Già molti sostengono, infatti, che agli inquisiti come me
dovrà essere interdetta ogni possibilità di lavoro non solo
nell’Amministrazione pubblica o parapubblica, ma anche nelle Amministrazioni
delle aziende private, come si fa a volte per i falliti.
Si vuole insomma creare una massa di morti civili,
disperati e perseguitati, proprio come sta facendo l’altro complice infame
della magistratura che è il sistema carcerario.
La convinzione che mi sono fatto è che i magistrati
considerano il carcere nient’altro che uno strumento di lavoro, di tortura
psicologica, dove le pratiche possono venire a maturazione, o ammuffire,
indifferentemente, anche se si tratta della pelle della gente.
Il carcere non è altro che un serraglio per animali senza
teste né anima.
Qui dentro ciascuno è abbandonato a stesso, nell’ignoranza
coltivata e imposta dei propri diritti, custodito nell’inattività nell’ignavia;
la gente impigrisce, si degrada e si dispera diventando inevitabilmente un
ulteriore moltiplicatore di malavita.
Come dicevo, siamo cani in un canile dal quale ogni
procuratore può prelevarci per fare la propria esercitazione e dimostrare che è
più bravo o più severo di quello che aveva fatto un’analoga esercitazione
alcuni giorni prima o alcune ore prima.
Anche tra loro c’è la stessa competizione o sopraffazione
che vige nel mercato, con differenza che, in questo caso, il gioco è fatto
sulla pelle della gente. Non è dunque possibile accettare il loro giudizio,
qualunque esso sia.
Stanno distruggendo le basi di fondo e la stessa cultura del
diritto, stanno percorrendo irrevocabilmente la strada che porta al loro Stato
autoritario, al loro regime della totale asocialità. Io non ci voglio essere.
Hanno distrutto la dignità dell’intera categoria
degli avvocati penalisti ormai incapaci di dibattere o di reagire alle continue
violazioni del nostro fondamentale diritto di essere inquisiti, e giudicati
poi, in accordo con le leggi della Repubblica.
Non sono soltanto gli avvocati, i sacerdoti laici della
società, a perdere la guerra; ma è l’intera nazione che ne soffrirà le
conseguenze per molto tempo a venire. Già oggi i processi, e non solo a Milano,
sono farse tragiche, allucinanti, con pene smisurate comminate da giudici che a
malapena conoscono il caso, sonnecchiano o addirittura dormono durante le
udienze per poi decidere in cinque minuti di Camera di consiglio.
Non parliamo poi dei tribunali della libertà, asserviti
anche loro ai pubblici ministeri, né dei tribunali di sorveglianza che infieriscono
sui detenuti condannati con il cinismo dei peggiori burocrati e ne calpestano
continuamente i diritti.
L’accelerazione dei processi, invocata e favorita dal
ministro Conso, non è altro che la sostanziale istituzionalizzazione dei
tribunali speciali del regime di polizia prossimo venturo. Quei pochi di noi
caduti nelle mani di questa “giustizia” rischiano di essere i capri espiatori
della tragedia nazionale generata da questa rivoluzione.
Io sono convinto di dover rifiutare questo ruolo. E’
una decisione che prendo in tutta lucidità e coscienza, con la certezza di fare
una cosa giusta.
La responsabilità per colpe che posso avere commesso sono
esclusivamente mie e mie sono le conseguenze. Esiste certamente il pericolo che
altri possano attribuirmi colpe non mie quando non potrò più difendermi.
Affidatevi alla mia coscienza di questo momento di verità totale per difendere
e conservare al mio nome la dignità che gli spetta.
Sento di essere stato prima di tutto un marito e un padre di
famiglia, poi un lavoratore impegnato e onesto che ha cercato di portare un po’
più avanti il nostro nome e che, per la sua piccolissima parte, ha contribuito
a portare più in alto questo paese nella considerazione del mondo.
Non lasciamo sporcare questa immagine da nessuna “mano
pulita”. Questo vi chiedo, nel chiedere il vostro perdono per questo addio
con il quale lascio per sempre.
Non ho molto altro da dirvi poiché questi lunghissimi mesi
di lontananza siamo parlati con tante lettere, ci siamo tenuti vicini. Salvo
che a Bruna, alla quale devo tutto. Vorrei parlarti Bruna, all’infinito, per
tutte le ore e i giorni che ho taciuto, preso da questi problemi inesistenti
che alla fine mi hanno fatto arrivare qui.
Ma in questo tragico momento cosa ti posso dire, Bruna,
anima dell’anima mia, unico grandissimo amore, che lascio con un impagabile
debito di assiduità, di incontri sempre rimandati, fino a questi ultimi giorni
che avevamo pattuito essere migliaia da passare sempre insieme, io te, in ogni
posto, e che invece qui sto riducendo a un solo sospiro?
Concludo una vita vissuta di corsa, in affanno, rimandando
continuamente le cose veramente importanti, la vita vera, per farne altre,
lontane come miraggi e, alla fine, inutili. Anche su questo, soprattutto su
questo, ho riflettuto a lungo, concludendo che solo così avremo finalmente
pace. Ho la certezza che la tua grande forza d’animo, i nostri figli, il nostro
nipotino, ti aiuteranno a vivere con serenità e a ricordarmi, perdonato da voi
per questo brusco addio.
Non riesco a dirti altro: il pensiero di non vederti più,
il rimorso di avere distrutto i nostri anni più sereni, come dovevano essere i
nostri futuri, mi chiude la gola.
Penso ai nostri ragazzi, la nostra parte più bella, e penso
con serenità al loro futuro.
Mi sembra che abbiano una strada tracciata davanti a sé.
Sarà una strada difficile, in salita, come sono tutte le cose di questo mondo:
dure e piene di ostacoli. Sono certo che ciascuno l’affronterà con impegno e
con grande serenità come ha già fatto Stefano e come sta facendo Silvano.
Si dovranno aiutare l’un l’altro come spero che già stiano
facendo, secondo quanto abbiamo discusso più volte in questi ultimi mesi,
scrivendoci lettere affettuose.
Stefano resta con un peso più grave sul cuore per
essere improvvisamente rimasto privato della nostra carissima Mariarosa.
Al dolcissimo Francesco, piccolino senza mamma, daremo tutto
il calore del nostro affetto e voi gli darete anche il mio, quella parte serena
che vi lascio per lui.
Le mie sorelle, una più brava dell’altra, in una sequenza
senza fine, con le loro bravissime figliole, con Giulio e Claudio, sono le
altre persone care che lascio con tanta tristezza. Carissime Giuliana e Lella,
a questo punto cruciale della mia vita non ho saputo fare altro, non ho trovato
altra soluzione.
Ricordo Sergio e la sua famiglia con tanto affetto, ricordo
i miei cugini di Guastalla, i Cavazzani e i loro figli. Da tutti ho avuto
qualcosa di valore, qualcosa di importante, come l’affetto, la simpatia,
l’amicizia.
A tutti lascio il ricordo di me che vorrei non fosse
quello di una scheggia che improvvisamente sparisce senza una ragione, come se
fosse impazzita. Non è così, questo è un addio al quale ho pensato e ripensato
con lucidità, chiarezza e determinazione.
Non ho alternative. Desidero essere cremato e che Bruna, la
mia compagna di ogni momento triste o felice, conservi le ceneri fino alla
morte. Dopo di che siano sparse in qualunque mare. Addio mia dolcissima sposa e
compagna, Bruna, addio per sempre.
Addio Stefano, Silvano, Francesco; addio Ghiti, Lella,
Giuliana, addio.
Addio a tutti. Miei carissimi, vi abbraccio tutti insieme
per l’ultima volta.
Il vostro sposo,
papà, nonno, fratello
Gabriele
Fonte: da TEMPI del 22
febbraio 2012
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