di GILBERTO ONETO*
La vitalità della morte.
Il Sycios angulatus è una pianta infestante che striscia,
radica e si arrampica con devastante vitalità: dove si insedia uccide
ogni altra presenza vegetale e ricopre tutto con un triste manto
verdastro nei mesi caldi e con un groviglio di seccume nei periodi
freddi.
Non c’è verso di fermarla se non tagliandola o estirpandola
sistematicamente, stagione dopo stagione. Dove questo non viene
fatto, la mala pianta
occupa e distrugge tutto: ci sono colline, edifici e
paesaggi interi che ne vengono ricoperti e desertificati. Sparisce ogni
differenza, ogni colore, ogni segno di vita e di vitalità.
Dove arriva l’Islam fa lo stesso:
distrugge ogni altra religione, cultura e identità, e ricopre tutto
con il manto grigio e uniforme della mortifera osservanza
coranica. In 14 secoli ha annientato civiltà antiche, ricche che
erano stati straordinari capitoli della storia del mondo.
Il paradigma del suo atteggiamento nei confronti della cultura
e della libertà intellettuale (e della libertà tout court) si trova
nella vicenda delle biblioteca di Alessandria, la più vasta raccolta di
opere dell’antichità, completamente distrutta nel 646 dal califfo
’Amr ibn al-’Âs, sostenendo che dovessero essere eliminati tutti i
libri, sia che dicessero cose diverse dal Corano (e perciò dannosi) o che
contenessero cose coerenti col Corano (e perciò superflue). Se ne
sono andati in fumo migliaia di volumi provocando il più grande danno
mai fatto alla cultura universale.
Non ci sembra che quel
contegno sia mai cambiato. Per fortuna esso ha anche avuto un
importante risvolto positivo: il rigetto di ogni volontà di progresso
anche scientifico ha in passato condannato l’Islam a soccombere
militarmente di fronte a società che non hanno mai smesso di cercare
di progredire sul piano scientifico e culturale.
Il confrontarsi dell’Islam col mondo si riflette anche nel suo
atteggiamento verso l’aspetto fisico del mondo, che deve forzatamente
essere triste, grigio e dimesso. Questo si vede nelle palandrane
con cui avviluppano i loro corpi, nella sciatteria delle loro città e
delle loro case (fa naturalmente eccezione lo sfarzo dei ricchi e dei
potenti), nella pochezza della loro cucina che si è privata di tutti
gli ingredienti che rendono piacevole la vita senza trasformarla in
licenziosità. Il Pakistan e l’India sono – ad esempio – abitati da
genti dalla stessa origine etnica ma passare dall’uno all’altra è come passare dal
buio alla luce, dalla tristezza bisunta e piena di livore all’allegra
confusione di colori, di figure, di aromi, di un’esplosione
artistica
figurativa.
Oggi Bali è – per fare un altro esempio – una delle
mete turistiche più ambite soprattutto per la bellezza delle sue
architetture, per lo splendore dell’arte e del suo artigianato, per
la sfolgorante gioiosità del suo folclore e dei suoi riti religiosi. Tutte
le altre isole attorno hanno lo stesso clima e lo stesso mare ma sono
state intristite dalla patina islamica che le ha ricoperte come uno
spurgo petrolifero uccidendo ogni forma di vitalità. La tristezza del
chador contro l’allegria del sari.
L’Islam – si sa – condanna la riproduzione non solo di Dio ma
delle figure umane, e spesso anche di quelle animali costringendo i
pochi artisti sopravvissuti (e ortodossi) ai complessi virtuosismi di
motivi geometrici e vegetali. Tutto il resto va distrutto
sistematicamente.
Questo vale per le cose più piccole come la santella della
Madonna che un deficiente macedone ha di recente eliminato da una
casa di Dosolo in provincia di Mantova, ai Buddha di Banyam, presi a
cannonate dai guerrieri di Allah, dai monasteri ortodossi di Kossovo
e Metochia, diroccati da prodi albanesi, alle migliaia di chiese,
pagode,
templi di qualsiasi religione che questi iconoclasti (che mostrano
vitalità solo nel distruggere) hanno raso al suolo nel corso dei
secoli.
Costantinopoli era una delle città più belle, più ricche
di opere d’arte e di architetture, era una sorta di straordinario
museo del mondo:
Istambul oggi è un luogo grigio e Santa Sofia – uno dei
più radiosi edifici dell’umanità – è rimasta un involucro spelacchiato.
La stessa sorte sarebbe toccata a Venezia, a Vienna e al resto
d’Europa senza Marco d’Aviano, senza Lepanto, senza milioni di
europei cristiani che
proprio anche alla forza delle immagini hanno fatto
simbolico ricorso.
In realtà l’iconoclastia non è una malattia solo islamica: per
un certo periodo ha guastato anche il Cristianesimo.
Quello orientale se
ne è liberato con sanguinose fatiche; quello occidentale ha dovuto
subire le scelleratezze di puritani, anabattisti e altri trucidi
personaggi prima di ritrovare serenità e ragionevolezza.
Gente che aveva per antenati Celti e Germani (e il loro
gusto per arte e colore) non poteva che soccombere alla forza delle
origini: oggi molti dei più bei musei d’arte figurativa sono in Paesi
protestanti.
Si obietterà che anche taluni maomettani abbiano prodotto
grandi esempi di arte figurativa: si ricordano i persiani e i
moghul. I primi erano sciiti (che sono sempre stati un po’ più
civili), e gli altri erano indiani fino al midollo e non
potevano fare a meno di figure e colori. Sia persiani che indiani
sono poi indoeuropei e ritorna il ragionamento delle origini.
Si dice sempre che anche gli almoravidi di Spagna
fossero colti
e avessero sviluppato una raffinata arte figurativa: si trattava però
solo di un sottile (e, fortunatamente, precario) strato islamico sopra
celti, visigoti ed ebrei.
Quasi tutti ebrei o armeni erano anche i grandi dotti del
passato di cui ogni tanto l’Islam si fa vanto.
L’Islam è una sorta di malattia, è una invasione di fameliche
cavallette che divorano tutto, è il buio di Mordor
che annienta, è il Syicios angulatus della cultura e della
libertà.
Se prevale, non perdiamo solo la grappa, il salame o i fumetti,
non verranno solo distrutte chiese e musei, non vedremo solo la
tavolozza del nostro mondo ridotta a un unico urfido colore.
Se prevale, perdiamo la
ricchezza della nostra civiltà, perdiamo la libertà. Perdiamo tutto.
Fonte: (da Il Federalismo, anno 2004, direttore
responsabile Stefania Piazzo)*
Il settimanale Il Federalismo (registrato come Sole delle Alpi)
visse dal 2004 al 2006, raccogliendo le firme di Gilberto Oneto, Romano
Bracalini, Antonio Martino, Chiara Battistoni, Giancarlo Pagliarini, Carlo
Lottieri, Leonardo Facco, Paolo Gulisano, Sara Fumagalli, Roberto
Castelli, Carlo Stagnaro, Gianluca Savoini, Arnaldo Ferrari Nasi, Piero La
Porta e tanti altri autorevoli collaboratori. Questa esperienza, libera e
indipendente, aperta al confronto politico, unica nel suo genere nei media di
area leghista, spesso criticata per le interviste controcorrente o per i
corsivi caustici di Oneto, venne interrotta per “calo delle vendite”.
I soci della cooperativa giornalistica vennero sostituiti,
e i contributi all’editoria, circa 420mila euro l’anno, che riceveva Il
Federalismo, passarono ad un’altra testata, il settimanale Il Canavese, nella
provincia di Torino, che trattava cronaca, sport e attualità. Un cambio
radicale di contenuti e obiettivi.
A nulla valsero le
preghiere della direzione e della redazione (il settimanale veniva realizzato
da sole tre persone, il direttore, un redattore ordinario e un grafico) ai
vertici del Carroccio, avvisandoli che avrebbero perso uno strumento per fare
cultura politica e comunicazione senza veline. L’amministratore del
Federalismo-Il Sole delle Alpi, trasmigrò con lo stesso ruolo a Il Canavese.
Oggi, il medesimo soggetto si vede imputato a Milano in un processo in cui gli
vengono contestati reati relativi alla destinazione dei contributi pubblici
all’editoria per alcune operazioni legate all’amministrazione della testata
piemontese. A distanza di tanti anni, speriamo sia fatta chiarezza su questa
pagina di comunicazione. Politica.
Fonte: da L’Indipendenza
del 2 gennaio 2016
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