Verona centro storico. Torre dei Lamberti e Palazzi Scaligeri
Enciclopedia dell' Arte Medievale (2000)
di G. Valenzano
VERONA
Città del Veneto, capoluogo di provincia, sita sulle rive
dell'Adige, tra la pianura e il piede dei monti Lessini.
La città, di origine romana, ha mantenuto l'impianto viario
reticolato ricavato entro l'ansa dell'Adige, sulla base dell'incrocio
ortogonale di cardine e decumano, e conserva resti cospicui quali il teatro, l'Arena,
l'arco dei Gavi, la porta dei Leoni, la porta Iovia, detta nel Medioevo di S.
Zeno e poi dei Borsari.
La difesa della città, importante centro strategico, fu
rafforzata dall'imperatore Gallieno (253-268) con la costruzione di una nuova
cinta urbana. Tale parte della città era collegata dal ponte della Pietra con
l'area del castrum di età romana, sul colle a sinistra dell'Adige; quest'ultima
fu occupata da Teodorico (493-526) che vi costruì il proprio palazzo.
Nel sec. 10° sono attestati, oltre a edifici pubblici e
regi, la curtis ducis e un granaio pubblico. La zona conservò il carattere
fiscale fino all'età di Berengario I (888-924) che l'alienò a privati, avendo
stabilito la curtis regia nella zona nordorientale della città.
L'Anonimo Valesiano (71; RIS2, XXIV, 4, 1913) riporta la
notizia che Teodorico, per salvaguardare i territori conquistati nel 494, fece
realizzare nel 524 una nuova cerchia muraria. I dati emersi dagli scavi hanno
messo in luce come l'ampliamento murario, rispetto al perimetro della città
romana, realizzato per inglobare l'anfiteatro, sia da datarsi all'epoca di Gallieno,
mentre al re ostrogoto sia imputabile solo un raddoppiamento parziale della
cortina.
Due fonti permettono di ricostruire la serie dei vescovi
veronesi, che si fa iniziare alla fine del sec. 3°: i Versus de Verona o De
laudibus de Verona, carme anonimo detto anche Ritmo pipiniano, del sec. 8° e il
Velo di Classe (Ravenna, Mus. Naz.), ovvero quanto rimane di una coperta di
altare ricamata, fatta forse realizzare intorno al 760 dal vescovo Annone con
le immagini dei primi trentacinque vescovi che lo avevano preceduto sulla sede
episcopale di V., che presenta le immagini dei Ss. Fermo e Rustico e di tredici
presuli veronesi.Del sec. 4° rimangono scarsissime fonti storiche e resti
monumentali.
Nell'area del duomo gli scavi del 1965-1969 accertarono l'esistenza
del complesso episcopale, posto, rispetto alla città tardoimperiale, nel punto
più interno dell'ansa del fiume. La recente lettura delle strutture (Lusuardi
Siena, 1989, p. 109) ha individuato l'esistenza di una domus ecclesia fin
dall'età tardoimperiale, a tre navate e monoabsidata. Tale aula fu
ristrutturata e dotata di una particolare articolazione dell'area liturgica,
con impianto di riscaldamento a ipocausto e pavimentazione musiva, nella
seconda metà del 4° secolo.
Tra il sec. 5° e il 6° fu realizzata una grande basilica a
tre navate, monoabsidata con endonartece e forse un atrio, caratterizzata dai
pavimenti musivi e da una solea fiancheggiata da muretti affrescati e ritmati
di lesene, che raddoppiò la dimensione dell'area destinata al culto, insistendo
sulla struttura del cardine romano. Nel 517 è documentata l'esistenza di uno
scriptorium.
I dati degli scavi hanno dimostrato l'errore della
tradizione che, identificando i luoghi di sepoltura dei vescovi come le sedi
della cattedrale, aveva ipotizzato una prima sede extraurbana presso la chiesa
di S. Procolo, da dove si sarebbe spostata nel sec. 5° presso quella di S.
Stefano, per approdare solo con la sepoltura di Annone (m. nel 780) nell'area
dell'od. duomo.
In realtà si è potuto accertare che la basilica di S.
Procolo fu realizzata solo tra la fine del 5° e l'inizio del 6° secolo. Si
trattava di un edificio a navata unica, con l'abside segnata da lesene. Secondo
un'epigrafe conservata nella chiesa di S. Elena, presso il complesso episcopale,
l'arcidiacono Pacifico, vissuto nel sec. 9°, restaurò l'edificio insieme a
quello di S. Zeno Maggiore e di S. Vito. L'autenticità dell'epigrafe è stata
messa di recente in dubbio (La Rocca, 1995), così come lo stesso alone di
eccezionalità che circonda il personaggio, un arcidiacono realmente esistito a
cui sarebbero state attribuite doti straordinarie, quasi leonardesche, da parte
del clero del capitolo veronese nel sec. 12° per rafforzare le proprie
prerogative. La chiesa di S. Procolo mostra, comunque, una ristrutturazione
carolingia.
Un'altra area cimiteriale romana si estendeva a N-E della
città. Qui sorse la chiesa di S. Giovanni in Valle, di cui è stata ipotizzata,
senza alcuna base, una funzione di cattedrale ariana. Di certo la chiesa
esisteva già nell'813 ed è citata nei Versus de Verona. L'odierno edificio
appartiene agli inizi del 12° secolo. Nella cripta si conservano due sarcofagi
tardoantichi, uno strigilato, forse pagano, del sec. 3°, l'altro con storie
dell'Antico e del Nuovo Testamento, del 4° secolo. Da S. Giovanni in Valle
proviene anche l'urna per le reliquie, assegnata all'età longobarda per i
rilievi scolpiti (Verona, Museo di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte; Lusuardi
Siena, 1989, p. 114).
Anche per la chiesa di S. Pietro in Castello, abbattuta nel
1852, è stata ipotizzata senza alcun fondamento una funzione di cattedrale
cattolica per il breve periodo teodoriciano (Mor, 1964, p. 21). L'edificio,
ricostruibile da disegni e rilievi (Verona, Bibl. Civ., 1002, X; Sala Stampe
1-h 123/b), si inscriveva nel pieno Romanico veronese, anche se una struttura
doveva già esistere nel sec. 6° - secondo le epigrafi, ora perdute, delle tombe
dei vescovi Valente (522-531) e Verecondo (531-533; Biancolini, 1749-1771, I,
p. 103) - ed è attestata dal punto di vista documentario nel sec. 8° (Versus de
Verona). Ricordata nell'epitaffio dell'arcidiacono Pacifico (Brugnoli, 1979, p.
49), è descritta entusiasticamente nel sec. 10° da Liutprando da Cremona:
"preciosi operis ecclesia est fabricata" (Antapodosis, II, 40; MGH.
SS, III, 1839, p. 295). Era bisognosa di restauri quando fu eletta dal vescovo
di V. Raterio (m. nel 974) come abitazione (PL, CXXXVI, col. 543).
Ai piedi del versante nord del colle su cui si ergeva S.
Pietro si conserva la chiesa di S. Stefano. Vi fu sepolto il vescovo Petronio,
tredicesimo presule veronese, e vi si conservano anche le spoglie del terzo
vescovo veronese Simplicio. È stato cautamente ipotizzato che proprio a
Petronio possa risalire la fondazione della chiesa dedicata al martire, le cui
reliquie furono scoperte presso Gerusalemme nel 415. L'erezione della chiesa è
stata assegnata al sec. 5° (Da Lisca, 1936, p. 8; Verzone, 1942, pp. 20-24,
137-145). Tale struttura è ancora ben leggibile, al di là delle trasformazioni
seriori, nell'impianto a croce latina, con abside e atrio, nelle murature
perimetrali forate dalle ampie finestre successivamente accecate, quando, forse
nel sec. 10°, l'edificio fu profondamente ristrutturato con la suddivisione in
tre navate e la ristrutturazione della zona absidale con la creazione di un
doppio ambulacro, il cui piano inferiore costituisce una delle più importanti
testimonianze a livello europeo di cripta anulare. Il piano superiore si
affacciava al naós con ampie aperture situate nel muro semicircolare, in
origine riccamente decorato, come dimostrano gli estesi lacerti di pitture che
fingono preziose stoffe con aquile e leoni entro clipei incorniciati da perle e
pietre preziose dipinte (Lorenzoni, 1994, p. 108), conservatesi soprattutto
nella zona inferiore, accecata dalla costruzione della nuova matura cripta 'a
sala', realizzata forse tra il 1187 e il 1195, quando fu eliminato l'atrio
inglobato nell'allungamento delle navate con la costruzione dell'attuale
facciata e fu eretto l'od. tiburio ottagonale (Arslan, 1939, pp. 42-51).
Un altro edificio paleocristiano, sorto probabilmente tra il
sec. 4° e il 5°, fu eretto lungo la via Postumia, l'importante tracciato romano
che univa Genova con Aquileia e che a V., dall'uscita della città fino alla zona
cimiteriale su cui sorse in seguito la chiesa di S. Zeno Maggiore, era
fiancheggiato da architetture funerarie romane. Scavi del 1913 misero in luce
un tracciato absidale all'esterno dell'od. perimetro dell'edificio romanico, il
cui livello di quota sarebbe in relazione con l'adiacente sacello cruciforme di
Ss. Teuteria e Tosca (Da Lisca, 1913-1914, pp. 19-21). L'attuale dedicazione risale al 1162, quando
furono rinvenute le spoglie delle sante e non è nota quella originaria, di cui
è stata ipotizzata (Zovatto, 1960, p. 578) una possibile identificazione con
l'oratorio che conservava le reliquie di s. Apollinare, ricordato nei Versus de
Verona (v. 86).
La basilica martiriale, dedicata a s. Zeno, ottavo vescovo
di V., patrono della città, ricordata nella descrizione di un miracolo del 589
da Gregorio Magno (Dialoghi, III, 19; SC, CCLX, 1979, pp. 347-350), ripresa da
Paolo Diacono (Hist. Lang., III, 23; MGH. SS rer. Lang., 1878, p. 104), è da
situarsi nell'area dove poi sorse il monastero benedettino di S. Zeno
(Valenzano, 1993, p. 7), di cui alcuni resti - frammenti di colonne
tardoantichi e capitelli di cultura esarcale - sono forse rintracciabili
nell'oratorio di S. Benedetto, da identificarsi invece con la sala capitolare,
nel chiostro di S. Zeno Maggiore (Da Lisca, 19562, pp. 19-20; Valenzano, 1993,
p. 12).
Paolo Diacono nello stesso luogo ricorda le devastazioni
subìte da V. nel 589, dovute prima a un'impetuosa piena dell'Adige poi a un
vasto incendio. Le ricerche archeologiche hanno confermato un abbandono di
vaste aree abitate e un fenomeno di ruralizzazione. Gli stessi dati sono
comunque stati interpretati in modo diverso, mettendo l'accento sul precoce
decadimento urbano che porta a una rottura con la Tarda Antichità (Brogiolo,
Gelichi, 1998, pp. 33-35) o interpretando la presenza di terra nera di coltivo
su parti di aree già pavimentate in età romana o l'esistenza di tombe in ambito
urbano come frutto di un nuovo modello urbanistico e di nuova disponibilità di
aree pubbliche dove era concesso inumare, seguendo un modello storiografico che
privilegia la continuità tra Tardo Antico e Alto Medioevo (La Rocca Hudson,
1986; Materiali, 1989).
Dal 1980 sono state condotte campagne di scavo che hanno
permesso di seguire le trasformazioni urbanistiche di V., dall'età tardoromana
a quella altomedievale. In certe parti della città si assiste a una crescita in
verticale. Gli edifici si allineano lungo le strade e all'interno venivano
ricavati orti. Molti edifici pubblici, come il teatro, la basilica e il
Capitolium furono riusati. Si distrussero altri edifici per recuperare
materiale e costruire altri secondo nuove esigenze. Il riutilizzo di materiale
antico è indice di una moda e della intensa attività edilizia.
Dell'età longobarda rimangono alcuni corredi ritrovati in
tombe, scoperte in varie zone della città (La Rocca, 1989, pp. 103-108), tra
cui il c.d. tesoretto di Alboino (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus.
d'Arte), il re che nel 548 l'aveva scelta come capitale per l'importante
posizione strategica.
Durante il regno longobardo furono fondati le chiesa di S.
Giovanni in Valle, con funzioni di culto ariano, il monastero di S. Maria in
Organo e la chiesa di S. Lorenzo.
Al regno di Liutprando (712-744) risale il ciborio della
chiesa di San Giorgio in Valpolicella, ricomposto nel 1923 da pezzi già
smembrati forse nel Quattrocento. L'iscrizione su una delle colonnine ("De
donis sancti Iuhannes Bapteste edificatus est hanc civorius") ha fatto
supporre una diversa titolazione della chiesa, giustamente confutata, al pari
della supposta committenza regia (Lusuardi Siena, 1989, pp. 151-157). L'opera
fu realizzata dal maestro Orso, come cita un'altra iscrizione.
Se dalle fonti è stato possibile documentare l'importanza di
Verona in età altomedievale con la fondazione di monasteri benedettini, grazie
alle cospicue donazioni di età carolingia, poche sono le emergenze monumentali
riconducibili all'epoca, oltre ai resti di recinzioni lapidee.
Assai importante è anche il ruolo esercitato dal Capitolo
dei canonici della cattedrale. Lo studio dello scriptorium veronese è stato
incentrato sulla produzione di documenti e codici scritti. Non è noto se esistesse,
accanto alla figura dello scriptor, anche quella del miniatore.
Lo splendido codice di Egino (v.; Berlino, Staatsbibl.,
Phill. 1676), decorato con i quattro Padri della Chiesa, miniati a piena
pagina, commissionato dal vescovo Egino prima di ritirarsi (ante 799)
nell'isola della Reichenau, dove era stato educato, potrebbe essere frutto
dello scriptorium veronese (Lorenzoni, 1994, pp. 105-106). Un celebre
scriptorium esisteva anche nel monastero di S. Zeno.
Un importante documento è costituito dalla c.d. iconografia
rateriana, un disegno commissionato dal vescovo Raterio, oggi noto grazie a una
copia fatta realizzare dall'erudito veronese Scipione Maffei nel 1739 (Verona,
Bibl. Civ., Sala Stampe, 2-b 29, c. 19), poiché l'originale andò distrutto nel
1793 a Lobbes, dove Raterio si era ritirato recandolo con sé.
Il disegno, intitolato Civitas Veronensis depicta, offre
un'immagine della città, vista a volo d'uccello, circondata dalle mura e dalle
torri, dove emergono le vestigia romane indicate da tituli, come quelle del
ponte della Pietra (pons marmoreus), posto al centro della città a unire i due
nuclei urbani, e dell'arena, detta "Nobile, praecipuum, memorabile, grande
Theatrum, ad decus extructum sacra Verona tuum".
I Versus de Verona ricordano la forma quadrata della città
cinta di mura, rafforzate da quarantotto torri, tra cui otto altissime; citano
l'ampio foro lastricato di pietre squadrate, come le strade con le quattro
porte, l'esistenza di due ponti - il ponte della Pietra e il Postumio - e
numerose chiese.
Del santuario rupestre, scavato nella roccia, dedicato ai
ss. Nazaro e Celso (ricordato nei Versus de Verona e decorato da affreschi
ancorati alla data 996, un tempo dipinta in una iscrizione che accompagnava lo
strato più antico delle pitture), si conservano solo il presbiterio e parte
dell'aula, nota grazie ai disegni ottocenteschi di Gaetano Cristofali (Verona,
Bibl. Civ., 1002).
Il complesso si sviluppava su almeno due piani, se non tre.
Si tratta di uno dei rari ipogei altomedievali - celebri quello des Dunes di
Poitiers, del sec. 7°, o quello di S. Gennaro extra moenia a Napoli o il
santuario di S. Michele Arcangelo a Monte Sant'Angelo -, ma che nell'area
veronese trova un importante precedente nell'ipogeo di Santa Maria in Stelle in
val Pantena, attestato solo nel 967, con notevoli resti di mosaici e di pitture
con soggetti dell'Antico e del Nuovo Testamento, queste ultime pertinenti a un
unico progetto decorativo che abbraccia l'intero spazio, attribuibile al sec.
5°, e con altri lacerti precedenti (sec. 4°) e posteriori (secc. 7°-8°; Dorigo,
1968; Lusuardi Siena, 1989, pp. 146-151).
Nell'ipogeo dei Ss. Nazaro e Celso, a una prima decorazione
campita semplicemente da profilature rosse intorno alle nicchie del
presbiterio, ma che forse per i resti di chiodi e grappe prevedeva nella zona
inferiore marmi e in quella superiore stucchi, fu sovrapposta una seconda
complessa decorazione pittorica raffigurante teorie di angeli entro clipei,
Cristo in maestà al centro della volta del presbiterio, attorniato dai simboli
degli evangelisti, Vergine nimbata tra i ss. Nazaro e Celso. Gli affreschi, avvicinati alla cultura
pittorica della Reichenau e di Colonia, costituiscono una delle più
significative testimonianze della pittura ottoniana in Italia settentrionale.
Il ricco pavimento musivo è stato anch'esso datato alla fine del 10° secolo.
Le pitture furono poi coperte da una nuova campagna
decorativa nella seconda metà del sec. 12°, i cui affreschi furono staccati e
ricomposti senza rispecchiare la situazione originaria (Zuliani, 1974).
La cappella carolingia di S. Zeno a Bardolino, ecclesia
propria del monastero veronese di S. Zeno, che nella zona possedeva molti
terreni (Codice diplomatico veronese, 1940, nr. 190, pp. 287-291), ha una pianta
a croce latina orientata. All'incrocio dei bracci, coperti da volte a botte
impostate, nella navata su arcate addossate ai muri perimetrali sostenute da
colonne in marmo rosso, si erge un alto tiburio. Tra i capitelli spiccano il
reimpiego di un esemplare ionico italico tardorepubblicano e la copia di esso,
ascrivibile al sec. 9°, come i rimanenti quattro. Le colonne centrali hanno
segni di incasso per plutei di cui sono stati rinvenuti frammenti, insieme a
una incorniciatura lapidea della monofora absidale, nei lavori del 1959-1961
(Lusuardi Siena, 1989, pp. 160-162). Nelle nicchie del transetto vi sono resti
di più strati di pitture, dal 9° al 15° secolo.
Un altro edificio di cui non è noto l'anno di fondazione,
analogamente dipendente da S. Zeno, presenta l'impianto cruciforme sormontato
da un'alta torre: S. Pietro in Monastero a San Pietro in Valle, presso Gazzo
Veronese, le cui complesse vicende costruttive - oggetto di particolare
attenzione già da Galassi (1953, p. 418ss.), che riteneva l'edificio importante
anello di congiunzione tra l'arte esarcale e la nascita del Romanico,
proponendo una datazione all'inizio del sec. 9° per la prima fase costruttiva e
al 10° per la sopraelevazione ad arcatelle, completato da un successivo tiburio
del sec. 11° - sono ancora da dirimere.
Galassi (1953, p. 452) ipotizzava uno sviluppo del
tiburio-cupola, dall'elevazione del mausoleo di Galla Placidia a Ravenna a
quella di S. Pietro in Monastero, nel tiburio-campanile, quest'ultimo
sviluppatosi dal tiburio sovrapposto nella riedificazione di S. Pietro in
Monastero, fino al tiburio di S. Stefano a V., del maturo 12° secolo.
A Gazzo Veronese gli scavi effettuati tra il 1938 e il 1940
(Da Lisca, 1941) nella chiesa di S. Maria Maggiore, ricostruita nel sec. 12°,
hanno rinvenuto materiale lapideo altomedievale. Oltre a pilastrini e plutei
sono emersi i resti di un condotto destinato a raccogliere l'acqua piovana dal
tetto per convogliarla in un'apposita vasca adibita alle esigenze lustrali dei
fedeli, secondo quanto attesta una lunga iscrizione, conservatasi non
integralmente, riferibile all'età di Liutprando (Lusuardi Siena, 1989, p. 177)
per i caratteri epigrafici e sulla base di un diploma di Ludovico II, che
nell'864 (Da Lisca, 1941, p. 173) confermava a Romualdo, abate di S. Maria in
Organo a V., da cui Gazzo Veronese dipendeva, i beni già ricevuti da Liutprando
e Ildeprando (736-744).
Si tratta di un rarissimo esempio, unico per il sec. 8°, di
una soluzione tecnica attestata dalle fonti scritte già nel sec. 5°, di cui
rimangono altre testimonianze nelle numerose cisterne poste nelle adiacenze
delle chiese.
Gli estesi resti di mosaico pavimentale sono stati assegnati
o all'avanzata età longobarda (Magagnato, 1982; Lusuardi Siena, 1989, p. 183;
Lorenzoni, 1994, p. 105) o tra il sec. 8° e il 9° (Da Lisca, 1941; Barral i
Altet, 1985, p. 90), in connessione con il restauro ricordato nell'iscrizione
di consacrazione dell'altare, dell'846 (Lusuardi Siena, 1989, p. 184), promosso
da Audiberto, abate di S. Maria in Organo a Verona.
Questi viene ricordato in due altre epigrafi su dischi di
pietra: è commemorato come promotore del restauro dell'oratorio di Maruni in
val Pantena, dell'838 in quella conservata nel Museo di Castelvecchio, Civ.
Mus. d'Arte, e della costruzione di un altare e di una cuba - interpretabile
come cupola di ciborio o di tiburio - in quella proveniente da Santa Sofia di
Pedemonte in Valpolicella e oggi immurata nella chiesa di Sezzano di
Valpolicella (Lusuardi Siena, 1989, pp. 183-184).
Nel sec. 10° si assiste a una ripresa dei traffici
mercantili, che portarono a una crescita della città, che si intensificò ancor
più nei due secoli successivi. I grandi patrimoni fondiari accumulati in età
carolingia e ottoniana furono alla base della ricostruzione delle fabbriche
religiose promosse nel sec. 11°, il cui carattere 'neolatino' del linguaggio
architettonico, esemplato sulle prestigiose testimonianze monumentali romane, è
stato sottolineato da Romanini (1964, p. 586).
Nel 1045 fu iniziata la costruzione della torre campanaria
di S. Zeno Maggiore per opera di Alberico, eletto abate in quell'anno, come
ricorda l'epigrafe immurata alla base (Valenzano, 1993, p. 213).
Al sec. 11° risalgono le absidi laterali della chiesa
monastica, quasi completamente ricostruita a partire dal 1138.
Nelle immediate vicinanze di V., S. Michele a Mizzole,
consacrata nel 1060, conserva frammenti pittorici ascrivibili al sec. 11° (Lorenzoni,
1994).
Un complesso ciclo pittorico, purtroppo in cattive
condizioni, si conserva a S. Severo di Bardolino, edificio a tre navate
costruito su uno precedente dotato di cripta, portata alla luce tra il 1927 e
il 1932, ascritta al sec. 9°, in relazione alla prima citazione documentaria
dell'893, a sua volta insistente su una basilica più antica. Il ciclo,
raffigurante scene dell'Infanzia di Cristo e altre ispirate all'Apocalisse e
alla Leggenda della Vera Croce, non ha appigli cronologici ed è stato ascritto
a periodi diversi, entro il terzo quarto del sec. 11° (Christe, 1978, p. 107) o
alla prima metà del 12° (Arslan, 1943, pp. 59-62; Segre Montel, Zuliani, 1991,
pp. 126-127).
L'edificio, il cui aspetto è debitore degli interventi di
restauro del 1942-1943 (Sala, 1987), ha colonne in laterizio, sormontate da
bassi capitelli in pietra a tronco di piramide, decorati da semplici incisioni
simboliche.
Un impianto non dissimile si conserva a S. Andrea a
Sommacampagna, le cui navate sono suddivise da tozzi pilastri con capitelli
cubici scantonati, e che conserva un Giudizio universale affrescato sulla
controfacciata.
Assai interessante è la chiesa di San Giorgio in
Valpolicella, a doppia abside e con la diversificazione dei sostegni tra la
zona orientale (colonne) e quella occidentale (pilastri). Tale icnografia non è
il risultato di due diverse campagne costruttive, come pure è stato supposto,
ma è da ricondurre a una tipologia planimetrica elaborata in età carolingia e
diffusa in età ottoniana, in relazione agli usi liturgici dello spazio, legati
alla presenza di reliquie (Piva, in corso di stampa). I lacerti di affreschi, con episodi della
Genesi, della navata destra, sono stati ascritti agli inizi del sec. 12° (Segre
Montel, Zuliani, 1991, p. 126); con un Cristo Giudice in trono entro mandorla
nella calotta dell'abside occidentale e serafini nel tamburo, sono forse
databili ancora entro l'11° secolo.
L'edificio più significativo del sec. 11° è costituito da
quanto rimane della chiesa dedicata ai ss. Fermo e Rustico (od. S. Fermo
Maggiore), una delle costruzioni più interessanti nel panorama architettonico
dell'Italia settentrionale tra i sec. 11° e 12°, che era preceduta da un atrio
a due piani. La chiesa sorse nell'area dove il vescovo Annone aveva posto le
reliquie in un sarcofago riccamente decorato (Versus de Verona, vv. 76-84).
La fabbrica fu radicalmente trasformata dai Francescani a
partire dall'ultimo quarto del sec. 13°, come attesta il fregio dipinto
nell'abside, ancora duecentesco. Rimane soltanto una struttura parzialmente
interrata, suddivisa in quattro navate con transetto absidato e parte della
struttura superiore dell'area presbiteriale, comprese le absidi laterali a
tutta altezza che si aprono sul transetto.
La struttura inferiore, coperta da volte a crociera con
nervature, impostate su archi lunati, è suddivisa in due navate laterali e in
un vano centrale da pilastri, alternativamente a pianta quadrata e cruciforme,
rastremati, sormontati da capitello e abaco, raccordati da una serie di
eleganti modanature.
Il vano centrale, ulteriormente diviso in due navate da una
serie omogenea di eleganti pilastri monolitici (o in due blocchi monolitici),
dotati di entasi, si conclude in un'abside preceduta da un triforio che
s'imposta su colonne e capitelli ionici di reimpiego.
Tale struttura, per l'ampiezza spaziale, è stata chiamata
chiesa inferiore (Simeoni, 1905-1906) e messa in rapporto con la tipologia
delle chiese a due piani, fino ad anni recenti (Schaller, 1994).
Arslan (1939) notò che la pianta della chiesa inferiore di
S. Fermo Maggiore e quella dell'abbazia di Bernay, in Normandia, sono quasi
sovrapponibili e suggerì un possibile collegamento attraverso la Borgogna, ove
Guglielmo da Volpiano aveva a lungo soggiornato, promuovendo la costruzione
della cattedrale di Saint-Bénigne a Digione. Tale ipotesi è stata ripresa e
riproposta da tutti gli studiosi che si sono occupati, seppure marginalmente,
di S. Fermo Maggiore.
Un recente esaustivo studio (Trevisan, 1999) ha ipotizzato
una diversa e convincente lettura degli alzati, che si discosta in due punti
essenziali da quella finora seguita, a partire dallo studio di Arslan (1939).
Trevisan ha accertato che il documento del 1019 si limita ad
attestare l'esistenza della chiesa, probabilmente dipendente dal Capitolo di
V., senza citare la presenza benedettina, che si sarebbe insediata solo più
tardi, forse a ridosso della decisione di ricostruire l'edificio iniziato nel
1065, come ricorda un'epigrafe immurata in un pilastro. Un abate è menzionato
in un documento databile tra il 1082 e il 1087.
Un punto essenziale della rilettura di Trevisan è dato dalla
mancanza di un vero e proprio transetto, tanto che è stato adottato un termine
d'uso per l'architettura carolingia, gli 'annessi', ossia due corpi di fabbrica
aggregati al corpo delle navate - sporgenti in pianta e di altezza pari a
quella delle navatelle - absidati. Del
tutto convincente è l'ipotesi, avanzata per la prima volta sulla base di una
stringente e persuasiva analisi muraria, che il campanile sia stato innalzato
contestualmente alla chiesa, fino a un certo livello e non successivamente.
Ancora, dall'analisi dei dati sull'avancorpo e delle parti
sopravvissute nella chiesa superiore, Trevisan crede che si debba abbandonare
la tradizionale dizione di chiesa superiore e di chiesa inferiore, adottando
per quest'ultima il termine di cripta. Originariamente
infatti il vano inferiore non aveva alcun accesso diretto all'esterno e
comunicava esclusivamente con la chiesa attraverso otto gradini ricavati nello
spessore di muro: pertanto le funzioni non potevano essere distinte e
indipendenti da quelle della chiesa.
La datazione anticipata rispetto a quella di Arslan (1939),
che aveva individuato due differenti fasi edilizie - la prima responsabile solo
dell'impostazione dei muri perimetrali fino a una certa altezza, sottolineata
dal cambio di materiale edilizio, iniziata nel 1065; la seconda responsabile
dell'impostazione del sistema di copertura della chiesa inferiore e della
costruzione della chiesa superiore nella prima metà del sec. 12° -, è
supportata da puntuali osservazioni sui materiali e sulle tecniche di
lavorazione, tra cui l'indissolubile legame tra cripta e chiesa, che porta a
rendere difficilmente plausibile l'ipotesi di stasi di cantiere e di tempi
eccessivamente dilatati.
È stata inoltre individuata la presenza del contrafforte a
sperone (Trevisan, 1999, p. 96), vero leitmotiv dell'architettura romanica
veronese (Valenzano, 1993, pp. 1, 23-24).
Un dato particolarmente persuasivo è rappresentato dal
possibile termine ante quem costituito dalla lamina iscritta che riferisce
della consacrazione di reliquie, posta dal vescovo Zufeto (1107-1111)
nell'abside laterale di S. Lorenzo, visti i rapporti di dipendenza del cantiere
di tale chiesa da quello di S. Fermo Maggiore.
Dall'analisi dei capitelli emergono ancora più evidenti gli
stretti rapporti tra i due cantieri, tanto che a ragione si può parlare della
stessa maestranza, che appare aggiornata su quanto avveniva nel cantiere del
terzo S. Marco di Venezia, fondato nel 1063.
La rilettura di S. Fermo Maggiore toglie valore all'ipotesi
di una derivazione borgognona della pianta, già creduta riconducibile a uno
schema di filiazione cluniacense, e costituisce un'importante prova della
presenza a V. di maestranze capaci di elaborare varie suggestioni in un
linguaggio non riconducibile alle più usuali schematizzazioni delle scuole
regionali del Romanico lombardo o veneziano.
Che la medesima maestranza attiva a S. Fermo Maggiore abbia
realizzato S. Lorenzo è avvalorato, oltre che dalla precisa corrispondenza
planimetrica, dall'analisi delle tecniche di apparecchiatura muraria e dai
riscontri dell'apparato decorativo (Simeoni, 1905-1906, p. 131; Arslan, 1939,
pp. 23, 169-175; Romanini, 1964, p. 615; Trevisan, 1999, p. 111).
Nell'alzato di S. Lorenzo compaiono significative divergenze
che testimoniano il possesso, da parte di questa maestranza veronese - Trevisan
(1999, pp. 188-196), diversamente, ritiene si tratti di una maestranza lagunare
- di straordinaria versatilità nella prassi progettuale e di una non comune
ricchezza di riferimenti tipologici e formali.
La chiesa, oggetto di una radicale campagna di restauro
della fine dell'Ottocento - sulla quale si possiedono precise informazioni
grazie alle foto dell'archivio di Porter, che ispezionò e fotografò l'edificio
(Porter, 1915-1917) e a precise relazioni di restauro (Trevisan, 1999, pp.
197-198) -, presenta una pianta con tre navate absidate e transetto con absidi
orientate; le navate sono scandite da sostegni a ritmo alternato, pilastri
compositi, di forma quadrata con lesene e semicolonne addossate, e colonne
monolitiche.
Matronei con ampie arcate corrono sopra le navate laterali,
dalla controfacciata, e sono collegati da una tribuna, costruita nei restauri
fino a comprendere i bracci del transetto e i collaterali del santuario. Si
accede ai matronei grazie a due ampie torri scalari, addossate in facciata, che
ne enfatizzano il prospetto, già interpretate dall'erudizione settecentesca
locale come la sopravvivenza di resti di antiche torri romane, ma di cui sono
evidenti i rapporti con l'architettura esarcale nella soluzione delle torri
scalari del S. Vitale di Ravenna.
Per i matronei sono stati richiamati gli esempi normanni di
Cerisy-la-Forêt e Jumièges, Tournai, Peterborough, Clermont-Ferrand (Arslan,
1939, p. 178), ristretti alla cattedrale di Bayeux (Trevisan, 1999, p. 199).
La chiesa dovette essere completata entro il 1110: non sono
infatti accettabili le osservazioni di Arslan (1939, pp. 169-178), che
ipotizzava due diverse fasi costruttive, attribuendo alla seconda, riferita
alla metà del sec. 12°, la responsabilità di una profonda trasformazione del
precedente edificio con l'innalzamento delle volte e dei matronei.
La realizzazione di edifici dalle sofisticate e complesse
articolazioni spaziali a due livelli, quali S. Fermo Maggiore e S. Lorenzo,
rende plausibile l'ipotesi, adombrata da Peroni (1999, p. 67) di una formazione
veronese da parte dell'architetto Lanfranco, l'insigne costruttore del duomo di
Modena.
Le radicali trasformazioni dei due edifici più importanti
della città, il duomo e la chiesa benedettina del monastero di S. Zeno, le cui
ricostruzioni furono parimenti incominciate nella prima metà del sec. 12°, non
consentono di valutare appieno l'evoluzione del linguaggio delle maestranze
veronesi, che, nelle numerose costruzioni realizzate nel corso del secolo - Ss.
Apostoli, SS. Trinità, S. Maria Antica, S. Michele, detto Madonna di Stra a
Belfiore, S. Giovanni in Valle con ampia cripta -, sembra volgersi verso una
semplificazione della resa degli spazi, privilegiando il modello basilicale.
Nell'area della cattedrale furono riedificati il battistero
di S. Giovanni in Fonte, nel 1123, e la chiesa di S. Elena, consacrata nel
1140, e fu avviata la costruzione del chiostro, attestato almeno dal 1122.
Non vi sono appigli cronologici sicuri per la ricostruzione
della cattedrale, a parte una notizia tarda che testimonia l'inizio dei lavori
nel 1139 (Bartoli, 1987, p. 101).
Nel 1160 fu ricostruita la sagrestia, nel 1185 fu tenuto il
concilio da papa Lucio III, che morì in quell'anno e fu sepolto proprio nella
cattedrale.
Dall'analisi delle strutture murarie e dei paramenti
decorativi è stato possibile ipotizzare un avvio dei lavori verso il 1120
(Bartoli, 1987).
Della chiesa romanica - che taglia la struttura nota con il
nome di atrio di S. Maria Matricolare, dei primi del sec. 12°, e già creduta
cripta della cattedrale rateriana - si conservano i muri perimetrali fino a una
certa altezza, ca. metà di quella attuale, parte della facciata e parte della
navata centrale, inglobata nei sottotetti delle navatelle, che presenta motivi
decorativi realizzati dalla stessa maestranza veronese attiva al fregio
absidale e nei fregi che decorano la facciata e il fianco sud (questi ultimi
smontati e ricomposti, con l'inversione dell'ordine nella ristrutturazione
quattrocentesca che ha radicalmente trasformato l'interno dell'edificio), e la
zona orientale dell'od. quinta campata fino alla testata absidale.
L'abside, solcata da sottili paraste sormontate da capitelli
corinzi o compositi a sostenere una cornice decorata, costituisce uno degli
esiti più caratteristici della cultura delle maestranze veronesi che
raggiunsero soluzioni di capzioso classicismo nell'esibizione di modanature
classiche, quali gole, scozie, dentelli.
Sul fianco meridionale si apre un portale con protiro che
presenta alcune sculture avvicinate a un arco scolpito, proveniente dalla
cattedrale (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus. d'Arte), con iscrizione sottoscritta
dallo stesso scultore entrato nella storiografia veronese con il nome di
Peregrino: "Sum Pele / grinus ego / qui talia / sic bene sculp(t)o / quem
Deus in / altum faciat / conscendere celi(um)".
All'artista, attivo nel cantiere del duomo, è riferibile un
corpus di sculture contraddistinte da stilemi ben individualizzati, tra cui i
capitelli del portico del palazzo del Vescovado e i fregi dell'abside
settentrionale di S. Giovanni in Valle (Arslan, 1943, p. 89).
Dirompente fu senz'altro l'effetto della scultura di Nicolò
(v.), che realizzò per la cattedrale il portale occidentale racchiuso dal
protiro a due piani, l'unico integralmente conservato di quelli progettati e
realizzati dall'artista.
Con l'ingombrante presenza di Nicolò nel capoluogo veronese,
gli scultori cresciuti all'ombra di Peregrino diffusero il loro linguaggio in
alcune chiese del territorio, come il santuario della Bastia di Isola della
Scala, la pieve di San Floriano in Valpolicella o S. Pietro Apostolo di
Villanova.
Nicolò lavorò, oltre che per il protiro della cattedrale,
anche per la ristrutturazione della chiesa del monastero benedettino più
importante della città, fondato nell'area cimiteriale romana, dove era stato
innalzato un sacello ad corpus per conservare i resti di s. Zeno (m. nel 380),
a opera del vescovo Ratoldo (803-840) e del re d'Italia Pipino (m. nell'810),
figlio di Carlo Magno. La costruzione del complesso monastico rilanciò il culto
di s. Zeno.
Alla crescita del monastero contribuì lo stretto legame tra
il cenobio e gli imperatori, che vi fissarono la loro residenza abituale nelle
soste a V., passaggio obbligato per scendere verso la penisola italiana. Ottone I il Grande (m. nel 973), in una di
queste visite, accordò un dono al vescovo Raterio per promuovere la
ricostruzione della chiesa di S. Zeno Maggiore.
Seguirono altre importanti donazioni e privilegi che
costituirono la base dell'incremento patrimoniale che permise a sua volta
l'intensificazione dello sfruttamento economico dei beni territoriali.
Le alte rendite accumulate consentirono la promozione degli
importanti interventi costruttivi che si susseguirono nel corso di questi
secoli.
Nel corso del sec. 12° fu riedificato anche il campanile,
mantenendo la base fino al primo livello della costruzione iniziata nel 1045 e
completato con l'innalzamento, promosso dall'abate Gerardo (come recita la
lunga iscrizione incisa lungo il fianco sud), "delle logge nuove sopra
quelle vecchie e facendo costruire la pigna, realizzata in modo straordinario.
In questa realizzazione fu aiutato da altri valenti uomini
religiosi, in primo luogo dai suoi fratelli Salomone e Rainaldo (Valenzano, 1993, pp. 215-218), indicati con
il termine di operis massarii, vale a dire responsabili economici, con funzioni
parzialmente assimilabili a quelle dei moderni impresari.
Tale opera fu eseguita dal magister Martino, che sembra
assommare in sé le competenze di un architetto e di un ingegnere strutturista,
data l'enfasi con cui è menzionato il peso della costruzione, che risulta di
più di 500 libbre (Costruire, 1993, p. 27).
Nel 1138 fu ampliata e ricostruita la chiesa, conservando le
testate delle navatelle con le absidiole e qualche tratto di muro dell'edificio
precedente. Si tratta di una basilica a tre navate con archi trasversi e
soffittatura lignea, dotata di un'ampia cripta, frutto di un'ulteriore
trasformazione. L'avvio del cantiere avvenne dalla facciata progredendo verso
E, per collegarsi con la chiesa
precedente, che venne conservata per evidenti ragioni liturgiche. Nella stessa
campagna fu demolito l'edificio preesistente, a eccezione della zona orientale,
e si procedette alla costruzione, settore murario per settore, fino al
collegamento con le strutture preesistenti, che furono rialzate (Valenzano,
1993).
Un'ipotesi ricostruttiva diversa era stata avanzata da
Arslan (1939, pp. 192, 199-201) che individuava nelle parti orientali più
antiche una realizzazione degli inizi del sec. 12°, ampliata nel 1138 con la
costruzione dei settori caratterizzati dalla tessitura muraria a filari
alternati di cotto e tufo, ulteriormente prolungata e innalzata a opera di
Brioloto e Adamino da San Giorgio (v.) con la costruzione del corpo occidentale
e della nuova facciata, in cui sarebbe stato rimontato il materiale scolpito
dalla fronte precedente.
Il fitto dibattito storiografico si è incentrato sulla
realizzazione delle formelle bronzee, opera di due diversi ateliers, comunque
ascritte unanimemente al sec. 12° (Mende, 1983; Zuliani, 1990), e sul ruolo
svolto da Nicolò nella ricostruzione del 1138 (Peroni, 1985; Quintavalle, 1985;
Gädeke, 1988).
Nicolò firmò la lunetta con S. Zeno che benedice il popolo
veronese, rappresentato dai milites e i pedites, consacrando l'istituzione
comunale. Realizzò il protiro con l'architrave con le raffigurazioni dei Mesi e
ripeté la sua firma sulla lastra della Creazione dell'uomo tra le scene
veterotestamentarie.
A S. Zeno Maggiore Nicolò approfondì il rapporto con
l'Antico (Valenzano, 1995) e accompagnò le sculture con esametri leonini, in
cui sono rintracciabili riferimenti a poeti classici e carolingi, dettatigli
dall'ideatore del programma, probabilmente un dotto monaco benedettino.
I rilievi di sinistra, con scene del Nuovo Testamento, sono
firmati da Guglielmo (Valenzano, 1993, pp. 126, 233-234), un collaboratore di
Nicolò, individuabile già a Ferrara.
I rilievi inferiori con le scene dei duelli, l'enigmatica e
sconosciuta Mataliana scolpita nel blocco entro il contrafforte a sperone e la
leggenda di Teodorico, giudicati non pertinenti al programma originario della
facciata e ritenuti parte di un pontile o di un monumento sepolcrale, sono
invece da considerarsi parte integrante e strettamente collegati sia dal punto
di vista esecutivo sia da quello simbolico: richiamano infatti alla necessità
di mondarsi dall'ira e dall'omicidio, che portano alla dannazione, prima di
entrare in chiesa. Sono riconducibili a Nicolò anche i capitelli.
Un altro argomento di discussione è costituito dalla
determinazione delle modalità di intervento sull'edificio del sec. 12° da parte
di Adamino da San Giorgio e di Brioloto, documentato dal 1181 al 1215,
risultante già morto nel gennaio del 1226 (Valenzano, 1993, pp. 220-221;
Costruire, 1993, pp. 27-28), esaltato nell'epigrafe, oggi immurata entro la
parete sud all'interno della chiesa, per aver realizzato la ruota della
Fortuna.
Nella parte centrale del rosone corre, incisa, la seguente
iscrizione: "En ego fortuna moderor mortalibus una / elevo depono bona
cunctis vel mala dono". All'interno della chiesa, nella zona
corrispondente, il testo prosegue così: "induo nudatos denudo veste
paratos / in me confidit si quis derisus adibit". Il soggetto costituisce un imprescindibile
corollario al programma della facciata e del protiro, contrapponendo al tempo
divino quello in cui sono costretti a vivere gli uomini. Il programma
figurativo della facciata era completato dal Giudizio universale inciso, un
tempo dipinto.
Lacerti di pitture con episodi della Genesi sono conservati
entro gli archetti del coronamento dei primi due settori occidentali della
navata centrale, a coronamento del sovralzamento della facciata e dell'edificio
a opera di Brioloto e di Adamino da San Giorgio.
In tali anni lavorarono anche altri muratori, come un Mustus
murarius con il figlio Benedetto, ricordati nei registri di documenti (Verona,
Arch. di Stato; Valenzano, 1993, p. 223).
L'opera di
trasformazione della chiesa, con la ricostruzione della parte alta della navata
centrale e l'inserimento di ampie bifore nelle pareti delle navatelle, iniziata
nel Duecento, fu interrotta per essere ripresa nella seconda metà del Trecento
e terminata con la completa ricostruzione dell'abside, a opera di Giovanni da
Ferrara e del figlio Nicola, tra il 1386 e il 1398, e con la realizzazione del
soffitto a carena di nave sulla navata centrale.
Adamino da San Giorgio, documentato nel 1215, firma un
capitello su cui si impostano gli arconi settentrionali scolpiti, di accesso
alla cripta.
È stato pertanto ritenuto responsabile della sensibile
trasformazione dell'area presbiteriale, che doveva essere completata da un
pontile in muratura (l'od. balaustra è frutto del restauro progettato da
Giacomo Franco nel 1870), eliminato nelle trasformazioni cinquecentesche.
È stato ipotizzato che i resti di affreschi sulla fronte dei
tre arconi centrali della cripta, con la scritta Imperator, siano da mettere in
relazione con la raffigurazione dell'Incredulità di s. Tommaso del gruppo di
notevoli statue, con allusione all'eresia catara, contro cui l'imperatore
Federico II di Svevia attuò nel 1238, anche a V., severi provvedimenti
(Zuliani, 1992, p. 38).
Le sculture sono state attribuite, senza fondamento, a
Brioloto (Neumann, 1979), insieme ad altre sculture duecentesche veronesi da
tempo note (Arslan, 1943).
In una loggia del palazzo abbaziale fu affrescata una scena
di omaggio a Federico II, che venne accolto con grandi onori nel 1212 e che
assistette davanti alla basilica alla lettura del bando contro i nemici
dell'impero, promulgato da Pier delle Vigne (Zuliani, 1992).
Nella chiesa di S. Zeno Maggiore furono inoltre celebrate le
nozze tra la figlia naturale dell'imperatore, Selvaggia, ed Ezzelino da Romano
(1194-1259).
Nel corso del sec. 13° furono realizzate molte opere che
però non presentano, dal punto di vista progettuale e strutturale, elementi di
grande novità.
Il palazzo della Ragione (od.
palazzo del Comune), eretto a ridosso del 1193-1196, se riprende in forme più
pausate e preordinate l'articolazione parietale elaborata nel cantiere
zenoniano, costituì un modello per l'edilizia civile.
Delle numerose case-torri, attestate
dai documenti, rimangono alcuni esempi: tra i più significativi quella di
vicolo del Moro o le due di palazzo Pellegrini Bissoni Trabucchi.
Lo sviluppo urbanistico medievale ha privilegiato l'impianto
a corte, a differenza di altri centri medievali (Ambienti, 1987, p. 23).
Discontinua era inoltre la conformazione dei perimetri altimetrici; case a un
solo solaio si alternavano a vere e proprie torri, come documentano le
strutture abitative di fondazione duecentesca in via S. Giovanni in Valle a
corte del Duca.
Negli edifici è presente la struttura a capanna dell'ultimo
piano, sottolineata all'interno da decorazioni pittoriche che seguivano
l'inclinazione della falda del tetto.
I materiali usati nell'edilizia privata sono gli stessi di
quella religiosa: tufo, laterizio, quasi sempre di reimpiego, almeno fino al
sec. 13° inoltrato, quando si assiste a una maggiore regolarità del paramento
in cotto, realizzato appositamente da nuove fornaci.
Gli interni degli edifici di prestigio erano decorati da
pitture, come mostrano alcuni significativi ritrovamenti (Ambienti, 1987;
Cozzi, 1992, p. 203), a cui si aggiungono gli affreschi duecenteschi del
chiostro capitolare.
Verso la fine del sec. 13°, con l'elezione di Alberto I
Della Scala (1277-1301) a capitano del popolo a vita, iniziò la signoria
scaligera (v. Scaligeri), venute meno le esigenze di difesa privata con la fine
delle lotte di fazione, si assistette a un rinnovato fervore edilizio, che portò
a un radicale rinnovamento delle tipologie abitative, in cui compare
frequentemente il motivo della loggia murata o del ballatoio in legno. Ad
Alberto si devono importanti imprese edilizie.
Egli munì il ponte della Pietra di una porta fortificata,
diede inizio alla costruzione del ponte Nuovo e del castello adiacente,
contribuì all'erezione della chiesa domenicana dedicata a s. Pietro Martire
(od. S. Anastasia), potenziò la cinta urbana realizzata in età ezzeliniana
Fece edificare le 'regaste' (argini fortificati merlati),
per controllare le piene dell'Adige, e promosse l'erezione della Domus
mercatorum (1301) e della loggia delle Sgarzerie (mercato delle lane).
Con Cangrande I della Scala (1308-1329), che ricevette nel
1311 con Alboino la nomina di vicario imperiale, il dominio scaligero raggiunse
il suo apogeo. La nuova cinta muraria, che contava sei porte e ventuno
torrette, doveva modificare il profilo di V., assurta a capitale di un esteso dominio
territoriale. L'impresa costituisce ancora oggi un forte impatto visivo nei
resti imponenti delle mura realizzate nel 1324 sulla riva sinistra, con le
diciotto torri ancora esistenti, che si inerpicano lungo le asperità del colle.
La Verona di
Cangrande I appare dalle fonti come un grande cantiere di opere civili,
militari e religiose. Non stupisce che Vasari, nell'edizione giuntina delle
Vite del 1568, aggiornata sulla scorta delle informazioni fornitegli da una
fonte veronese, fra Marco de' Medici, aggiunse nella biografia di Giotto che
l'artista fiorentino sarebbe passato "a
Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture, e
particolarmente il ritratto di quel signore; e ne' frati di S. Francesco una
tavola" (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 107).
Il senso del panegirico vasariano è stato inteso come
'memoria indiretta' di un importante cantiere giottesco per quegli stessi
committenti (De Marchi, 2000).
Dopo i primi studi sul giottismo veronese, caratterizzato
dall'omissione di qualsiasi fondo architettonico, disegnato piuttosto che dipinto,
e quasi privo di modellatura (Sandberg Vavalà, 1926, p. 60) e la
puntualizzazione di alcune personalità dai nomi convenzionali come il Primo
Maestro di S. Zeno, seguirono importanti precisazioni, come il riconoscimento
del Maestro del Redentore (Cuppini, 1965).
Ancora di recente (Cozzi, 1992) è stato ripetuto che la
cultura pittorica veronese nella prima metà del Trecento è affidata soprattutto
a riquadri votivi isolati, mancando i "grandi cicli narrativi, impalcati
dalla spazialità giottesca, come succede, sia pure con risultati alterni, in
tutti i centri toccati dal passaggio di Giotto" (Zuliani, 1974, p. 23).
In realtà una precoce e sensibile assimilazione delle
conquiste del Giotto della cappella degli Scrovegni è documentata dalla
grandiosa decorazione di S. Fermo Maggiore, che, avviata dall'abside, era volta
a coinvolgere l'intera chiesa.
I Francescani, insediatisi in città, ricevuta fin dal 1248
la chiesa romanica di S. Fermo Maggiore, dell'Ordine benedettino, che
occuparono tra il 1257 e il 1259 (Trevisan, 1999), ne ristrutturarono
radicalmente la fabbrica.
Le prime trasformazioni riguardarono il coro e l'abside,
elevati nel Duecento, seppure non ancora voltati, come prova la prima
decorazione, tipicamente duecentesca, con grandi fregi a girali su fondo nero
nelle lunette delle pareti laterali del presbiterio, interrotti dalle volte.
L'intervento proseguì con l'eliminazione della tripartizione in navate per
creare un'unica aula-granaio, coperta al principio del Trecento dalla carena
lignea, dipinta probabilmente dalla stessa bottega del Maestro del Redentore
con una serie nutrita di santi a mezzo busto, di fattura assai compendiaria (De
Marchi, 2000).
Una formazione del Maestro del Redentore - che trae il nome
dal Cristo in maestà raffigurato nella vela centrale dell'abside di S. Fermo
Maggiore - nel cantiere padovano della cappella degli Scrovegni è stata
ipotizzata per "la tessitura pittorica sfumata, seppur più astrattamente
lucente e volutamente sommaria nei profili dal segno grasso, [...]
straordinaria interpretazione della matura naturalezza del Giotto padovano,
riportata a valori di più icastica espressività" (De Marchi, 2000).
Responsabile dell'ardito progetto fu il padre guardiano fra
Daniele Gusmerio, immortalato nel 1314 sull'arco trionfale, la cui munificenza
è celebrata dall'iscrizione sovrastante, per l'offerta delle vetrate, delle
pitture, della navata del coro e altro ancora. Sull'altro lato compare
Guglielmo Castelbarco, il potente signore della val Lagarina, fedele alleato di
Cangrande I Della Scala, che contribuì in maniera decisiva al finanziamento
delle stesse imprese.
Che la decorazione sia stata progettata unitariamente è
provato dai motivi decorativi architettonico-illusionistici.
I singoli riquadri, dei due transetti e della navata, furono
studiati ognuno a sé stante, attribuiti a maestri diversi che si sarebbero
caoticamente avvicendati. Merito di De Marchi (2000) è aver proposto una
lettura unitaria del complesso figurativo, unico grandioso progetto decorativo
realizzato a Verona, e significativamente in un cantiere francescano, prima
della metà del Trecento, eseguito dalla bottega del Maestro del Redentore verso
il 1330, a eccezione di due interventi: a opera il primo di un atelier giunto
da Venezia con una cultura paleologa, responsabile dell'Incoronazione della
Vergine e dell'Adorazione dei Magi, e il secondo di un pittore più giovane,
emerso in seno alla bottega del Maestro del Redentore, la cui attività matura
coincide con quella del Secondo Maestro di S. Zeno (Sandberg Vavalà, 1926), che
da solo intraprese a dipingere il transetto sinistro con un ciclo francescano e
la Crocifissione della cappella di S. Antonio, conformandosi comunque ai
medesimi partiti decorativi.
Non condivisibile è l'idea di individuare in Paolo Veneziano
il maestro di cultura veneziana filopaleologa, responsabile per qualche anno
dell'orchestrazione delle pitture del fregio.
La decorazione dei due transetti venne quindi affidata al
Maestro del Redentore e a un suo giovane seguace.
Il Maestro del Redentore, che aveva inteso la sintesi
plastica delle figure del Giotto padovano, estraendola dalla complessa
articolazione spaziale sapientemente costruita dal maestro toscano, influenzò
con le sue possenti figure uno scultore come il Maestro di S. Anastasia, autore
del gruppo della Crocifissione (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus.
d'Arte), di esasperato e intenso realismo nella durezza delle smorfie.
Accanto ai maestri attivi nei numerosi affreschi votivi, la
cultura pittorica veronese, nei primi decenni del secolo, è testimoniata dal
paliotto detto dei Sette santi (Verona, Mus. di Castelvecchio, Civ. Mus.
d'Arte), opera di un anonimo maestro intorno al 1320 ca. (Lucco, 1986, p. 116),
e da raffinati codici miniati (Verona, Bibl. Capitolare).
Il pittore che dipinse il Battesimo di Cristo in S.
Anastasia, già identificato con lo pseudo-Jacopino - Cozzi (1992) fa sua
l'attribuzione di Arcangeli (Pittura bolognese del '300, 1978) a Jacopino di
Francesco de' Bavosi, ma in modo poco persuasivo (Lucco, 1986, p. 116; De
Marchi, 1999, p. 14) -, per le durezze del panneggio e il giottismo severo e
dogmatico nella riproposizione delle rocce scalfite, si caratterizza per i toni
aspri e l'intemperanza dei gesti.
Dai documenti (Fainelli, 1910) sono noti i nomi dei pittori
Gerardo, Geteno, Tommaso da S. Maria in Organo, detto Macario, Provalo della
Beverara e Giovanni da S. Vitale.
Negli anni quaranta e cinquanta a Verona, toccata
dall'influenza lombarda e veneziana, sono menzionati numerosi pittori, tra cui
Nicolò da S. Eufemia, Rizzardo, Marchesio, e vari maestri, a loro volta figli
di pittori, a documentare la tradizione di botteghe familiari (Cenci, 1966).
Per Verona fu attivo Lorenzo Veneziano (v.), al quale si
deve la Madonna dell'Umiltà, dipinta per S. Anastasia (Guarnieri, 1998, p. 16),
un tempo sul tramezzo della medesima chiesa, da cui provengono, dello stesso
pittore, anche la Croce, ora in S. Zeno Maggiore, e un dipinto, non più
rintracciato, datato 1356, posseduto nel 1731 da Scipione Maffei.
Negli stessi anni si svolse l'attività di Turone (v.), che
un documento dice proveniente dalla diocesi milanese (Cuppini, 1965).
Le commissioni della corte viscontea costituirono senz'altro
un polo di attrazione per gli artisti più ambiziosi, e da tempo è stata
riconosciuta la formazione milanese (Volpe, 1983, pp. 301-302) del pittore
Altichiero (v.), che a Verona dipinse la
decorazione della sala grande del palazzo di Cansignorio (od. prefettura),
compiuto nel 1364, con episodi tratti dalla Guerra Giudaica di Giuseppe Flavio,
di cui rimangono solo alcune teste di imperatori (Verona, Mus. degli Affreschi
G.B. Cavalcaselle).
Verso la fine del secolo sono documentati Giacomo da Riva,
Bartolomeo Badile, Martino da V., Jacopo da Verona.
Nell'impossibilità di elencare i numerosi affreschi che si
dispiegano sulle pareti delle principali chiese di Verona. (S. Fermo Maggiore,
S. Zeno Maggiore, S. Anastasia), conviene almeno richiamare la chiesa di S.
Giorgio dei Domenicani (od. S. Giorgetto), un raro esempio di arredo interno
datato intorno al 1353 (Gerola, 1912, p. 205).
Le cronache rendono edotti sulle opere pubbliche promosse da
Cansignorio: tra esse vi è il sistema idrico che portò in città l'acqua dei
Lorì di Avesa, convogliandola fino alla fontana, detta di Madonna V., fatta
realizzare in piazza delle Erbe. Su di essa fu posta una statua di età
imperiale romana, restaurata con l'integrazione di braccia e testa, dorata, a
raffigurare la Vergine.
Nel 1370 la città venne dotata di un orologio.
Tra il 1373 e il 1375 fu costruito il ponte delle Navi,
munito di torri.
Lo stesso Cansignorio affidò l'edificazione della sua
fastosa arca a Bonino da Campione, il celebre scultore attivo in Lombardia,
artista prediletto da Bernabò Visconti, il quale la terminò nel 1375; essa era
destinata a coronare il complesso monumentale, nato come mausoleo della
signoria scaligera, con la realizzazione di sarcofagi non scolpiti, senza un
preciso programma, a partire dalla fine del Duecento. Nonostante la cospicua
messe di studi, molti aspetti del sepolcreto monumentale rimangono
un'incognita.
Recentemente è stata ribadita l'ipotesi, già avanzata da
Simeoni (1919) e ripresa da Seiler (1994), che il primo sarcofago figurato -
attribuito alla figura documentata solo da testimonianze scritte di Rigino di
Enrico (Mellini, 1971) - non fosse stato realizzato per Alberto I (m. nel
1301), bensì fosse destinato a essere la prima tomba di Cangrande I, del 1330
ca., ipotesi avvalorata con la notizia che l'epitaffio sarebbe stato scritto da
un Grimani, famiglia di notai attivi per Cangrande I (Varanini, 1995, p. 28).
Il sepolcro di Cangrande I non è mai citato dalle fonti
tre-quattrocentesche che descrivono le arche di Mastino II e Cansignorio.
L'arca-mausoleo di Cangrande I, fatta realizzare con la
propria da Mastino II, sarebbe opera di Giovanni di Rigino (Melini, 1971),
artista di cui non si sono con certezza ritrovate altre opere. Se l'ideologia
sottesa a questo programma di celebrazione dinastica, perseguito con scelte
tanto monumentali quanto inusuali, è stata ampiamente indagata (Donato, 1995),
rimangono ancora da determinare, non solo i nomi degli artisti, ma anche le
loro precise caratterizzazioni stilistiche e culturali che possano
giustificarne le novità.
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Fonte: Trecani.it
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