«Fra le altre tragedie che abbiamo vissuto (…) in questi
ultimi anni, c’è stata anche la tragedia della perdita del dialetto, come uno
dei momenti più dolorosi della perdita della realtà».
Con questo grido di dolore Pier Paolo Pasolini, nel 1964,
decretava come avvenuta la morte delle parlate dialettali a vantaggio di un
italiano medio «tecnologico», modellato a misura della società
neocapitalistica.
Italo Calvino, assumendo in polemica con lui un punto di
vista decisamente più «moderno», scrisse che l’italiano si giocava il suo
futuro in rapporto alle lingue straniere e che gli scambi con il dialetto erano
superati: la nostra lingua nazionale doveva porsi un problema di traducibilità.
Cinquant’anni dopo, chi dei due aveva ragione? Pasolini o Calvino?
Probabilmente né l’uno né l’altro, se è vero che entrambi
davano per spacciato il dialetto (Pasolini con angoscia, Calvino forse con
sollievo), mentre il dialetto anzi i dialetti, al plurale, resistono e si
rinnovano. Si rinnovano mescolandosi con l’italiano. Del resto, le lingue, come
i popoli, sopravvivono solo se sanno rinnovarsi, cioè mescolarsi.
Ben lungi dallo scomparire, ovvio che sul piano quantitativo
il dialetto come strumento esclusivo di comunicazione pratica e quotidiana è
parecchio regredito rispetto agli anni passati, anche se rimane pressoché
intatto in certe fasce sociali e in contesti geografici locali (lo parla ancora
in media, con amici o in famiglia, un terzo della popolazione).
Ma Pasolini non aveva previsto la sua capacità di rilancio
in funzione espressiva, anzi riteneva che l’affermazione del nuovo italiano
avrebbe prodotto il ripiegamento della lingua letteraria verso un grigio
livello medio: certo, considerando il generale abbattimento di qualsiasi
ambizione stilistica in letteratura e l’adeguamento alla lingua della
comunicazione, non si può dargli totalmente torto.
D’altra parte però è pur vero che, non appena abbiamo
diffusamente imparato l’italiano, il dialetto ha cominciato a rifluire sempre
più nella lingua regionale contribuendo spesso a colorarla e a renderla più
espressiva.
Sono per primi i sociolinguisti (Gaetano Berruto, Alberto
Sobrero, Giuseppe Antonelli) a sottolineare questo processo imprevisto per cui
— non solo nel parlato familiare — i registri affettivi, informali, emotivi
vengono spesso delegati alle varietà locali. Insomma, il dialetto è tutt’altro
che morto, anzi è diventato una risorsa. Per di più, il suo prestigio sociale
ha guadagnato punti: il dialetto non è più sinonimo di povertà socio-culturale.
Di questo e di altro parlano Andrea Camilleri e Tullio De
Mauro nel bel libro-dialogo La lingua
batte dove il dente duole (Laterza). E specialmente il primo capitolo ci fa
capire perché il dialetto continui ad agire (più o meno sotterraneamente) in
funzione vivificante.
De Mauro ricorda che qualche anno fa, lavorando a un
vocabolario del parlato e dovendo sbobinare un dialogo concitato tra un
infermiere e alcuni portantini dell’ospedale di Napoli, gli esperti furono
costretti a ricorrere ad altri colleghi per decifrare diverse parole incomprensibili.
Eravamo in una grande città. A Milano e a Torino, forse, sarebbe più raro
trovare dialettofoni occasionali per strada. Non a Venezia, a Verona, a
Bologna, a Bari, a Palermo o a Pescara… E neanche in certe zone di Roma. È per
lo più una dialettofonia alternata o frammista all’italiano nei modi del code
switching , cioè del passaggio da una lingua all’altra nello stesso discorso, o
del code mixing , ossia dell’inserimento di termini dialettali in un discorso
in italiano e viceversa.
«Sono sempre stato convinto, sbagliando, che il dialetto era
destinato — dice Camilleri — a una condizione di immutabilità, mentre era solo
la lingua che mutava e si rinnovava». Certo, anche i dialetti si adattano a
nuovi ecosistemi sociali e culturali. Se non cambiassero, non esisterebbe il
commissario Montalbano. «Non si tratta — avverte De Mauro — solo di banale
italianizzazione, di parole prese in prestito dall’italiano, anche se
l’avvicinamento progressivo del dialetto alla lingua è un fenomeno per certi
aspetti inevitabile. Il fatto interessante è che quelli che parlano
prevalentemente il dialetto se ne vanno anche per strade loro, continuano a
inventare parole nuove e a riadattare quelle vecchie.
Le classi colte di città, di Roma, di Milano, pensano che i
dialetti siano cosa morta, che non si parlino più. Ma è una palese
sciocchezza». E torniamo così alla profezia di Pasolini.
Va da sé che dal revival del dialetto vanno sfrondate le
tentazioni identitarie prefigurate per esempio dalla Lega quando propone di
insegnarlo a scuola, come se fosse possibile insegnare una lingua non scritta,
priva di grammatiche e con varianti lessicali e fonetiche da paese a paese, se
non da contrada a contrada. «Balordaggini sostenute da sciocchi abbacinati
dall’idea di salvare un feticcio», sostiene lo storico della lingua Francesco
Sabatini. Va anche sfrondata, dalla sostanza più seria, l’esibizione
informale-vernacolare dilagata in ambito politico con (malcelata) funzione
populistica, la stessa che spinge certi leader ad accentuare la prosodia locale
o a concedersi all’improperio facile: vedi il delicato scambio di «Vaiassa !»
tra Alessandra Mussolini e la ministra Carfagna, che ricordava la mitica scena
delle lavandaie della Gatta Cenerentola .
Ben altro discorso è quello che riguarda il rilancio del
dialetto in letteratura, in musica, nel teatro, nel cabaret, nel cinema. Non è
certo una novità la presenza di coloriture locali nei romanzi, ma l’intensità
attuale, forse anche dovuta alla sempre più massiccia invasione di oralità
nella scrittura letteraria, si era vista di rado: Camilleri a parte, dal pisano
di Marco Malvaldi al lombardo di Laura Pariani, dal napoletano gergale di Marco
Ciriello al romanesco di Walter Siti, ormai la geografia linguistica italiana è
quasi completamente rappresentata nella narrativa. Per non dire dell’aurea
tradizione poetica in dialetto, dove va ben distinto il grano dal loglio
dell’ingenuità casereccia, come sapevano bene Pasolini e Zanzotto, e come ben
sa Cesare Segre. Il quale individua nel trevigiano dialettale Luciano Cecchinel
una delle voci maggiori della poesia italiana d’oggi tout court .
Va poi messo nel conto che negli ultimi vent’anni si sono
moltiplicati i gruppi musicali giovanili che, nei generi più disparati, hanno
optato per i linguaggi locali in chiave non solo di ricerca folklorica, ma di
antagonismo politico: vedi le «posse» diffuse nell’intero territorio nazionale,
dai napoletani Almamegretta ai piemontesi Mau Mau, dai pugliesi Sud Sound
System ai veneti Pitura Freska e agli emiliani Modena City Ramblers.
Altro versante molto produttivo che meriterebbe una
mappatura a sé è quello teatrale, che ha visto nell’ultimo decennio la nascita
di protagonisti di rilievo assoluto assurti anche alla ribalta televisiva, come
Marco Paolini e Ascanio Celestini.
Un versante che continua a dare frutti meravigliosi come
(per fare un solo esempio tra i tanti possibili) quel piccolo capolavoro che è
La madre (sottotitolo: I figlie so’ piezze ’i sfaccimma ) del giovane
drammaturgo-regista-attore napoletano Mimmo Borrelli (insignito recentemente
del premio Testori).
Sono ambiti in cui il dialetto ha sempre agito ampiamente in
controcanto alla lingua. Ma quel che colpisce, in questa fase di riscatto, è la
sua emersione in domini d’uso imprevedibili, come i fumetti sperimentali e
giovanili, il web, in cui non si contano i messaggi e i blog semidialettali in
funzione ludica, i video (spesso con doppiaggi parodistici) e i siti dedicati
alle parlate vernacolari non solo da cultori nostalgici. E non è un caso che
anche la pubblicità, consapevole del rinnovato prestigio, provi a lanciarsi nel
dialetto in chiave glocal. Si vedano gli slogan «idiomatici» di Linkem e
Fastweb in barese: «Agguand’ a Peppin !» (acchiappa Peppino!) e «Vin dou »
(vieni qua!). Ne sarebbero contenti Pasolini e Calvino? Sì, no, vai a sape’.
Fonte: Visto su Arianna Editrice del 29 dicembre 2013
Nessun commento:
Posta un commento