A. NORSA – A. BRUGNOLI – F.
CORTELLAZZO – G. MORTARO – A. RIDOLFI
1. INTRODUZIONE
Il “furto della sposa”, consolidata tradizione presente in tutte le
vallate ladine, è un rito che i giovani del paese, invitati alle nozze,
compiono il giorno stesso, abitualmente dopo la celebrazione del matrimonio. Il rituale si
ritrova, con similitudini e differenze, oltre le catene montuose anche in altri
luoghi più o meno distanti, di diverse culture e religioni e affonda le sue
radici nella notte
dei tempi, laddove
si perdono le
documentazioni ed iniziano le
interpretazioni.
Il presente lavoro è la sintesi di cinque diverse prospettive
inerenti il tema proposto, frutto di altrettanti professionisti della Frazer Association for Anthropological
Research, associazione che da alcuni anni è impegnata nell’indagine e
raccolta di testimonianze nel settore etnoantropologico, competenti in diverse
discipline: antropologia, medicina e psicologia, religione, storia ed
educazione.
Il contributo sarà quindi introdotto da una disamina del rito nelle
vallate ladine, continuerà con una lettura dal punto di vista
antropologico-sociale, per rintracciare poi una continuità con i testi
classici, evidenziandone significative presenze anche nei sacri testi della
fede cristiana ed infine con la presenza, più o meno manifesta o mascherata dal
simbolo, nel mondo delle fiabe.
Faranno da cornice al lavoro i concetti di esogamia ed endogamia,
legami costanti dei diversi contributi.
ALESSANDRO
NORSA
2.
IL RATTO DELLA SPOSA NELLE VALLATE LADINE.
È Pierina de Jàn in Usanze de noze da n zacan (Usi e costumi di
nozze di una volta) che narra come avveniva un tempo nel Fodom il ratto
della sposa: Durante la festa ed il coinvolgimento degli invitati nel ballo
la sposa veniva rapita. I menagli - che
avevano il compito di sorvegliare la sposa durante la giornata -, preoccupati,
si mettevano subito alla sua ricerca. I rapitori erano gli amici
dello sposo che approfittando di
un momento di
distrazione generale
portavano la sposa
in qualche altra
locanda. Se i
giovani rimanevano in un’osteria del paese i menagli facevano presto a
ritrovarla.
Una volta scoperti, i rapitori venivano condotti nuovamente alla
sala da pranzo dove c’erano gli altri convitati, e veniva fatto loro un
processo (era chiaramente una farsa). Successivamente i condottieri, come pena
della loro distrazione, dovevano pagare gli osti dai quali i rapitori si erano
fermati a bere. In assenza della sposa, la festa si fermava e tutti rimanevano
in attesa del suo ritorno. Al rientro del gruppo la musica tornava a suonare
fino all’imbrunire. Poi tutti si apprestavano ad accompagnare gli sposi a casa
dove li aspettava ancora una sorpresa”. (285)
Nel racconto dell’informatore
di Bulla [L. W. classe 1933] in Val Gardena, alla tradizione del furto
della sposa seguiva, il giorno successivo, l’obbligo, il mëinanevicia, che un
tempo era sempre il non da batejé (padrino di battesimo), di saldare il conto
nelle diverse osterie dove il gruppetto di festanti amici si era fermato a bere
il giorno precedente.(286)
In Valle Badia il testimone di nozze era tenuto a mercanteggiare il
riscatto per il rilascio (in verità il più delle volte si limitava a pagare da
bere), per poter riportare la sequestrata allo sposo. I “rapitori” venivano poi
incatenati e dovevano sottoporsi ad una processo.(287)
A Colle Santa Lucia Franz COLLESELLI, nel 1956, afferma che vi era
un’usanza affine:
All’apertura delle danze, nonostante l’attenzione più viva del
compare dello sposo, la sposa veniva rapita.
Di seguito si iniziava la sua ricerca; quando il fuggitivo veniva
ritrovato, veniva riportato incatenato con la rapita al
cospetto dei commensali.
Quindi veniva fatto
il cosiddetto “processo al ladro”
in cui gli ospiti pronunciavano la sentenza. Solitamente la “condanna” del
ladro consisteva in una condanna, imprevedibile, buffa e spassosa secondo
l’estro di chi
è stato scelto
come giudice, come
ad esempio nel ballare un valzer con la sposa, legato mani e piedi con
pesanti catene.(288)
Luigia Lezùo aggiunge che il rapimento della nuicia, nella stessa
località, era considerato una dimostrazione di stima verso la stessa, pertanto
era un privilegio riservato solo a poche e scelte spose. Pertanto anche i
rapitori ricevevano la mancia dai suoi accompagnatori.(289)
In un lavoro di recupero della memoria delle usanze matrimoniali di
un tempo della Val di Fassa, pubblicate in un volume edito dall’Union di Ladins
de Fascia dal titolo Sposc e maridoc, Tita de Mègna di Canazei (G. Battista
Costa, 1884-1968) riferisce che mentre gli sbandieratori si susseguivano, c’era
l’usanza che il bufòn rapisse la sposa. La portava in una casa dove le davano
qualcosa di caldo da mangiare. Non succedeva niente di male, ma lo sposo doveva
andare a cercare la sposa, perché al posto della bella sposina, dopo che aveva
finito di menèr la Bandiera trovava una bambola di pezza, seduta su una sedia.
Se lo sposo era attento, mentre sventolava la bandiera guardava bene dove il
bufòn la portava.
Gianfranco VALENTINI, nel 1971, in una narrazione romanzesca,
aggiunge che “anche le altre camarìtes a turno venivano rapite dai quattro
camarìt allontanandosi dal resto del gruppo per qualche istante fintantoché lo
spettacolo degli sbandieratori non era concluso. Successivamente il corteo si
ricomponeva per recarsi
a casa dello
sposo per il
pranzo”.(290)
Quello descritto dal Gianfranco
VALENTINI potrebbe essere un
lacerto, oramai corrotto, di una più antica tradizione citata dal Felice
VALENTINI nel 1885, in Usi e costumi della Val di Fassa in cui si legge che
“buffoni gironzano attorno alle camarites, le smorfiano e le seccano; l’astuto
Arlecchino corteggia la sposa e tenta di soppiatto involarla allo sposo; e guai
se essa od un camarita smarrite da tanta confusione si lasciassero pigliare da
uno di loro, le risa e le beffe generali sarebbero infinite”.(291)
Per ciò che riguarda
l’argomento in Cortina d’Ampezzo,
nel 1849 J.P. KALTENBAECK
scriveva: “Durante il pranzo, spesso irrompevano amici o vicini non
invitati, armati di spade, che rapivano la sposa e la portavano a cavallo in
chiesa o all’osteria e dopo qualche ora la riportavano in dietro”. (292)
Osservazioni dello scrivente, confermano che l’usanza in questa
località è ancora in essere.
ANGELICO
BRUGNOLI
3. IL
FURTO RITUALE DELLA
RAGAZZA DA MARITO
DAL PUNTO DI
VISTA
Antropologico-Sociale.
Per non dare adito a diversi tipi di interpretazione, forniamo un
chiarimento sulla definizione del rito, almeno come viene concepito nei nostri
studi.
Riti e miti
Con il termine rito o anche tipo di rituale intendiamo dunque ogni
atteggiamento o comportamento o anche il loro insieme, quando viene eseguito
presso popoli diversi e lontani tra di loro, secondo norme definite, unificate
e codificate nel corso di tempi, a volte molto lunghi. Pertanto, in questo
caso, il rituale abbraccia un arco di tempo che coinvolge sicuramente molte
generazioni e molti secoli.
Di norma i riti e i rituali sono intimamente connessi a una
religione, con un comportamento che alla base parte proprio da principi di
natura religiosa e osservante determinate regole, dalle quali non è possibile
uscire.
Il mito invece si localizza sempre nella sfera del sacro, in quel
mondo caratterizzato da una sensibilizzazione a fatti forse realmente accaduti
in un passato più o meno lontano e poi portati avanti nel tempo con ricordi
associati a invenzioni, immaginazioni e fantasie. Ricordi e fantasie che più
tardi sono divenuti riti. Qualche autore, infatti, sostiene che sia proprio il
rituale che riassume, riprende e sintetizza il mito che altrimenti potrebbe
essere perduto o affondato nell’inconscio collettivo(293).
Furto rituale della ragazza.
Non è molto semplice recuperare nelle tradizioni religiose pratiche
di furto rituale della ragazza o della sposa, in modo particolare prima del
matrimonio oppure a scopo di matrimonio. In questo ambito specifico di norma le
tradizioni si rivelano quasi sempre di natura locale, molto probabilmente
perché gli antropologi se ne sono interessati ben poco nelle loro ricerche,
almeno per quanto riguarda il secolo scorso.
Al di fuori, nel grande pubblico, di qualsiasi religione si tratti,
il fatto di per se stesso non stimola interessi sociali estesi e pertanto, pur
se conosciuti e condivisi, non fanno mai parte di un bagaglio culturale che
affonda le sue radici nell’inconscio collettivo alla Jung(294).
Se vogliamo essere più precisi in merito al furto rituale della
ragazza da marito, più che della sposa, possiamo esaminarne le radici nei
rituali animici, specie delle regioni africane e della santeria cubana.
Accenni a questo si
trovano più che
altro nelle regioni animiche dell’Africa Nord- occidentale,
ove si possono reperire dei riferimenti o allusioni a delle pratiche che nella
realtà sembrerebbero così diffuse da essere addirittura
osservate e studiate
come facenti parte
delle pratiche usuali e pertanto
vissute entro la più completa normalità.
L’animismo viene considerato infatti la “Madre” delle religioni per
il fatto che gli antropologi classificano tipologie di religioni o pratiche di
culto, dove le qualità divine e soprannaturali sono attribuite a cose, esseri
materiali o luoghi.
L’animismo non identifica la divinità in un essere trascendente ma
attribuisce lo spirito a realtà materiali.
Il matrimonio nelle società
primitive
Endogamia ed esogamia rappresentano le principali regole
matrimoniali presenti nelle società
primitive.
Per endogamia si
intende l’obbligo di sposarsi all’interno di una determinata
unità sociale, generalmente la tribú nella quale si è nati e si vive.
Per esogamia si intende invece l’obbligo di sposarsi al di fuori di
una determinata unità sociale, in genere la banda, specie fra i cacciatori e i
raccoglitori, oppure il clan, specie tra gli orticoltori e nelle prime società
agricole.
Per questo motivo endogamia ed esogamia in genere coesistono e
individuano nel loro insieme i matrimoni permessi e anzi favoriti, e i
matrimoni proibiti. All’esogamia si ricollega anche il tabù dell’incesto, che
concerne non solo i matrimoni ma anche i rapporti sessuali, e trova
applicazione al livello stesso delle unità familiari.
Sigmund FREUD ha avanzato una spiegazione psicologica, ipotizzando
nelle regole di esogamia l’estensione del tabù dell’incesto (295).
Claude LÈVI- STRAUSS, con una spiegazione di tipo sociologico, ha
sottolineato piuttosto l’estensione della solidarietà sociale derivante dallo
scambio esogamico(296).
Robin FOX ha ricollegato, in
chiave etologica, tabú dell’incesto e regole dell’esogamia allo scopo di
evitare l’inbreeding (incrocio all’interno di gruppi ristretti) già presente
fra i primati superiori (in particolare i gibboni e gli scimpanzé).(297)
Riti di iniziazione.
Il matrimonio doveva essere consenziente, poteva esserci un accordo
tra la famiglia di lei e quella dello sposo, oppure si poteva fuggire mettendo
entrambe le famiglie di fronte al fatto compiuto o ancora, in casi estremi, la
donna veniva rapita direttamente, senza perdere tempo.
Il rapimento della donna giovane era importante soprattutto se la
donna era consenziente, specie se riferiva di essere rimasta incinta. Anche se
spesso si creavano chiacchiere e “inciuci”, non appena la sposa rimaneva
incinta, tutto si metteva
a tacere. Una
madre conquistava automaticamente il massimo del rispetto collettivo. Tutto
ciò, ad ogni modo, è sempre successo, non solamente presso le società tribali,
ma di norma presso tutte le società, addirittura anche
presso quelle convivenze
umane che sembrano
più evolute.
Il rito del matrimonio in
Kenia presso i Kikuyu.
Per fare un esempio di tradizioni tribali, ecco uno spunto sui
Kikuyu o Gikuyu, nomi trascritti anche come Kikuyu o Gikuyu, che sono il gruppo
etnico più numeroso del Kenya. Parlano la lingua gikuyu o kikuyu.
Il loro territorio tradizionale è il fertile altopiano centrale del
Kenya, che essi coltivano. Un loro rito in età adulta è ciò che mettono in atto
per preparare il matrimonio. Le ragazze in età da marito indossano i loro
gioielli migliori, e il pretendente si presenta alla famiglia con una frase
convenzionale: “Non mi chiedete cosa mi ha portato a farvi visita?”.
Segue un periodo di trattativa per stabilire l’ammontare della dote
che la famiglia dello sposo
verserà alla madre
della sposa. Il
matrimonio è preceduto da un
“rapimento”, rituale della sposa da parte delle donne della famiglia dello
sposo, che portano la ragazza nella capanna dello sposo, fra canti e danze.
Quando i due novelli sposi escono dalla capanna, la moglie prende dal fuoco una
spalla di capra arrostita e pronuncia un’altra frase rituale: “Anche quando non
sarai in grado di provvedere al tuo stesso cibo, resterò al tuo fianco”.
Le donne del clan della sposa ripetono lo stesso gesto rivolgendosi
ai parenti maschi dello
sposo, dicendo: “Siamo
ormai parenti”. La
sposa quindi versa del latte fermentato detto ucciorro allo sposo, e
dice: “D’ora in poi sarò io a ubriacarti”. Lo sciamano (mondomogo) conclude la
cerimonia invocando gli spiriti.
Da “Il filò dei tempi andati”
di Piero PIAZZOLA ecco un’osservazione
interessante e stimolante per questo
lavoro. (298)
Quando i genitori di lui, del futuro sposo, vengono a capire che
ormai non c’è più niente da fare per distoglierlo dal matrimonio con quella… e
che ormai è lei e non un’altra la ragazza che ha scelto, ma che, purtroppo,
quella non ha una solida scorta di mezzi e di denaro, cominciano a mettere i
pali tra le ruote … allo sposo, al figlio. Allora si verificava — torniamo a un
tempo passato, perché oggi questa circostanza non si ripete più con quelle
ritualità di una volta — la fuga. Il
promesso sposo organizzava di notte il rapimento della ragazza, d’accordo con
la fidanzata e con un paio di amici fidati e l’appoggio di una famiglia
“allineata”, si direbbe oggi, per ospitare temporaneamente la fidanzata.
La ragazza veniva portata a
casa di uno dei due amici e affidata alla mamma di lui. E vi rimaneva finché le cose non prendevano
una piega diversa. Il più
delle volte cedevano
i genitori del
ragazzo e allora
lo sposalizio, in una forma meno importante e col muso longo, si
celebrava. Se i suoi genitori, invece, s’intestardivano, la situazione
peggiorava. La nuova famiglia peraltro partiva ugualmente.
Il parroco del mio paese, nel 1867 trascrisse un documento di
denuncia, da parte di Antonio P. fu Gio Batta, di un avvenuto rapimento di una
certa Angela S., che aveva già data la sua adesione alla pubblicazione delle nozze
con un certo Cristiano T. di Marco, presenti
i testimoni e
“compari” del ragazzo.
Antonio fece mettere
al parroco per iscritto quanto segue: «Voi sarete testimoni che io in
questa notte ò levata Angela S. fu Antonio e depositata in una famiglia di qua,
intendendo con questo che sieno fermate le pubblicazioni incominciate tra la
stessa e Cristiano T. fu Marco…». Nelle pagine del registro dei matrimoni che
seguono apprendiamo che l’Angela di lì a poco passò a nozze proprio con
l’Antonio P. che l’aveva rapita.
Probabilmente, in precedenza, essa aveva accettato di far le
pubblicazioni con il Cristiano, pur di sottrarsi a una vita di violenze e di
servilismo in casa sua. Presentatasi la soluzione che le avrebbe permesso di
avere una vita più dignitosa in una famiglia più educata, aveva giudicato
liberatorio il rapimento. Lei aveva 22 anni; Antonio, invece, 27.
FRANCESCO CORTELLAZZO
4.
IL FURTO DELLA SPOSA NEL MONDO CLASSICO
Potrebbe essere interessante rilevare come il nome stesso, se non proprio
il concetto di Europa, nasca da un rapimento; per potersi unire a questa ninfa
bellissima, Zeus si trasforma in toro e la porta dall’altra parte
dell’Ellesponto, quasi a sancire al tempo stesso, pur con un atto di unione,
una sorta di frattura tra Asia ed Europa, una sorta di furto nei confronti di
quest’ultima terra, (che per altro i Greci percepivano un po’ come la loro
madre) appunto nel contesto della koinè mediterranea. Non è questo il solo
rapimento che interessa una donna e che si svolge nello stesso contesto
geografico. È Paride
che rapisce Elena
per portarla, in questo caso, da Sparta sulle sponde della
Troade.
Impostati sull’asse est/ovest, questi rapimenti, (che per alcuni
vanno collegati anche a spostamenti migratori e alle colonizzazioni micenee del
XIV sec. a.299),
si ricollegano, per
altro, ad altri
celebri rapimenti nell’antichità che
hanno coinvolto le
donne. ERODOTO, anzi, razionalizzando i miti, vede nei
reciproci rapimenti aventi oggetto donne, vale a dire Io, Europa, Elena e Medea
nell’ordine, l’origine delle rivalità tra Greci e Persiani.(300)
L’archetipo può considerarsi il rapimento di Persefone (nome di
etimo incerto, forse dal
sanscrito parsa-phana = splendente
di luce?), la Proserpina dei latini, figlia di Demetra
(=Terra Madre, così almeno interpretavano i Greci). Studi relativamente recenti, però,
evidenzierebbero che tale parentela non sembri esser stata originale, ma
posteriore, da collegarsi con l’affermarsi (comunque assai antico) dei riti
eleusini (301).
Le fonti più antiche di questo mito sono ESIODO (per la precisione
un verso nella Theogonia, v. 910) e il secondo degli Inni omerici dedicato a
Demetra, legato giustappunto ad Eleusi.
Al suo rapimento da parte di Ade/Plutone, dio degli inferi e delle
viscere della terra, e al suo ritorno presso la madre in primavera ed estate,
secondo quanto stabilito da Giove, intervenuto a placare l’ira ed il dolore di
Cerere, si è soliti collegare l’eziologia
del ciclo delle stagioni. Questo era un mito che definisce al tempo stesso il
valore del matrimonio (sei mesi a fianco
dello sposo), la fertilità della
Natura (risveglio primaverile), della famiglia nel suo insieme
(il ritorno fecondo presso la madre, la fertilità coltivata nell’ambito
domestico), vista anche
come possesso della
dona come garanzia che
rinsalda il legame
(a tal uopo
potrebbe essere interessante
ricordare come anche il decimo comandamento presente nelle Tavole della Legge,
il Decalogo, separi il possesso della donna da quello degli altri beni ad
evidenziare il ruolo specifico del possesso della donna); e ancora la rinascita e il rinnovarsi delle stagioni e
della vita dopo la morte, motivi questi che rendevano la dea Proserpina (= da
prosperare? Comunque presso i latini era nota anche col nome di Libera = figlia, cfr. Kore = fanciulla in greco) presso i romani particolarmente
popolare e venerata. (302)
Alla luce di queste brevi considerazioni, è dunque evidente il
concetto della donna come “merce di scambio”, sia pure di particolare valore.
Di un qual certo interesse,
sempre a proposito
di Persefone/Proserpina, la versione di Claudiano (303), che vede Proserpina quasi come
risarcimento per avere il più tetro dei regni e con gli elementi ctonii pronti
per la rivolta per seguire il proprio re (= il disordine della natura?); è
superfluo evidenziare come sarebbe importante sapere se ci si trovi di fronte
ad elaborazione poetica personale o comunque derivata da fonte recente, di mero
effetto poetico, oppure se l’autore greco-romano dell’età tarda riprenda idee o
fonti arcaiche a noi non pervenute(304).
A placare e a fare da mediatrici tra Ade e Cerere intervengono le
Furie, le greche Erinni, dee del buio e spettri dei delitti commessi contro il
proprio sangue. Complice del rapimento, e questo già nella versione più antica,
è Venere, dea dell’amore e della fertilità (come del resto Cerere stessa e sua
madre Cibele). Demetra/Cerere si vendica col bloccare la fertilità. Zeus deve
obbligare il fratello a lasciare tornare sulla terra Persefone, cui dà però dei
semi di melograno (simbolo di fecondità e anche del vincolo nuziale?) per
obbligarla a tornare presso di sé.(305)
Due sono gli aspetti di natura ancora controversa da tenere
presenti: in primo luogo gli è vero che Persefone era celebrata, in Sicilia, in
autunno al tempo della semina e l’estate, stagione in cui non c’è il grano,
sarebbe stata considerata la stagione in cui la dea era negli inferi con
Plutone (del resto la fanciulla è rapita in primavera, mentre raccoglie i fiori
di tale stagione). In autunno, al tempo appunto della semina, veniva celebrata
la riunione tra madre e figlia.(306)
In secondo luogo, il rapporto tra Persefone e Demetra non parrebbe
essere originario (è assente ad esempio in Omero), potrebbe essere
rielaborazione appunto eleusina, ma la situazione è ancora controversa.
Per altro, nel mondo greco solo i miti ricordano in maniera
significativa il rapimento della donna; solamente a Sparta si era conservata la
memoria del furto -
si direbbe rituale
- della sposa.
PLUTARCO ci dice
che il matrimonio accadeva
per rapimento. Nella
Vita di Licurgo,
110, dice esplicitamente: “Ἐγάμουν
δὲ
δι´
ἁρπαγῆς,”. (307)
Conferme a tali
notizie potrebbero essere
reperite presso ERODOTO
(VI, 65,2)(308) e ATENEO(309)
anche se in maniera indiretta. Ma non è che vengano date ulteriori e più dettagliate notizie in
merito. Senofonte, che pure visse molti anni a Sparta e scrisse un trattato
sulla costituzione spartana, non ne fa cenno. Questa omissione va considerata
quantomeno come è curiosa, anche perché, di fatto, a Sparta era possibile una
sorta di poliandria(310).
Notizie di ampia portata, invece, ci offre Plutarco a proposito del
matrimonio romano, su cui si diffonde senz’altro in maniera più esaustiva che
pel matrimonio spartano (e direi greco in generale). Forse perché tale uso a
Sparta era in
declino o quasi
del tutto scomparso?
Non dimentichiamo che il celebre biografo greco visse tra il I ed il II
secolo d. C., in un’età quindi ormai
lontana dalla Grecia classica o meglio
dell’età cosiddetta arcaica (che in questa sede ci interesserebbe
maggiormente).
A Roma, come ricorda PLUTARCO(311),
tipica nel rito matrimoniale della deductio, era invece ancora viva la
tradizione del rapimento della sposa, che si faceva risalire al noto ratto
delle Sabine(312).
A tale prassi Plutarco ricollega l’eziologia di varie invocazioni,
in particolare TALASIO, citato anche in LIVIO(313), ma di controversa
definizione, pur che
più o meno consensualmente riferito al rapimento
delle Sabine. Anche la tradizione (rimasta presso di noi fino ad oggi!) che
voleva che la sposa varcasse per la prima volta la soglia della nuova domus
familiare sollevata a braccia dello sposo, oltre ad avere valenze di scongiuro,
era interpretata alla luce di tale evento.
GIAMPAOLO MORTARO
5. Ratto della sposa nella Bibbia. Breve
esposizione ed interpretazione.
Ci sono nella Bibbia vari casi di ratto di donne a scopo di
matrimonio.
Il primo caso si riferisce ai figli di Dio che videro che le figlie
degli uomini erano belle e ne presero per mogli quante ne vollero (cfr. Genesi 6,1-6).
Il secondo caso si riferisce al ratto di Dina, figlia di Giacobbe e
di Lia, rapita da Sichem, figlio di Camor, l’Eveo (cfr. Genesi 34,1-31).
Il terzo caso si riferisce al ratto delle donne vergini di Iabes di
Galaad per darle come spose alla distrutta tribù di Beniamino (cfr. Giudici
21,1-25).
In questa ricerca ci occuperemo soltanto del ratto di Dina, perché
il più affine al nostro scopo d’indagine.
Nel racconto di Genesi 34,1-31 si assiste ad uno spostamento
generazionale: agiscono i “figli di Giacobbe”; la figura femminile è Dina, non
le mogli di Giacobbe; non si parla più di nomadi o seminomadi ma di sedentari.
Sono indizi importanti per valutare la diversità della narrazione rispetto al
ciclo di Giacobbe di cui fa parte.
La critica della tradizione ha messo in luce il lavoro del narratore
postesilico, che dà all’insieme un carattere intollerante contro i matrimoni
“misti”: egli avrebbe
usato lo schema di un
racconto patriarcale antico (tradizione
Eloista), concepito sulla base di problemi familiari, inserendovi un racconto
più recente (tradizione Javista) – caratteristica del periodo della sedentarizzazione
– che testimonia un tentativo d’infiltrazione pacifica attraverso vincoli
matrimoniali ed economici. Il narratore amalgama due livelli, il “familiare” e
il “nazionale”, in funzione della finalità a lui derivante da un problema di
attualità, i cosidetti matrimoni “misti”. Abbiamo quindi due fasi del racconto;
la prima fase legata alla saga dei clans, la conquista della terra da parte dei
patriarchi e, con un outlook secolare. La seconda fase riflette l’out look del dominante
periodo postesilico con l’antagonismo tra Giudei e Gentili.
Possiamo quindi – nonostante le molte difficoltà testuali – leggere
il racconto in modo
unitario.(314) Evidenziando la
presenza dei diversi personaggi sulla scena emerge la
seguente struttura letteraria:
A) vv. 1-4; il fatto: Sichem e Dina. Una donna è violentata ma il
suo violentatore s’innamora di lei e vuole sposarla. Le leggi di Esodo e
Deuteronomio non vi troverebbero nulla d’ ingiusto.
B) vv. 5-7; reazioni di Giacobbe, di Camor e dei figli di Giacobbe.
L’aspetto d’ingiustizia viene sottolineato dai figli di Giacobbe. Si tratta
sempre di delitti sessuali considerati gravissimi da un Israele già
identificato. Tuttavia, nel comportamento di Sichem non si trova motivo d’infamia
secondo la legislazione antica, per trovarlo si deve ricorrere alla
legislazione postesilica contro i matrimoni misti.
C) vv. 8-24; dialogo tra Camor e Sichem con Giacobbe ed i suoi
figli. Il padre Camor è attento alla dimensione politica ed ai diritti di
cittadinanza. Il figlio Sichem è invece tutto preso dal problema personale e
familiare di stabilire il prezzo della dote.
A’) vv. 25-29; vendetta di
Simeone e Levi e saccheggio di Sichem. I figli di Giacobbe rispondono con la
frode all’offesa nei confronti di Dina che rimane oggetto passivo. Ella ha
subito un disonore cultuale ( tm’: vv.5.13.27): un popolo “santo”, ”separato”,
non deve mischiarsi con altri popoli. Al denaro del risarcimento si preferisce
la circoncisione, che non è presentata però nel suo valore religioso ma solo
nella sua valenza sociale. Nell’esecuzione della vendetta si deve distinguere
l’azione di Simone e Levi da quella di tutte le tribù dei figli di Giacobbe che
entrano in scena quando orami l’attacco
è terminato. Si deve probabilmente trovare qui una memoria delle due
tribù nel conflitto
con qualche città-stato,
riletto come un problema di rapporti familiari.
B’) vv. 30s; commento dell’accaduto. Si colgono due diverse
valutazioni dell’episodio. Giacobbe lo giudica in prospettiva politica. I
“figli di Giacobbe”, invece, pensano di aver agito con giustizia, avendo
vendicato l’onore della sorella. E Dina, come “giudica” (dyn) il comportamento
dei fratelli? E il narratore?
In questo racconto del capitolo 34 di Genesi si coglie un’ideologia
ben diversa da quella dei racconti patriarcali, una voglia di conquista che
quadra meglio in altri contesti (cfr. Giosuè o Giudici). Il padre Giacobbe
avrebbe applicato la “legge specchio”: hai convinto la ragazza ora convinci suo
padre, hai forzato la ragazza ora sei forzato a sposarla, comunque non è un
crimine capitale, si può riparare.
Commento
Per il ciclo di Giacobbe è chiaro che una vergine o una donna non
sposata e non promessa in moglie non è disonorata da un rapporto sessuale
illecito. Israele condivide i valori dell’antico Medio Oriente, Sumeri,
Babilonesi, Ittiti e Assiri. Il termine “disonore” appartiene al codice
sacerdotale. L’episodio di Dina, prima saga di clans pre-monarchici, è stato
trasformato in un racconto paradigmatico con un messaggio sui matrimoni misti,
contratti con le tribù confinanti.
Uno studioso contemporaneo
della Bibbia, ALEXANDER
ROFÈ(315), propone di
considerare come successiva l’aggiunta della parola “disonorata” (tm’) riferita
a Dina. Nella Bibbia solo donne sposate o promesse spose sono “disonorate” da
un ratto. Il fatto che Genesi 34 sia la sola eccezione suggerisce che riflette
una tardiva nozione postesilica in cui i
gentili idolatri sono “impuri”e quindi non si possono contrarre matrimoni con loro.
L’anacronistica preoccupazione per la purezza razziale indica la
data del quarto o quinto secolo avanti Cristo, quando l’Israele postesilico era
preoccupato per simili polemiche anti-Samaritane contro i matrimoni misti.
La nozione del “disonore” non è originata nelle leggi familiari
d’Israele, ma viene da Esdra 2,21 che condanna l’impurità idolatrica delle nazioni della terra. Non è certo,
afferma l’autore, se Dina sia veramente stata
violentata nel racconto primitivo di questo “ratto”. Il racconto è vago su quello che veramente successe tra
Sichem e Dina che “uscì a vedere le ragazze del paese”, il
verbo tradotto come
“violentata”o “umiliata” può
anche significare “giacere insieme”, e quindi un più antica
versione di Genesi 34 potrebbe
essere nient’altro che un racconto del “custom of abduction marriage”, il
tradizionale ratto della sposa.
ALDO RIDOLFI
6. Il furto della sposa nella fiaba
popolare.
Le costanti che si ritrovano nelle precedenti analisi del “Furto
della sposa” (Val Badia, Val Gardena, Val di Fassa, Livinallongo, Celle, Santa
Lucia, Cortina d’Ampezzo, mondo
classico, Bibbia e
Antropologia sociale) insistono
anche nell’universo della fiaba. Elementi come il Furto della sposa,
l’endogamia e l’esogamia, la struttura dei gruppi sociali e le norme che li
regolano, i desideri e le aspirazioni dei singoli, si ripresentano con
insistente frequenza anche nel mondo della fiaba.
L’accettazione entusiasta da parte dei bambini è testimonianza
attendibile del carisma che questi testi possiedono nei confronti della
sensibilità e del pensiero infantili.(316)
Ne è convinto anche lo scrivente avendo presentato per anni, a scuola, le fiabe
ai bambini di undici anni, i quali hanno sempre apprezzato trame, personaggi ed
emozioni purché non si insistesse troppo nella “microchirurgia” didattica,
spesso suggerita dalle antologie con eccessiva generosità. E sta forse in
questo relativo “rifiuto” dei bambini a smontare in piccoli pezzi la storia la
migliore dimostrazione che le fiabe parlano da sole, senza bisogno di
intermediazione.
E’ dunque possibile affermare, con Italo CALVINO, che le fiabe «sono
vere. Sono, prese tutte insieme,… una spiegazione generale della vita, nata in
tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi;
sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna…»,(317)
e dare per certo
che le fiabe
vantano un’antichità remota, attingono a vissuti antichissimi e
conservano, formidabilmente “nascosti”, comportamenti ritenuti essenziali nei
primitivi gruppi umani.(318) Non solo, ma esse manifestano interessanti
contiguità anche con la più specifica questione
dell’endogamia e dell’esogamia.(319) Sono questioni,
queste, che attengono alla
dimensione originaria della vita comunitaria umana e che sono state
conservate anche nel
linguaggio se è
vero che in
russo matrimonio ha il
significato di “portar
via”.(320) Anche
nel linguaggio dialettale
veronese sono rimaste tracce di vissuti simili. Infatti era usuale, fino agli
anni Cinquanta, ascoltare espressioni del tipo: «Ci alo tolto Giuseppe? (Chi ha sposato Giuseppe?)» e, come
risposta, «Giuseppe l’ha tolto la Maria».
Ebbene: la voce verbale dialettale “tore” (togliere), pur potendo assumere
accezioni diverse, ha di sicuro anche quella di “portar via”.(321)
Va inoltre aggiunto, per continuare – e concludere – a sfiorare il
folklore veronese, che il matrimonio, per la donna, costituiva un’esperienza
complicata e piena di incertezze e dubbi perché il suo era spostamento da una
famiglia ad un’altra con tutte le paure che ciò comportava.(322)
Accenna a questa dinamica anche LÉVI-STRAUSS: «Il matrimonio tra
estranei costituisce un progresso sociale, dato che integra gruppi più vasti,
ma è anche un’avventura».(323)
La questione ora
è: sono presenti
nelle fiabe situazioni
che possono richiamare
comportamenti così lontani e così “primitivi”?
In “Bella fronte”, (324) la ragazza, figlia del Sultano, viene prima
rapita dai corsari, ma si tratta di un rapimento necessario per mettere in moto
il complesso racconto. In seguito alle alterne vicende della vita, la ragazza
si unisce con un giovane mercante e insieme finiscono, come si direbbe oggi,
per “convivere”. Ma il Sultano, padre della giovane, la ritrova e la riporta
alla reggia. L’innamorato piomba
nella disperazione, ma
destino vuole che finisca, in seguito ad una tempesta in
mare, come giardiniere nella medesima reggia della sua bella, da dove, con uno
stratagemma e con la complicità della sua “convivente”, si allontana per sempre
dalla regia e dal Sultano, portando però con sé la giovane.
Sembrano qui condensati due importanti motivi. Quello dell’esogamia:
infatti il giovane, figlio di mercante e mercante lui stesso, incontra la sua
donna addirittura in mezzo al mare, proveniente dalla Turchia, un paese
veramente, nell’immaginario popolare, collocato “lontano, lontano”.
Il giovane ritorna,
alla fine, nella
casa paterna, si riconcilia con il padre, ma intanto porta
con sé la sua donna che proviene dalle lontanissime ed indefinibili terre
turche. Il secondo motivo allude, secondo me in modo inequivocabile, al furto
della sposa. Infatti, stando al testo, appena i due giovani, per merito del
caso, si sono ritrovati «subito studiarono il modo di scappare». E il
bastimento salpò. In questa immagine della nave che salpa, infine, c’è anche
tutta la grandezza e tutta l’incertezza che il matrimonio significava per la
sposa. Aprendo un altro importante scenario: quello del destino della sposa nel
nuovo clan, cui si è fatto rapidissimo cenno qualche riga più in alto.
Ma il rischio del rapimento di una giovane donna in odore di
matrimonio insiste anche ne “Il pappagallo”.(325) E’ una storia complessa perché il motivo del rapimento è
velatamente presente nella trama e si manifesta nella paura del padre mercante
il quale teme che, in sua assenza, la figlia possa essere rapita. E lo stesso
pappagallo – l’innamorato sotto mentite spoglie – alla conclusione del racconto
afferma che un suo rivale «voleva rapirla». Ma il motivo del rapimento è anche
rielaborato nel racconto che lo stesso pappagallo va via via facendo alla
ragazza, esprimendo grandi capacità affabulatorie allo scopo di guadagnare
tempo e impedire al rivale di entrare in scena. Il pappagallo (il
pretendente-re cui arride il successo), raccontando la storia di una
principessa rapita dai banditi, mette in scena se stesso. Egli evita il
rapimento da parte del rivale, ma il destino della fanciulla è segnato:
abbandonerà la sua casa e sposerà il Re.
Non solo i maschi, però, nelle fiabe, si allontanano da casa per
cercare moglie al di fuori del loro ambiente. Anche le ragazze sono in costante
movimento; quasi che la loro dimora, la loro famiglia, il loro clan
costituissero una “prigione”, un luogo da cui sciamare, il posto nel quale non
è possibile perpetuare la vita. Se non era il rapimento a toglierle dal loro
ambiente, vi era una personale e ferma volontà di andarsene. Talvolta ciò
avviene sotto la condiscendenza e perfino la benedizione del padre, altre
volte con una
vena di triste
amarezza del genitore.(326)
Ne “Il palazzo dell’Omo morto”,(327) la figlia del re
dichiara esplicitamente: «Non so cosa sarà di me, ma voglio andarmene!»
Ne “Il nonno che non si vede”, un’altra ragazza del popolo dichiara
testualmente: «Voglio andarmene pel mondo a vedere se trovo la mia fortuna».
La Stellina del “Il Re degli animali”, invece, abbandona la casa
perché la matrigna è insopportabile. Ancora una volta la volontà femminile è
inequivocabile: «piuttosto che a star qua a mangiarmi l’anima tutto il dì vado
a fare la contadina». E se ne va. Pur con una certa fatica, una celata
malinconia.
Dovendo interpretare una costante di questo tipo che sembra
attribuire alla donna l’iniziativa dell’uscire di casa, riposizionando quindi
il concetto di “Furto della sposa”, pare di poter dire che la fiaba ha saputo,
con estrema delicatezza, raccontare l’atavica regola capovolgendo il punto di
vista da maschile a femminile. Insomma, non saremmo in presenza di una “lettura
al femminile” dell’esigenza esogamica? Che le fiabe possano nascondere anche un
protagonismo femminile ante litteram?
7.
CONCLUSIONI.
Poiché a nostro parere il rito ha un ruolo facilitatore nella
gestione dei conflitti, il furto della sposa sottende la possibilità, mediante
un atto simbolico, di superarne la dicotomia violenza/passività proposta dalla
realistica sottrazione della ragazza, che sposandosi, viene “tolta” alle
possibilità dei giovani ancora scapoli. Sottrazione, tanto più importante in
una cultura contadina in cui la donna era ritenuta al pari di un oggetto, un
bene, una forza lavoro, produttrice generativa, di proprietà della famiglia,
che poteva essere
ceduta (se non
venduta) solamente a
cambio di determinate condizioni,
accordi e patti.
Il rito nella forma che abbiamo descritta si presta quindi ad
esprimere questo conflitto e in qualche modo a facilitarne il superamento;
cioè, ne riconosce l’esistenza e lo affronta, senza negarlo o cercare di evitarlo,
attraverso una possibile negoziazione; grazie al simbolo l’elemento
ritualizzato viene reso socialmente accettabile. Nei riti ancestrali l’elemento
ritualizzato viene abreagito dai partecipanti che non hanno poi la necessità di
trovare altrove la risoluzione della condizione che se agita direttamente
potrebbe creare contrasti sociali o individuali. Infatti la dinamica emersa sia
a livello storico (mondo preistorico e classico), sia in diversi generi
letterari (narrazioni bibliche e fiabe) raccontano di uno sviluppo che converge
un unico obiettivo, quello appunto di esprimere un conflitto e il suo
superamento. Per tornare quindi alle vallate ladine da cui siamo partiti, la
risoluzione del conflitto avviene da parte dei giovani più o meno coetanei, ma
che avessero compiuto ad ogni caso la maggiore età (quella sufficiente per
corteggiare le ragazze e per poter accedere alle osterie) con il “far pagare”
allo sposo, il giorno successivo, “il conto” delle bevute, del festante, ma
allo stesso momento rassegnato gruppo di giovani.
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ordine alfabetico) ATENEO, fr.555.
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dott. Leander Moroder (classe 1961).
dott. Leander Moroder (classe 1961).
NOTE
285 -DE JÀN, 2003, 41.
286 - Informatori: Luis
Wancher (classe 1933), Leander Moroder (classe 1961).
287- FORNI, 2007,
288 - COLLESELLI, 1956.
289 -LEZÙO, 1961.
290 - VALENTINI, 1971,
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291 - VALENTINI, 1885,
199.
292 - KALTENBAECK, 1849
293 - BIERHOST, 1984;
CAMPBELL, 1990; ELIDE, 1981; JUNG, 1967; FREUD, 1997.
294 - JUNG, 1997.
295 - LEVY STRAUSS, 2010.
296 - FREUD, 1993
297 - FOX, 1983.
299 - SORDI, 1982, 1416.
300 - ERODOTO, I,1, 2-6.
301 - Cfr. CHIRASSI,
1994. Persefone pare esser stata originariamente divinità degli inferi o
ctonia, al di fuori del mondo olimpico vero e proprio, cui invece afferiva
Demetra
302 - Cfr. KERENY, 1967.
303 - CLAUDIANO, Il
rapimento di Proser pina, vv. 32-66; 93-116.
304 - Nella circostanza
attuale le ricerche finora svolte in tale direzione non hanno ancora dato esito
305 - Inno omerico a
Demetra II, vv. 370-74, a cura di F.
Cassoli, Milano 1994
306 - MYLONAS, 1961.
307 - PLUTARCO, Vita di
Licurgo, 100: “Prendevano in moglie, con un rapimento, donne né piccole d’età
né immature, bensì nel pieno dello sviluppo fisico e della maturità; della
ragazza rapita se ne assumeva la cura la cosiddetta nympheutria, le rasava i capelli a zero, le faceva
indossare abbigliamento e calzari da uomo e la faceva sdraiare su un giaciglio,
da sola, senza luce. Il giovane sposo poi, non ubriaco o infiacchito, ma
sobrio, dopo avere come sempre mangiato alle mense comuni, si introduceva
furtivamente, le slacciava la cinta, la sollevava fra le braccia e la deponeva
sul letto. Trascorrevano insieme un tempo limitato; quindi si allontanava con
fare dimesso nel luogo in cui fino a quel momento era solito andare a dormire
in compagnia degli altri giovani. Anche in seguito si comportava così,
trascorrendo con i coetanei i propri giorni e le proprie notti, e recandosi
dalla giovane compagna di nascosto con circospezione, nell’imbarazzo e nel
timore che qualcuno dei familiari se ne accorgesse; nel frattempo anche la
ragazza si dava da fare a escogitare espedienti e fornire il suo aiuto per incontrarsi
al momento opportuno e senza esser visti. E mantenevano un tale comportamento
per un periodo di tempo non breve, al punto tale che alcuni finivano con il
mettere al mondo dei figli prima ancora di aver visto”
308 - ERODOTO,VI, 65,
2 “Leotichida era
divenuto particolarmente ostile
a Demarato per la
seguente ragione: benché
Leotichida avesse già
scelto come sposa
Percalo, la figlia
di Demarmeno, figlio a sua volta di Chilone, Demarato con un raggiro
aveva mandato in fumo le nozze a Leotichida,
dal momento che, avendolo
preceduto, aveva rapito Percalo e se
l’era sposata.”
309 - ATENEO, fr. 555: “E
infatti il nostro buon ospite, mentre tesseva l’elogio delle mogli, ricordò la testimonianza
di Ermippo nell’opera Legislatori, secondo cui a Sparta tutte ragazze nubili
venivano rinchiuse in una stanza buia, dentro cui c’erano anche i giovani non
sposati: ciascuno di essi prendeva in moglie, senza dote, quella che riusciva
ad afferrare”.
310 - GIANNELLI. Trattato
di storia greca, Roma 1951, 112-113
311 - PLUTARCO, Vita
di Romolo 58-60 “riferisce a questi
episodi l’usanza romana del grido nuziale T(h)alassio o Talasse che deriverebbe
da un nobile romano al quale la folla offrì (gridando appunto il suo nome
Talasio) una delle più belle fra le giovani rapite. Anche l’uso di far varcare
la soglia della casa
alla sposa portandola
in braccio risalirebbe
al ratto delle Sabine
che non entrarono spontaneamente nelle case dei Romani ma vi furono
introdotte con la forza …” ; cfr.
anche Questioni Romane, 29, 31. in cui
ritorna su questi temi
312 - Che poi sia stato
utilizzato il mito per spiegare la prassi o che tale prassi si ricolleghi a
qualche fatto realmente accaduto è ovviamente vexata quaestio.
313 - TITO LIVIO, I, 9: “Arrivò moltissima gente, anche
per il desiderio di vedere la nuova città, e soprattutto chi abitava più
vicino, cioè Ceninensi, Crustumini e Antemnati. I Sabini poi, vennero al
completo, con tanto di figli e consorti. Invitati ospitalmente nelle case, dopo
aver visto la posizione della città, le mura fortificate e la grande quantità
di abitazioni, si meravigliarono della rapidità con cui Roma era cresciuta.
Quando arrivò il momento previsto per lo spettacolo e tutti erano
concentratissimi sui giochi, allora, come convenuto, scoppiò un tumulto e la
gioventù romana, a un preciso segnale, si mise a correre all’impazzata per
rapire le ragazze. Molte finivano nelle
mani del primo
in cui si
imbattevano: quelle che spiccavano sulle
altre per bellezza, destinate ai senatori più insigni,
venivano trascinate nelle loro case da plebei cui era stato affidato quel
compito. Si racconta che una di esse, molto più carina di tutte le altre, fu
rapita dal gruppo di un certo Talasio e, poiché in molti cercavano di sapere a
chi mai la stessero portando, gridarono più volte che la portavano a Talasio
perché nessuno le mettesse le mani addosso. Da quell’episodio deriva il nostro
grido nuziale.
Finito lo spettacolo nel
terrore, i genitori delle fanciulle fuggono affranti, accusandoli di aver
violato il patto di ospitalità e invocando il dio in onore del quale erano
venuti a vedere il rito e i giochi solenni, vittime di un’eccessiva fiducia
nella legge divina. Le donne rapite, d’altra parte, non avevano maggiori speranze
circa se stesse né minore indignazione. Ma Romolo in persona si aggirava tra di
loro e le informava che la cosa era successa per l’arroganza dei loro padri che
avevano negato ai vicini la possibilità di contrarre matrimoni; le donne,
comunque, sarebbero diventate loro spose, avrebbero condiviso tutti i loro
beni, la loro patria e, cosa di cui niente è più caro agli esseri umani, i
figli. Che ora dunque frenassero la collera e affidassero il cuore a chi la
sorte aveva già dato il loro corpo. Spesso al risentimento di un affronto segue
l’armonia dell’accordo. Ed esse avrebbero avuto dei mariti tanto migliori in
quanto ciascuno di par suo si sarebbe sforzato, facendo il proprio dovere, di
supplire alla mancanza dei genitori e della patria. A tutto questo si
aggiungevano poi le attenzioni dei mariti (i quali giustificavano la cosa con
il trasporto della passione), attenzioni che sono l’arma più efficace nei
confronti dell’indole femminile.”
314 - BORGONOVO, 1995,
143-144.
315 - ROFÈ, “Defilement
of Virgins in Biblical Law and the Case of Dinah (Genesis 34)”. Biblica 86 (3).
(2005) 369, 375.
316 - BETTELHEIM, 1997,
12, afferma appunto che i bambini trovano «le fiabe popolari più soddisfacenti
di tutte le altre storie per l’infanzia» e che con le fiabe il bambino consegue
«una comprensione preconscia di cose che lo turberebbero molto se fossero
sottoposte senza tatto alla sua attenzione» (267).
317 - CALVINO, 2006, (I
ed. 1956), “Introduzione”, p. XIV-XV. Questo saggio, assieme ad altri testi di
Calvino inerenti la fiaba, è stato ripresentato in Sulla fiaba, Einaudi 1988.
318 - Prendo tre citazioni, oserei dire a caso, tra
le tante possibili, a sostegno del remoto mondo cui appartengono le fiabe: «Una
testimonianza particolarmente tangibile dell’antichità della fiaba popolare è
rappresentata dalla grande somiglianza di contenuto fra i racconti dei popoli
più diversi» (THOMPSON, Stith, 1967 (I ed. 1946) 21; e ancora, ma questa volta
da Wilhelm GRIMM, 1856, riportata da THOMPSON,
1967, 504: «Via via che si sviluppano costumi più umani e gentili…
l’elemento mitico si ritrae sullo sfondo e comincia a offuscarsi». E infine
ZIPES, Jack., 2004 (I ed. 1979), p. 32: «Le fiabe esistono come racconti
popolari orali da migliaia di anni»
319 - Non è qui certo il
caso di ripercorrere la storiografia attorno a simili questioni, ma qualche brevissimo
richiamo appare opportuno: Angelo DE GUBERNATIS, nell’ottica che gli era
propria, si è occupato della questione in Storia comparata degli usi nuziali in
Italia e presso gli antichi popoli indo- europei, 1869; FREUD con la cosidetta
“orda selvaggia” ha affrontato l’argomento in Totem e tabù, (1912-1913); pochissimi
anni prima è
stato il turno
di FRAZER in
Matrimonio e parentela
e Totemismo ed exogamia (1910); successivamente è intervenuto
LÉVY-STRAUSS con Le strutture elementari della parentela (1949). Si arriva poi
ad una revisione significativa operata negli anni Sessanta-Settanta, vedasi a
questo proposito Vernon REYNOLDS in La
biologia dell’azione umana Per una biosociologia della conoscenza, (1976).
320 - Prendo questa
interessante osservazione da Gian Paolo CAPRETTINI G. P.: 1998: «Quanto alla
deductio, il ratto della sposa, o più in generale l’atto con cui il promesso o
lo sposo porta nella sua casa la donna, si ricordi che l’ingl. wedding
“matrimonio” equivale a “condurre (una donna nella propria casa)”;
l’olandese bruiloft “matrimonio”
è composto da brui
“sposa” e loft da
laupa “correre”; e ancora il russo brak “matrimonio” da brat’sja “portar
via”». (p. 166).
321 - Sull’uso del verbo
“togliere” (tore in dialetto), possiamo en passant fare queste poche
osservazioni. Innanzitutto esso assume il significato di “togliere, portar
via”: « L’è sta Renato a torte la matita (E’ stato Renato a toglierti la
matita)», dove il verbo in questione aveva senz’altro il significato di
“portare via”, anzi, di “rubare”, pur mancando di un’aggravante delittuosa. Una
seconda accezione aveva il curioso significato di “predere”, come
nell’espressione: « Tome el martelo (Prendimi il martello)». E ancora: «Sa eto
tolto al marca’? (Che cosa hai comperato
al mercato?)», dunque con il significato di comperare! Non dimentichiamo,
infatti, per il significato della nostra ricerca, che esiste l’espressione
“Prendere in moglie”. Si vede quindi quanto interessante sia e quanti
collegamenti consenta la sola riflessione su un lemma dialettale andato
completamente perso. Non lo vedo rilevato, per esempio, nemmeno in RAPELLI,
Gianni 2003.
322 - Recita infatti un
proverbio veronese raccolto da Ezio BONOMI, 2009, 143: «Col dì che me marido,
mi no rido». Devo qui citare, infine, due studi inerenti l’argomento “Furto
della sposa” vertenti sul mondo lessinico. Il primo in ordine temporale è di
Ezio BONOMI, La vita e i giorni nell’alta val d’Alpone, in Piero PIAZZOLA,
(ed), 1988, pagg. 162-210; il secondo è di un illustre demologo, Giovanni
TASSONI, 1991, 35-62.
323 - Vedi C.
LEVI-STRAUSS, Le strutture fondamentali della parentela, Feltrinelli, pag. 94.
324 - “Bella Fronte” è
una fiaba che Italo Calvino ha raccolto nella penisola istriana. Vedi CALVINO
I., Fiabe italiane, Op. cit., n° 45.
325 - “Il pappagallo” è una fiaba raccolta nel Monferrato. Vedi
CALVINO I., Fiabe italiane, Op. cit., n° 15.
326 - Queste situazioni
sono analizzate da Bruno BETTELHEIM
nell’opera già citata; non potendo affrontare una simile problematica,
basti l’osservazione seguente: «Perché la ragazza possa amare in modo pieno il
suo partner, deve essere in grado di trasferire su di lui il suo anteriore,
infantile
327 - E’ la
n. 32 della
raccolta di CALVINO;
le altre due
citazioni che seguono
si riferiscono rispettivamente
alla n. 35 e alla n. 52.
Fonte: visto su Società Italiana di Etno Psico Antropologia Per la tutela del patrimonio immateriale
dell’umanita’
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