Tre ricercatori dell’università australiana del New South Wales
(Gary Froyland, Robyn M. Stuart e Erik van Sebille) potrebbero aver
scoperto i colpevoli della creazione delle “isole di plastica”, quegli insiemi
di rifiuti marini che si sono formati negli oceani: il problema è che i
responsabili siamo praticamente noi tutti.
Nello studio “How well-connected is the surface of the global
ocean” pubblicato su Chaos: An Interdisciplinary Journal of
Nonlinear Science, il team australiano sottolinea che «le dinamiche
oceaniche operano e influenzano il clima su scale temporali di mesi a millenni»
e per capire come funzionino questi giganteschi e lunghi fenomeni planetari
sulla superficie dell’oceano hanno cercato regioni oceaniche «nelle quali
l’acqua, la biomassa e gli inquinanti restano intrappolati “per sempre” (quelle
che definiamo attracting regions), o per lunghi periodi di tempo
prima di riuscire ad uscirne (che definiamo asalmost-invariant regions). Mentre
le regioni che attraggono possono essere di dimensioni molto piccole o di
forma irregolare, se i loro bacini di attrazione sono grandi, possono comunque
esercitare una grande influenza sulla dinamica globale della superficie
dell’oceano.
Insomma, la plastica che buttiamo in mare come spazzatura,
inavvertitamente o volutamente, alla fine ha grosse probabilità di finire in
uno dei 5 grandi “ocean garbage patches”. Così la plastica si trasforma da
possibile risorsa riciclabile e reinseribile nei nostri cicli produttivi in una
minaccia, a volte mortale per la vita marina, e si sta accumulando lungo la
catena alimentare. Eppure i dati sulla provenienza di queste plastiche sono
ancora molto pochi.
Van Sebille, un oceanografo, e Froyland, un matematico, spiegano su The
Coversation che «la nostra nuova ricerca ridisegna alcuni dei confini
convenzionali tra gli oceani, suggerendo che i rifiuti non sempre vanno nel
loro “garbage patch “locale”. Lavorare a capire quali Paesi abbiano
contribuito di più al problema della plastica marina è una
questione controversa. Tuttavia, attribuire la colpa sarà un passo cruciale
perché i paesi inquinanti ne tengano conto, inducendoli dopo a ripulire. Il
nostro studio, pubblicato sul giornale Chaos , fornisce un pezzo
fondamentale del puzzle di chi ha creato queste discariche marine».
Se qualcuno fosse abbastanza stupido (e gli stupidi a quanto pare
non mancano) da buttare una bottiglia di plastica in mare da una
spiaggia, potrebbe fare un viaggio molto lungo, andando lentamente alla deriva
con le correnti fino a che, a seconda da quale spiaggia provenga la
bottiglia, alla fine si troverebbe sulla strada per raggiungere uno dei 5
grandi ocean garbage patches. Ma la bottiglia prima di raggiungere il
vortice o l’isola di rifiuti resterà alla deriva per diversi anni e il sole e
le onde la degraderanno, fino a ridurla in pezzetti grandi qualche millimetro che
sono difficilissimi da rimuovere dall’acqua.
Le “isole” di spazzatura vengono formate da correnti che spostano
enormi masse d’acqua (e plastica) in tutto il mondo, seguendo un modello
complicato. La maggior parte dell’acqua finisce nei “gyres”, e c’è
uno di questi vortici in ogni mare di ogni emisfero e in ciascuno ha al centro
un patch di spazzatura. Sapere quali sono i Paesi che confinano con i “gyres” è
quindi un primo passo importante per capire chi è responsabile dell’accumulo di
macro e micro-plastiche in mare.
Ma le correnti oceaniche non sono certo confinate nei singoli
oceani, i confini degli oceani e dei mari elaborati dall’International
Hydrographic Organization invece rispecchiano in gran parte i confini
geopolitici.
«Ad esempio – spiegano i ricercatori – il “confine” tra gli
oceani Indiano e Pacifico è internazionalmente riconosciuto come una linea
retta passante a sud della Tasmania. Questo suggerisce che le bottiglie di
plastica gettate nell’oceano orientale della Tasmania finirebbero nel Sud
dell’Oceano Pacifico, mentre le bottiglie di plastica disseminate ad ovest
della Tasmania potrebbe dirigersi verso l’Oceano Indiano. Il nostro studio
mostra che questo non è vero. In realtà, tutto il Great Australian Bight,
gran parte dell’Oceano Meridionale sud-ovest dell’Australia, e anche le regioni
sud dell’Africa, sono molto più strettamente legate al Sud Pacifico che
all’Oceano Indiano».
La nuova mappa degli oceani del mondo ridisegna i confini
dell’oceano secondo la scienza, piuttosto che geopolitica e questi
“current-driven boundaries” mostrano la provenienza dei materiali che
costituiscono i garbage patches, suggerendo così che i veri confini tra gli
oceani non corrispondono a quelli riconosciuti a livello internazionale.
Ma anche armati di questa nuova conoscenza il team australiano
dice che è duiffivile trovare i colpevoli delle “isole di plastica”: «Le
correnti sono state mappate abbastanza bene, ma non la densità della plastica
in tutto l’oceano. Per trovare i colpevoli, abbiamo bisogno di sapere non solo
dove sono i patch di spazzatura, ma anche la distribuzione dei detriti che
stanno ancora facendo il loro lungo viaggio pluriennale verso i “gyres”.
Se la scopriremo, sapremo quali sono le correnti più influenti che
traghettano i rifiuti in tutto il mondo e saremo in grado di risalire ai luoghi
dove le persone li hanno buttati».
Si tratta di una ricerca per il futuro che può essere fatta insieme
a gruppi come 5Gyres, che campionano acqua in tutto il mondo per rilevare
la presenza di micro-plastiche ed altri detriti.
«Nel frattempo – concludono van Sebille e Froyland – quel che
possiamo dire della nostra nuova mappa è che i Paesi non necessariamente
contribuiscono alla spazzatura che è nel loro ‘oceano “locale”, secondo i
nostri confini convenzionali dell’oceano. A complicare ulteriormente le cose,
la nostra ricerca suggerisce anche che anche i patch disperdono spazzatura.
Anche se la plastica si accumula nei garbage patches, non rimane lì per
sempre. Abbiamo scoperto che tutti patch scambiano materiale con i loro
vicini a vari livelli.
I rifiuti degli oceani sono quindi, in ultima analisi, un problema
globale. Date le difficoltà pratiche di rimozione di questa spazzatura
dagli oceani, e il fatto che vi permanga per decenni, il mondo deve rendersi
conto che siamo tutti sulla stessa barca».
Fonte: visto su greenreport.it
del 4 settembre 2014
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