Di SILVIA GARBELLI –
Di taglio
storiografico revisionistico, questo libro affronta il
fenomeno risorgimentale da un punto di vista meridionalistico.
Si tratta, infatti, della situazione creatasi nel
Regno delle Due Sicilie a causa del processo della
cosiddetta “unificazione italiana” esattamente tra gli anni 1860 e
1861. Il periodo preso in considerazione è dunque breve, ma
la trattazione degli avvenimenti è intensa e avvincente come nelle
migliori ricostruzioni storiche. A dispetto delle consuete litanie
italopatriottarde, l’autore ci propone una lettura veritiera di quanto
forzata e forzosa è stata l’unione degli Stati Preunitari e cosa
abbia comportato nella vita della sua dinastia, i Borbone e a quella
dei suoi sudditi.
Nell’introduzione, l’autore auspica la necessità di fare
chiarezza affinché si affermi la verità dei fatti accaduti, proprio a
fronte della consapevolezza della menzognera storiografia
ufficiale ancora presente in gran parte degli attuali libri in
uso nella scuola italiana.
Frutto dell’attività di ricerca e di consultazione
dell’Archivio dei Borbone, a Napoli, della “Gazzetta di Gaeta” e di
documenti personali, questo libro è dichiaratamente «un saggio di
approfondimento circa i “Vinti” e le fasi delle operazioni dell’esercito
borbonico ».
Si accenna a sfaccettature di una controstoria che
smaschera «una costruzione politica elaborata a tavolino, di
cui l’artefice principale fu Cavour attraverso maneggi diplomatici,
l’utilizzo abile di infiltrati e di corruzioni»; o a logiche economiche
relative a «interessi dei latifondisti meridionali» coincidenti
con «quelli dei ceti del capitalismo settentrionale » sabaudo, oltre
agli interessi delle Nazioni europee, come Inghilterra e Francia, che
agirono in una prospettiva di opportunistica ingerenza.
Adducendo un’ipotetica richiesta di «necessità di cacciare lo
straniero» Borbone, si sostiene come vi sia stata la volontà di punire
uno «Stato protezionista, con barriere doganali, isolato nel contesto
internazionale».
Si tratta, dunque, di una sconfitta, ma è subita con
onore e gli aneddoti descritti pongono in luce una situazione
generalmente sconosciuta.
Benché il rifiuto di Di Fiore a «…mettere in
discussione l’indissolubilità dell’Italia…» suoni per noi padanisti
particolarmente stonato a lettura compiuta, ci viene dallo stesso
autore ricordato che la conoscenza dei fatti, oltre a rendere la
giusta dignità alle vittime del Regno borbonico, farebbe comprendere
al meglio le condizioni socioeconomiche che dall’inizio
segnarono l’assetto della nuova Entità Statuale italiana. Alla luce
di tale considerazione, nella lettura si avverte, talvolta, una sorta
di confusione terminologica circa l’aggettivo “italiano”,
utilizzato sia come sinonimo di “piemontese” che “borbonico”.
Poiché non avvertiamo alcun sentimento identitario italiano
e per ovviare all’abuso lessicale che rende meno chiara la
comprensione degli avvenimenti narrati, si suggerisce qui di definire
“piemontese” un popolo: ciò non può certo essere riferito a un
esercito, composto da soldati provenienti dalle diverse attuali
regioni padane, o a una dinastia come i Savoia, che
chiameremo sabauda; invece, per definire le popolazioni
del Regno delle Due Sicilie e quanto a loro relativo si
utilizzerà il termine “borbone” o “borbonico”.
Tutto il processo risorgimentale è una serie di brutali
azioni militari. I diciannove capitoli nel libro includono le
manovre truffaldine seguite alla Spedizione dei Mille, gli imbrogli
della politica di corruttela ideata dal Conte di Cavour per
distruggere l’esercito borbonico, l’imposizione di moneta, Codici e
tradizioni nuovi, ma soprattutto gli scontri sui fiumi Volturno e
Garigliano nell’attuale Campania, le capitolazioni delle fortezze di
Capua (Caserta) e di Gaeta (Latina), oltre alle
conseguenze tragiche nella vita di gente che – a differenza di
quanto le Alte Istituzioni Ufficiali italiane si sforzano di
diffondere – cercò in tanti modi di opporsi. Ed è una storia
vera, supportata da una ricca
bibliografia estremamente dettagliata, lettura nella lettura del
libro.
La sensazione principale è di rivivere il dramma
di quelle Genti che, come i Padani, hanno subito una volontà
esterna e violenta, senza comprenderne, allora, le motivazioni.
Siamo agli inizi di settembre 1860: l’abbandono di
Napoli, capitale dello Stato delle Due Sicilie, da parte del
giovane erede Borbone, Francesco II, dipinto dalla storiografia
ufficiale come un sovrano piuttosto inerme, segna il tentativo
di affrontare l’occupazione dell’esercito di Garibaldi, agevolato da
interventi della Marina inglese, come scrisse anche Massimo D’Azeglio
all’ammiraglio sabaudo Carlo Persano.
Da Gaeta, sede del comando e del Governo, Francesco II
avrebbe probabilmente organizzato una linea difensiva più efficiente.
Il Re «si fidava dei suoi ufficiali» poiché «… era in loro più forte
il senso dell’onore…», «ma si sarebbe ricreduto»: vari ufficiali si distinsero
per comportamenti negativi e furono degradati, come il generale
borbone Francesco Landi, che suonando la ritirata a
Calatafimi (Trapani) nel 1860 si rivelò «corrotto dai Garibaldini».
Va inoltre rilevata una misteriosa ribellione degli
ufficiali svizzeri della guarnigione di militari stranieri, forse per
«l’influenza della mano sobillatrice dei liberali in contatto con il
Piemonte» (o Regno sabaudo). Anche nella Marina borbonica alcuni ufficiali
tradirono: fu emblematica l’adozione su quasi tutte le navi del
tricolore con lo stemma dei Sabauto: Gigi Di Fiore vede, oltre al rifiuto
di accompagnare il Re a Gaeta, dove giunsero però quei militari che
giurarono fedeltà a una Patria non ancora perduta.
Mentre l’offensiva sabauda conquistava lo Stato
Pontificio, «cominciarono i primi scontri a fuoco tra garibaldini e
borbonici», con la presa del paese di Caiazzo (Caserta). A fine
Settembre, sul Volturno, i contrasti fra gli ufficiali borbonici Giosuè
Ritucci e lo svizzero Giovan Luca Von Mechel, un eccessivo attendismo
e una strategia inadeguata determinano la vittoria sabauda.
Intanto, «a Napoli, Garibaldi si comportava da padrone»
e «disponeva a suo piacimento dei beni strappati all’ancora
legittima dinastia Borbone», fra cui «… l’eredità lasciata da
Ferdinando II – padre di Francesco II – ai suoi dieci figli». Poiché,
affergiuridica ma l’autore, «non c’era alcuna volontà espressa dal
popolo meridionale», «ma c’era da fare l’Italia unita, come
solennemente affermava Vittorio Emanuele II», si fece ricorso
all’intervento militare.
Le operazioni per la conquista di Capua presero il
via il 20 ottobre in Abruzzo e in Molise, ove «quel bacino di ribellione
e fedeltà alla Patria napoletana… sarebbe sfociato, tra il 1861 e
1863, nel brigantaggio…».
L’azione diplomatica fu l’altro fattore determinante.
«La legittimazione affergiuridica, a invasione avvenuta», si
concretizza attraverso un falso plebiscito con un bando del 23
Ottobre e ciò dimostra «come l’Italia sia stata una
costruzione elitaria di natura politico-militare, priva del consenso
generale». Si trattava, senza dubbio, di una «violazione del
diritto internazionale: un’invasione di uno Stato in pace, senza
dichiarazione di guerra…».
Non votarono né i soldati impegnati al fronte, né i
prigionieri e le loro famiglie, né le donne, né i contadini e gli
analfabeti; «votarono, invece i garibaldini, e tutti gli stranieri
presenti nell’Esercito meridionale». E si votava «sotto lo sguardo
vigile della polizia», controllata dal prefetto e
Ministro dell’Interno don Liborio Romano, una polizia composta
da «camorristi, Guardia nazionale e soldati di Garibaldi». Il quale,
da governatore, «…già sei giorni prima aveva provveduto a
firmare il suo decreto numero 275 in cui, senza tanti preamboli… le
Due Sicilie» erano «parte integrante dell’Italia…», impegnandosi a
consegnare «la dittatura nelle mani del Re». A nulla valsero gli
appelli lanciati dal Borbone in questi anni alle Nazioni Europee.
L’imperatore francese Napoleone III era «già
da tempo votato anima e corpo agli accordi con i Savoia»: nella
primavera del 1860 suggerì a un fiducioso e illuso Francesco II la
reintroduzione della Costituzione del 1848, non richiesta dal popolo; il
30 e 31ottobre 1961 nella battaglia sul fronte del fiume Garigliano,
lasciò campo libero alle navi sabaude del Generale Carlo Persano.
D’altra parte, «l’Imperatore era stato alleato di
Vittorio Emanuele II contro l’Austria e aveva messo per iscritto le sue
idee sulla suddivisione politica dell’Italia:
organizzazione federale, con tre Stati. Idea respinta da Cavour». Ci
rammarichiamo che questa soluzione non si stata attuata.
Non meno ipocrita fu l’atteggiamento della
Gran Bretagna, dettato da un «tipico pragmatismo anglosassone,
che valutava più conveniente, per gli interessi economici
britannici in Sicilia e nel Mediterraneo, avere come interlocutore
Cavour anziché i Borbone». Significativo il sostegno militare a Garibaldi,
nonostante il Ministro degli Esteri inglese Lord John Russel, definì
il falso plebiscito «una mera formalità». La proposta austriaca alle
Nazioni Europee per un intervento armato in difesa del principio del
legittimismo e a favore del Regno delle Due Sicilie fu bocciata. E
ciò rappresentò una sorta di legittimazione all’intervento sabaudo.
L’esercito napoletano, dopo aver perso l’Abruzzo,
manteneva le fortezze di Capua e Gaeta, oltre a quelle di Messina e
Civitella del Tronto(Teramo). Dapprima si abbandona in
ritirata l’avamposto sul Volturno per quello sul Garigliano; da qui
il 3 Novembre la disperata e coraggiosa resistenza si
rivela inefficace agli intensi cannoneggiamenti e alle forze messe in
campo dall’esercito dei Savoia. La situazione assume tratti sempre
più violenti: il generale sabaudo Enrico Cialdini ricorre alle
fucilazioni senza processo per tutti i civili che opponevano
resistenza e a «maltrattamenti ai prigionieri». Nell’avanzata verso
la fortezza di Capua, ultimo baluardo dell’esercito borbonico, seguono fasi
di tregua e combattimenti, assedi, fame e malattie. L’assedio fu
condizionato da una penuria di munizioni; i sacrifici
economici per mantenere i soldati e il loro
equipaggiamento, cavalli compresi, diventarono sempre più
insostenibili.
Ma insieme al Re e alla Regina Maria Sofia la
popolazione sopportò anche i bombardamenti tecnologicamente
innovativi dei cannoni sabaudi e soprattutto l’impazienza di Vittorio
Emanuele II, che, con «un regio decreto… dispose criteri e collegi
elettorali, fissando per il 27 gennaio 1861 l’appuntamento con le
prime urne dell’Italia unita». Inesorabile, segue la
capitolazione con un elevato numero di perdite umane. L’esilio di
Francesco II a Roma presso il Papa non pone fine al conflitto, che si
trasforma in guerriglia. Nell’ex- Regno delle Due Sicilie i cosiddetti
“briganti” costituivano, infatti, il risultato di un malessere
socioeconomico e una disillusione diffusa: «Se quei ribelli
fossero riusciti a rovesciare il neo-Governo unitario ripristinando quello
borbonico, sarebbero probabilmente diventati dei patrioti», afferma
l’autore. In Abruzzo, Lucania, Puglia e Matese si costituisce un gran
numero di bande armate in risposta alla
repressione armata, all’invio di soldati non autoctoni e
col sostegno delle popolazioni locali.
L’adesione al Nuovo Stato – mai Nazione – fu poco
sentita. Così, «I più tartassati, all’alba del Regno d’Italia, furono
proprio i militari borbonici: i veri Vinti del Risorgimento». Una
minima parte degli ufficiali entrò nell’esercito sabaudo perdendo i
gradi conquistati: era «solo un passaggio formale». I
più recalcitranti finirono la loro esistenza prigionieri deportati
nelle carceri, spesso con funzione repressiva, come la fortezza di
Fenestrelle in Val Chisone (Torino). Dal 1870, «finita la rivolta armata,
stroncate le bande sui monti, cominciava la grande emigrazione…».
Forse, anche per gli eredi di quelle Genti è proprio tempo di vivere
un’ “altra storia”.
(da “Il Federalismo”, direttore Stefania Piazzo)
Fonte: da l’Indipendenza del 29 maggio 2016
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