mercoledì 3 agosto 2016

I VINTI DEL RISORGIMENTO: UN LIBRO DAGLI ARCHIVI DEI BORBONE. STRAGI E MANEGGI DEI SAVOIA



Di SILVIA GARBELLI –

Di taglio storiografico revisionistico, questo libro affronta il fenomeno risorgimentale da un punto di vista meridionalistico.
Si tratta, infatti, della situazione creatasi nel Regno delle Due Sicilie a causa del processo della cosiddetta “unificazione italiana” esattamente tra gli anni 1860 e 1861. Il periodo preso in considerazione è dunque breve, ma la trattazione degli avvenimenti è intensa e avvincente come nelle migliori ricostruzioni storiche. A dispetto delle consuete litanie italopatriottarde, l’autore ci propone una lettura veritiera di quanto forzata e forzosa è stata l’unione degli Stati Preunitari e cosa abbia comportato nella vita della sua dinastia, i Borbone e a quella dei suoi sudditi.
Nell’introduzione, l’autore auspica la necessità di fare chiarezza affinché si affermi la verità dei fatti accaduti, proprio a fronte della consapevolezza della menzognera storiografia ufficiale ancora presente in gran parte degli attuali libri in uso nella scuola italiana.

Frutto dell’attività di ricerca e di consultazione dell’Archivio dei Borbone, a Napoli, della “Gazzetta di Gaeta” e di documenti personali, questo libro è dichiaratamente «un saggio di approfondimento circa i “Vinti” e le fasi delle operazioni dell’esercito borbonico ».
Si accenna a sfaccettature di una controstoria che smaschera «una costruzione politica elaborata a tavolino, di cui l’artefice principale fu Cavour attraverso maneggi diplomatici, l’utilizzo abile di infiltrati e di corruzioni»; o a logiche economiche relative a «interessi dei latifondisti meridionali» coincidenti con «quelli dei ceti del capitalismo settentrionale » sabaudo, oltre agli interessi delle Nazioni europee, come Inghilterra e Francia, che agirono in una prospettiva di opportunistica ingerenza. Adducendo un’ipotetica richiesta di «necessità di cacciare lo straniero» Borbone, si sostiene come vi sia stata la volontà di punire uno «Stato protezionista, con barriere doganali, isolato nel contesto internazionale».

Si tratta, dunque, di una sconfitta, ma è subita con onore e gli aneddoti descritti pongono in luce una situazione generalmente sconosciuta.
Benché il rifiuto di Di Fiore a «…mettere in discussione l’indissolubilità dell’Italia…» suoni per noi padanisti particolarmente stonato a lettura compiuta, ci viene dallo stesso autore ricordato che la conoscenza dei fatti, oltre a rendere la giusta dignità alle vittime del Regno borbonico, farebbe comprendere al meglio le condizioni socioeconomiche che dall’inizio segnarono l’assetto della nuova Entità Statuale italiana. Alla luce di tale considerazione, nella lettura si avverte, talvolta, una sorta di confusione terminologica circa l’aggettivo “italiano”, utilizzato sia come sinonimo di “piemontese” che “borbonico”.

Poiché non avvertiamo alcun sentimento identitario italiano e per ovviare all’abuso lessicale che rende meno chiara la comprensione degli avvenimenti narrati, si suggerisce qui di definire “piemontese” un popolo: ciò non può certo essere riferito a un esercito, composto da soldati provenienti dalle diverse attuali regioni padane, o a una dinastia come i Savoia, che chiameremo sabauda; invece, per definire le popolazioni del Regno delle Due Sicilie e quanto a loro relativo si utilizzerà il termine “borbone” o “borbonico”.

Tutto il processo risorgimentale è una serie di brutali azioni militari. I diciannove capitoli nel libro includono le manovre truffaldine seguite alla Spedizione dei Mille, gli imbrogli della politica di corruttela ideata dal Conte di Cavour per distruggere l’esercito borbonico, l’imposizione di moneta, Codici e tradizioni nuovi, ma soprattutto gli scontri sui fiumi Volturno e Garigliano nell’attuale Campania, le capitolazioni delle fortezze di Capua (Caserta) e di Gaeta (Latina), oltre alle conseguenze tragiche nella vita di gente che – a differenza di quanto le Alte Istituzioni Ufficiali italiane si sforzano di diffondere – cercò in tanti modi di opporsi. Ed è una storia vera, supportata da una ricca bibliografia estremamente dettagliata, lettura nella lettura del libro.

La sensazione principale è di rivivere il dramma di quelle Genti che, come i Padani, hanno subito una volontà esterna e violenta, senza comprenderne, allora, le motivazioni.
Siamo agli inizi di settembre 1860: l’abbandono di Napoli, capitale dello Stato delle Due Sicilie, da parte del giovane erede Borbone, Francesco II, dipinto dalla storiografia ufficiale come un sovrano piuttosto inerme, segna il tentativo di affrontare l’occupazione dell’esercito di Garibaldi, agevolato da interventi della Marina inglese, come scrisse anche Massimo D’Azeglio all’ammiraglio sabaudo Carlo Persano.
Da Gaeta, sede del comando e del Governo, Francesco II avrebbe probabilmente organizzato una linea difensiva più efficiente. Il Re «si fidava dei suoi ufficiali» poiché «… era in loro più forte il senso dell’onore…», «ma si sarebbe ricreduto»: vari ufficiali si distinsero per comportamenti negativi e furono degradati, come il generale borbone Francesco Landi, che suonando la ritirata a Calatafimi (Trapani) nel 1860 si rivelò «corrotto dai Garibaldini».

Va inoltre rilevata una misteriosa ribellione degli ufficiali svizzeri della guarnigione di militari stranieri, forse per «l’influenza della mano sobillatrice dei liberali in contatto con il Piemonte» (o Regno sabaudo). Anche nella Marina borbonica alcuni ufficiali tradirono: fu emblematica l’adozione su quasi tutte le navi del tricolore con lo stemma dei Sabauto: Gigi Di Fiore vede, oltre al rifiuto di accompagnare il Re a Gaeta, dove giunsero però quei militari che giurarono fedeltà a una Patria non ancora perduta.
Mentre l’offensiva sabauda conquistava lo Stato Pontificio, «cominciarono i primi scontri a fuoco tra garibaldini e borbonici», con la presa del paese di Caiazzo (Caserta). A fine Settembre, sul Volturno, i contrasti fra gli ufficiali borbonici Giosuè Ritucci e lo svizzero Giovan Luca Von Mechel, un eccessivo attendismo e una strategia inadeguata determinano la vittoria sabauda.

Intanto, «a Napoli, Garibaldi si comportava da padrone» e «disponeva a suo piacimento dei beni strappati all’ancora legittima dinastia Borbone», fra cui «… l’eredità lasciata da Ferdinando II – padre di Francesco II – ai suoi dieci figli». Poiché, affergiuridica ma l’autore, «non c’era alcuna volontà espressa dal popolo meridionale», «ma c’era da fare l’Italia unita, come solennemente affermava Vittorio Emanuele II», si fece ricorso all’intervento militare.
Le operazioni per la conquista di Capua presero il via il 20 ottobre in Abruzzo e in Molise, ove «quel bacino di ribellione e fedeltà alla Patria napoletana… sarebbe sfociato, tra il 1861 e 1863, nel brigantaggio…».
L’azione diplomatica fu l’altro fattore determinante. «La legittimazione affergiuridica, a invasione avvenuta», si concretizza attraverso un falso plebiscito con un bando del 23 Ottobre e ciò dimostra «come l’Italia sia stata una costruzione elitaria di natura politico-militare, priva del consenso generale». Si trattava, senza dubbio, di una «violazione del diritto internazionale: un’invasione di uno Stato in pace, senza dichiarazione di guerra…».

Non votarono né i soldati impegnati al fronte, né i prigionieri e le loro famiglie, né le donne, né i contadini e gli analfabeti; «votarono, invece i garibaldini, e tutti gli stranieri presenti nell’Esercito meridionale». E si votava «sotto lo sguardo vigile della polizia», controllata dal prefetto e Ministro dell’Interno don Liborio Romano, una polizia composta da «camorristi, Guardia nazionale e soldati di Garibaldi». Il quale, da governatore, «…già sei giorni prima aveva provveduto a firmare il suo decreto numero 275 in cui, senza tanti preamboli… le Due Sicilie» erano «parte integrante dell’Italia…», impegnandosi a consegnare «la dittatura nelle mani del Re». A nulla valsero gli appelli lanciati dal Borbone in questi anni alle Nazioni Europee.

L’imperatore francese Napoleone III era «già da tempo votato anima e corpo agli accordi con i Savoia»: nella primavera del 1860 suggerì a un fiducioso e illuso Francesco II la reintroduzione della Costituzione del 1848, non richiesta dal popolo; il 30 e 31ottobre 1961 nella battaglia sul fronte del fiume Garigliano, lasciò campo libero alle navi sabaude del Generale Carlo Persano.

D’altra parte, «l’Imperatore era stato alleato di Vittorio Emanuele II contro l’Austria e aveva messo per iscritto le sue idee sulla suddivisione politica dell’Italia: organizzazione federale, con tre Stati. Idea respinta da Cavour». Ci rammarichiamo che questa soluzione non si stata attuata.

Non meno ipocrita fu l’atteggiamento della Gran Bretagna, dettato da un «tipico pragmatismo anglosassone, che valutava più conveniente, per gli interessi economici britannici in Sicilia e nel Mediterraneo, avere come interlocutore Cavour anziché i Borbone». Significativo il sostegno militare a Garibaldi, nonostante il Ministro degli Esteri inglese Lord John Russel, definì il falso plebiscito «una mera formalità». La proposta austriaca alle Nazioni Europee per un intervento armato in difesa del principio del legittimismo e a favore del Regno delle Due Sicilie fu bocciata. E ciò rappresentò una sorta di legittimazione all’intervento sabaudo.
L’esercito napoletano, dopo aver perso l’Abruzzo, manteneva le fortezze di Capua e Gaeta, oltre a quelle di Messina e Civitella del Tronto(Teramo). Dapprima si abbandona in ritirata l’avamposto sul Volturno per quello sul Garigliano; da qui il 3 Novembre la disperata e coraggiosa resistenza si rivela inefficace agli intensi cannoneggiamenti e alle forze messe in campo dall’esercito dei Savoia. La situazione assume tratti sempre più violenti: il generale sabaudo Enrico Cialdini ricorre alle fucilazioni senza processo per tutti i civili che opponevano resistenza e a «maltrattamenti ai prigionieri». Nell’avanzata verso la fortezza di Capua, ultimo baluardo dell’esercito borbonico, seguono fasi di tregua e combattimenti, assedi, fame e malattie. L’assedio fu condizionato da una penuria di munizioni; i sacrifici economici per mantenere i soldati e il loro equipaggiamento, cavalli compresi, diventarono sempre più insostenibili.

Ma insieme al Re e alla Regina Maria Sofia la popolazione sopportò anche i bombardamenti tecnologicamente innovativi dei cannoni sabaudi e soprattutto l’impazienza di Vittorio Emanuele II, che, con «un regio decreto… dispose criteri e collegi elettorali, fissando per il 27 gennaio 1861 l’appuntamento con le prime urne dell’Italia unita». Inesorabile, segue la capitolazione con un elevato numero di perdite umane. L’esilio di Francesco II a Roma presso il Papa non pone fine al conflitto, che si trasforma in guerriglia. Nell’ex- Regno delle Due Sicilie i cosiddetti “briganti” costituivano, infatti, il risultato di un malessere socioeconomico e una disillusione diffusa: «Se quei ribelli fossero riusciti a rovesciare il neo-Governo unitario ripristinando quello borbonico, sarebbero probabilmente diventati dei patrioti», afferma l’autore. In Abruzzo, Lucania, Puglia e Matese si costituisce un gran numero di bande armate in risposta alla repressione armata, all’invio di soldati non autoctoni e col sostegno delle popolazioni locali.

L’adesione al Nuovo Stato – mai Nazione – fu poco sentita. Così, «I più tartassati, all’alba del Regno d’Italia, furono proprio i militari borbonici: i veri Vinti del Risorgimento». Una minima parte degli ufficiali entrò nell’esercito sabaudo perdendo i gradi conquistati: era «solo un passaggio formale». I più recalcitranti finirono la loro esistenza prigionieri deportati nelle carceri, spesso con funzione repressiva, come la fortezza di Fenestrelle in Val Chisone (Torino). Dal 1870, «finita la rivolta armata, stroncate le bande sui monti, cominciava la grande emigrazione…». Forse, anche per gli eredi di quelle Genti è proprio tempo di vivere un’ “altra storia”.

(da “Il Federalismo”,  direttore Stefania Piazzo)


Fonte: da l’Indipendenza del 29 maggio 2016




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