Dopo la confessione shock del politico bosniaco Ibran
Mustafić, veterano di guerra, chi restituirà la dignità a Slobodan Milošević, ucciso in carcere,
a Radovan Karadžić e al Generale Ratko
Mladić, ancora oggi detenuti all’Aja?
Lo storico russo Boris Yousef, in
un suo saggio del 1994, scrisse quella che ritengo una sacrosanta verità: «Le
guerre sono un po’ come il raffreddore: devono fare il loro decorso naturale.
Se un ammalato di raffreddore viene attorniato da più medici che gli propinano
i farmaci più disparati, spesso contrastanti fra loro, la malattia, che si
sarebbe naturalmente risolta nel giro di pochi giorni, rischia di protrarsi per
settimane e di indebolire il paziente, di minarlo nel fisico, e di arrecare
danni talvolta permanenti e imprevedibili».
Yousef scrisse questa osservazione nel Luglio del 1994, nel
bel mezzo della guerra civile jugoslava, un anno prima della caduta della Repubblica
Serba di Krajina e sedici mesi prima dei discussi accordi Dayton che
scontentarono in Bosnia tutte le parti in campo, imponendo una situazione di
stallo potenzialmente esplosiva. E ritengo che tale osservazione si adatti a
pennello al conflitto jugoslavo. Un lungo e sanguinoso conflitto che,
formalmente iniziato nel 1991, con la secessione dalla Federazione delle
repubbliche di Slovenia e Croazia, era stato già da tempo preparato e
pianificato da alcune potenze occidentali (con in testa l’Austria e la
Germania), da diversi servizi segreti, sempre occidentali, da gruppi occulti di
potere sovranazionali e transnazionali (Bilderberg, Trilaterale, Pinay, Ert
Europe, etc.) e, per certi versi, anche dal Vaticano.
La Jugoslavija, forte potenza economica e militare, da
decenni alla guida del movimento dei Paesi non Allineati, dopo la morte
del Maresciallo Tito, avvenuta nel 1980, era divenuta
scomoda e ingombrante e, di conseguenza, l’obiettivo geo-strategico primario di
una serie di avvoltoi che miravano a distruggerla, a smembrarla e a spartirsi
le sue spoglie.
Si assistette così ad una progressiva destabilizzazione del
Paese, avviata già nel biennio 1986-87, destabilizzazione alla quale si oppose
con forza soltanto Slobodan Milošević, divenuto Presidente
della Repubblica Socialista di Serbia, e che toccò il culmine con la creazione
in Croazia, nel Maggio del 1989, dell’Unione Democratica Croata (Hrvatska
Demokratska Zajednica o HDZ), partito anti-comunista di centro-destra che a
tratti riprendeva le idee scioviniste degli Ustascia di Ante Pavelić, guidato
dal controverso ex Generale di Tito Franjo Tuđman.
Sarebbe lungo in questa sede ripercorrere tutte le tappe che
portarono al precipitare degli eventi, alla necessità degli interventi della
Jugoslosvenska Narodna Armija dapprima in Slovenia e
poi in Croazia, alla definitiva scissione dalla Federazione delle due
repubbliche ribelli e all’allargamento del conflitto nella vicina Bosnia. Si
tratta di eventi sui quali esiste moltissima documentazione, la maggior parte
della quale risulta però essere fortemente viziata da interpretazioni personali
e di parte degli storici o volutamente travisata da giornalisti asserviti alle
lobby di potere mediatico-economico europee ed americane. Giornalisti che della
Jugoslavija e della sua storia ritengo che non abbiano mai capito niente.
Come ho scritto poc’anzi, ritengo che la saggia affermazione
di Boris Yousef si adatti molto bene al conflitto
civile jugoslavo. A prescindere dal fatto che esso è stato generato da palesi
ingerenze esterne, ritengo che sarebbe potuto terminare ‘naturalmente’ manu
militari nel giro di pochi mesi, senza le continue ingerenze, le
pressioni e le intromissioni della sedicente ‘Comunità Internazionale’,
delle Nazioni Unite e di molteplici altre organizzazioni che agivano dietro le
quinte (Fondo Monetario Internazionale, OSCE, UNHCR, Unione Europea e
criminalità organizzata italiana e sud-americana). Sono state proprio queste
ingerenze (i vari farmaci dagli effetti contrastanti citati nella metafora di
Yousef) a prolungare il conflitto per anni, con la continua richiesta,
dall’alto, di tregue impossibili e non risolutive, e con la pretesa di
ridisegnare la cartina geografica dell’area sulla base delle convenienze economiche
e non della realtà etnica e sociale del territorio.
Ma si tratta di una storia in buona parte ancora non
scritta, perché sono state troppe le complicità di molti leader europei,
complicità che si vuole continuare a nascondere, ad occultare. Ed è per questo
che gli storici continuano ad ignorare che la Croazia di Tuđman costruì
il suo esercito grazie al traffico internazionale di droga (tutte quelle navi
che dal Sud America gettavano l’ancora nel porto di Zara, secondo
voi cosa contenevano?). È per questo che continuano a non domandarsi per quale
motivo tutto il contenuto dei magazzini militari della defunta Repubblica
Democratica siano prontamente finiti
nelle mani di Zagabria.
Si tratta di vicende che conosco molto bene, perché ho
trascorso nei Balcani buona parte degli anni ’90, prevalentemente a Belgrado e
a Skopje. Parlo bene tutte le lingue dell’area, compresi i relativi dialetti, e
ho avuto a lungo contatti con l’amministrazione di Slobodan
Milošević, che ho avuto l’onore di incontrare in più di un’occasione.
Sono stato, fra l’altro, l’unico esponente politico italiano ad essere presente
ai suoi funerali, in una fredda giornata di Marzo del 2006.
Sono stato quindi un diretto testimone dei principali eventi
che hanno segnato la storia del conflitto civile jugoslavo e degli sviluppi ad
esso successivi. Ho visto con i miei occhi le decine di migliaia di profughi
serbi costretti a lasciare Knin e le altre località della Srpska Republika
Krajina, sotto la spinta dell’occupazione croata delle loro case, avvenuta con
l’appoggio dell’esercito americano.
Ho seguito da vicino tutte le tappe dello scontro in Bosnia,
i disordini nel Kosovo, la galoppante inflazione a nove cifre che
cambiava nel giro di poche ore il potere d’acquisto di una banconota. Ho
vissuto il dramma, nel 1999, dei criminali bombardamenti della NATO su
Belgrado e su altre città della Serbia. Ed è per questo che non ho mai creduto
– a ragione – alle tante bugie che riportavano la stampa europea e quella
italiana in primis. Bugie e disinformazioni dettate da quell’operazione di
marketing pubblicitario (non saprei come altro definirla) pianificata sui
tavoli di Washington e di Langley che impose a
tutta l’opinione pubblica la favoletta dei Serbi ‘cattivi’ aguzzini di poveri e
innocenti Croati, Albanesi e musulmani bosniaci. Favoletta che ha però
incredibilmente funzionato per lunghissimo tempo, portando all’inevitabile
criminalizzazione e demonizzazione di una delle parti in conflitto e tacendo
sui crimini e sulle nefandezze delle altre.
La guerra, e a maggior ragione una guerra civile, non è
ovviamente un pranzo di gala e non vi si distribuiscono caramelle e cotillon.
In guerra si muore. In guerra si uccide o si viene uccisi. La guerra significa
fame, sofferenza, freddo, fango, sudore, privazioni e sangue. Ed è fatta,
necessariamente, anche di propaganda. Durante il lungo conflitto civile
jugoslavo nessuno può negare che siano state commesse numerose atrocità,
soprattutto dettate dal risveglio di un mai sopito odio etnico. Ma mai nessun
conflitto, dal termine della Seconda Guerra Mondiale, ha visto un simile
massiccio impiego di ‘false flag’,
azioni pianificate ad arte, quasi sempre dall’intelligence, per scatenare le
reazioni dell’avversario o per attribuirgli colpe non sue. Ho già spiegato il
concetto di ‘false flag’ in numerosi miei articoli, denunciando l’escalation
del loro impiego su tutti i più recenti teatri di guerra.
Fino ad oggi la più nota ‘false flag’ della guerra civile
jugoslava era la tragica strage di civili al mercato di Sarajevo, quella che
determinò l’intervento della NATO, che bombardò ripetutamente, per
rappresaglia, le postazioni serbo-bosniache sulle colline della città. Venne
poi appurato con assoluta certezza che fu lo stesso governo musulmano-bosniaco
di Alija Izetbegović a uccidere decine di suoi
cittadini in quel cannoneggiamento, per far ricadere poi la colpa sui Serbi.
Srebrenica
E quella che io ho sempre ritenuto la più colossale ‘false
flag’ del conflitto, ovvero il massacro di oltre mille civili musulmani
avvenuto a Srebrenica, del quale fu incolpato l’esercito serbo-bosniaco
comandato dal Generale Ratko Mladić, che da allora venne
accusato di ‘crimi di guerra’ e braccato dal Tribunale Penale Internazionale
dell’Aja fino al suo arresto, avvenuto il 26 Maggio 2011, si sta finalmente
rivelando in tutta la sua realtà. In tutta la sua realtà, appunto, di ‘false
flag’.
I giornali italiani, che all’epoca scrissero titoli a
caratteri cubitali per dipingere come un ‘macellaio’ il Generale Mladić e
come un folle criminale assetato di sangue il Presidente della Repubblica Serba
di Bosnia Radovan Karadžić,
anch’egli arrestato nel 2008 e sulla cui testa pendeva una taglia di 5 milioni
di Dollari offerta dagli Stati Uniti per la sua cattura, hanno praticamente
passato sotto silenzio una sconvolgente notizia. Una notizia a cui ha dato
spazio nel nostro Paese soltanto il quotidiano Rinascita,
diretto dall’amico Ugo Gaudenzi, e fa finalmente piena luce
sui fatti di Srebrenica, stabilendo che la colpa non fu dei vituperati Serbi, ma dei musulmani bosniaci.
Ibran Mustafić, veterano di guerra e politico
bosniaco-musulmano, probabilmente perché spinto dal rimorso o da una crisi di
coscienza, ha rilasciato ai media una sconcertante confessione: almeno mille
civili musulmano-bosniaci di Srebrenica vennero uccisi dai loro stessi
connazionali, da quelle milizie che in teoria avrebbero dovuto assisterli e
proteggerli, durante la fuga a Tuzla nel Luglio 1995, avvenuta in seguito
all’occupazione serba della città. E apprendiamo che la loro sorte venne
stabilita a tavolino dalle autorità musulmano-bosniache, che stesero delle vere
e proprie liste di proscrizione di coloro a cui «doveva essere
impedito, a qualsiasi costo, di raggiungere la libertà».
Come riporta Enrico Vigna su Rinascita, Ibran
Mustafić ha pubblicato un libro, Caos pianificato,
nel quale alcuni dei crimini commessi dai soldati dell’esercito musulmano della
Bosnia-Erzegovina contro i Serbi sono per la prima volta ammessi e descritti, così
come il continuo illegale rifornimento occidentale di armi ai separatisti
musulmano-bosniaci, prima e durante la guerra, e – questo è molto significativo
– anche durante il periodo in cui Srebrenica era una zona smilitarizzata sotto
la protezione delle Nazioni Unite.
Mustafić racconta inoltre, con dovizia di particolari, dei
conflitti tra musulmani e della dissolutezza generale dell’amministrazione di
Srebrenica, governata dalla mafia, sotto il comandante militare bosniaco Naser
Orić. A causa delle torture di comuni cittadini nel 1994, quando Orić e
le autorità locali vendevano gli aiuti umanitari a prezzi esorbitanti invece di
distribuirli alla popolazione, molti bosniaci fuggirono volontariamente dalla
città. «Coloro che hanno cercato la salvezza in Serbia,
sono riusciti ad arrivare alla loro destinazione finale, ma coloro che sono
fuggiti in direzione di Tuzla ( governata dall’esercito musulmano) sono stati
perseguitati o uccisi», svela Mustafić. E, ben prima del massacro
dei civili musulmani di Srebrenica nel Luglio 1995, erano stati perpetrati da
tempo crimini indiscriminati contro la popolazione serba della zona. Crimini
che Mustafić descrive molto bene nel suo libro, essendone venuto a conoscenza
già nel 1992, quando era fuggito da Sarajevo a Tuzla.
«Lì – egli scrive – il mio parente Mirsad
Mustafić mi mostrò un elenco di soldati serbi prigionieri, che
furono uccisi in un luogo chiamato Zalazje. Tra gli altri c’erano i nomi del
suo compagno di scuola Branko Simić e di suo fratello Pero, dell’ex giudice Slobodan Ilić, dell’autista di Zvornik Mijo Rakić, dell’infermiera Rada Milanović. Inoltre, nelle
battaglie intorno ed a Srebrenica, durante la guerra, ci sono stati più di
3.200 Serbi di questo e dei comuni limitrofi uccisi».
Mustafić ci riferisce a riguardo una terribile confessione
del famigerato Naser Orić, confessione che non mi sento qui
di riportare per l’inaudita crudeza con cui questo criminale di guerra descrive
i barbari omicidi commessi con le sue mani su uomini e donne che hanno avuto la
sventura di trovarsi alla sua mercé. Ma voglio citare il racconto di uno zio di
Mustafić, anch’esso riportato nel libro: «Naser venne e mi disse di
prepararmi subito e di andare con la Zastava vicino alla prigione
di Srebrenica. Mi vestii e uscii subito. Quando arrivai alla prigione, loro
presero tutti quelli catturati precedentemente a Zalazje e mi ordinarono di
ritrasportarli lì. Quando siamo arrivati alla discarica, mi hanno ordinato di
fermarmi e parcheggiare il camion. Mi allontanai a una certa distanza, ma
quando ho visto la loro furia ed il massacro è iniziato, mi sono sentito male,
ero pallido come un cencio. Quando Zulfo Tursunović ha
dilaniato il petto dell’infermiera Rada
Milanovic con un coltello, chiedendo falsamente dove fosse la radio, non ho
avuto il coraggio di guardare. Ho camminato dalla discarica e sono arrivato a
Srebrenica. Loro presero un camion, e io andai a casa a Potocari. L’intera
pista era inondata di sangue».
Da quanto ci racconta Mustafić, gli elenchi dei ‘bosniaci
non affidabili’ erano ben noti già da allora alla leadership musulmana ed al
Presidente Alija Izetbegović, e l’esistenza di questi
elenchi è stata confermata da decine di persone. «Almeno dieci volte
ho sentito l’ex capo della polizia Meholjić
menzionare le liste. Tuttavia, non sarei sorpreso se decidesse di negarlo», dice
Mustafić, che è anche un membro di lunga data del comitato organizzatore per
gli eventi di Srebrenica. Secondo Mustafić, l’elenco venne redatto dalla
mafia di Srebrenica, che comprendeva la leadership politica e militare della
città sin dal 1993. I ‘padroni della vita e della morte nella zona’, come lui
li definisce nel suo libro. E, senza
esitazione, sostiene: «Se fossi io a dover giudicare Naser Orić,
assassino conclamato di più di 3.000 Serbi nella zona di Srebrenica (clamorosamente
assolto dal Tribunale Internazionale dell’Aja!) lo condannerei a venti
anni per i crimini che ha commesso contro i Serbi; per i crimini commessi
contro i suoi connazionali lo condannerei a minimo 200.000 anni di carcere. Lui
è il maggiore responsabile per Srebrenica, la più grande macchia nella storia
dell’umanità».
Ma l’aspetto più inquietante ed eclatante delle rivelazioni
di Mustafić è l’ammissione che il genocidio di Srebrenica è stato
concordato tra la comunità internazionale e Alija Izetbegović ,
e in particolare tra Izetbegović e il presidente USA Bill Clinton, per far
ricadere la colpa sui Serbi, come Ibran Mustafić afferma con totale
convinzione.
«Per i crimini commessi a Srebrenica, Izetbegović e Bill Clinton sono direttamente responsabili. E, per quanto mi riguarda, il loro accordo è stato il crimine più grande di tutti, la causa di quello che è successo nel Luglio 1995. Il momento in cui Bil Clinton entrò nel Memoriale di Srebrenica è stato il momento in cui il cattivo torna sulla scena del crimine», ha detto Mustafić. Lo stesso Bill Clinton, aggiungo io, che superò poi se stesso nel 1999, con la creazione ad arte delle false fosse comuni nel Kosovo (altro clamoroso esempio di ‘false flag’), nelle quali i miliziani albanesi dell’UCK gettavano i loro stessi caduti in combattimento e perfino le salme dei defunti appositamente riesumate dai cimiteri, per incolpare mediaticamente, di fronte a tutto il mondo, l’esercito di Belgrado e poter dare il via a due mesi di bombardamenti sulla Serbia.
Come sottolinea sempre Mustafić, riguardo a Srebrenica ci
sono inoltre state grandi mistificazioni sui nomi e sul numero reale delle
vittime. Molte vittime delle milizie musulmane non sono state inserite in
questo elenco, mentre vi sono stati inseriti ad arte cittadini di Srebrenica da
tempo emigrati e morti all’estero. E un discorso simile riguarda le persone
torturate o che si sono dichiarate tali. «Molti bosniaci musulmani –
sostiene Mustafić – hanno deciso di dichiararsi vittime perché non
avevano alcun mezzo di sostentamento ed erano senza lavoro, così hanno usato
l’occasione. Un’altra cosa che non torna è che tra il 1993 e il 1995 Srebrenica
era una zona smilitarizzata. Come mai improvvisamente abbiamo così tanti
invalidi di guerra di Srebrenica?».
Egli ritiene che sarà molto difficile determinare il numero
esatto di morti e dei dispersi di Srebrenica. «È molto
difficile – sostiene nel suo libro – perché i fatti di
Srebrenica sono stati per troppo tempo oggetto di mistificazioni, e il
burattinaio capo di esse è stato Amor Masović, che con la fortuna fatta sopra
il palcoscenico di Srebrenica potrebbe vivere allegramente per i prossimi
cinquecento anni! Tuttavia, ci sono stati alcuni membri dell’entourage di
Izetbegović che, a partire dall’estate del 1992, hanno lavorato per realizzare
il progetto di rendere i musulmani bosniaci le permanenti ed esclusive vittime
della guerra».
Il massacro di Srebrenica servì come pretesto a Bill
Clinton per scatenare, dal 30 Agosto al 20 Settembre del
1995, la famigerata Operazione Deliberate
Force, una campagna di bombardamento intensivo, con l’uso di micidiali
bombe all’uranio impoverito, con la quale le forze della NATO distrussero il
comando dell’esercito serbo-bosniaco, devastandone irrimediabilmente i sistemi
di controllo del territorio. Operazione che spinse le forze croate e
musulmano-bosniache ad avanzare in buona parte delle aree controllate dai
Serbi, offensiva che si arrestò soltanto alle porte della capitale
serbo-bosnica Banja Luka e che costrinse i Serbi ad un cessate
il fuoco e all’accettazione degli accordi di Dayton, che determinarono una
spartizione della Bosnia fra le due parti (la croato-musulmana e la serba).
Spartizione che penalizzò fortemente la Republika Srpska, che venne privata di
buona parte dei territori faticosamente conquistati in tre anni di duri
combattimenti.
Alija Izetbegović, fautore del distacco della
Bosnia-Erzegovina dalla federazione jugoslava nel 1992, dopo un referendum
fortemente contestato e boicottato dai cittadini di etnia serba (oltre il 30%
della popolazione) è rimasto in carica come Presidente dell’autoproclamato
nuovo Stato fino al 14 Marzo 1996, divenendo in seguito membro della Presidenza
collegiale dello Stato federale imposto dagli accordi di Dayton fino al 5
Ottobre del 2000, quando venne sostituito da Sulejman Tihić.
È morto nel suo letto a Sarajevo il 19 Ottobre 2003 e non ha mai pagato per i
suoi crimini. Ha anzi ricevuto prestigiosi premi e riconoscimenti
internazionali, fra cui le massime onorificenze della Croazia (nel 1995) e
della Turchia (nel 1997). E ha saputo bene far dimenticare agli occhi della
‘comunità internazionale’ la sua natura di musulmano fanatico e fondamentalista
ed i suoi numerosi arresti e le sue lunghe detenzioni, all’epoca di Tito, (in
particolare dal 1946 al 1949 e dal 1983 al 1988) per attività sovversive e
ostili allo Stato.
Nella sua celebre Dichiarazione Islamica,
pubblicata nel 1970, dichiarava: «non
ci sarà mai pace né
coesistenza tra la fede islamica e le istituzioni politiche e sociali non
islamiche» e che «il movimento islamico può e deve impadronirsi del potere politico
perché è moralmente e numericamente così forte che può non solo distruggere il
potere non islamico esistente, ma anche crearne uno nuovo islamico». E
ha mantenuto fede a queste sue promesse, precipitando la tradizionalmente laica
Bosnia-Erzegovina, luogo dove storicamente hanno sempre convissuto in pace
diverse culture e diverse religioni, in una satrapia fondamentalista, con
l’appoggio ed i finanziamenti dell’Arabia Saudita e di altri stati del Golfo e
con l’importazione di migliaia di mujahiddin provenienti da varie zone del
Medio Oriente, che seminarono in Bosnia il terrore e si resero responsabili di
immani massacri.
Slobodan Milošević, accusato di ‘crimini
contro l’umanità’ (accuse principalmente fondate su una sua presunta regia
del massacro di Srebrenica), nonostante abbia sempre
proclamato la sua innocenza, venne arrestato e condotto in carcere all’Aja.
Essendo un valente avvocato, scelse di difendersi da solo di fronte alle accuse
del Tribunale Penale Internazionale, ma morì in circostanze mai chiarite nella
sua cella l’11 Marzo 2006. Sono insistenti le voci secondo cui sarebbe stato
avvelenato perché ritenuto ormai prossimo a vincere il processo e a scagionarsi
da ogni accusa, e perché molti leader europei temevano il terremoto che
avrebbero scatenato le sue dichiarazioni.
Radovan Karadžić, l’ex Presidente della
Repubblica Serba di Bosnia, e il Generale Ratko Mladić,
comandante in capo dell’esercito bosniaco, sono stati anch’essi arrestati e si
trovano in cella all’Aja. Sul loro capo pendono le stesse accuse di ‘crimini
contro l’umanità’, fondate essenzialmente sul massacro di Srebrenica.
Adesso che su Srebrenica è finalmente venuta fuori la
verità, dovrebbe essere facile per loro arrivare ad un’assoluzione, a meno che
qualcuno non abbia deciso che debbano fare la fine di Milošević.
Ma chi restituirà a loro e al defunto Presidente Jugoslavo
la dignità e l’onorabilità? Tutte le grandi potenze occidentali, dagli Stati
Uniti all’Unione Europea, dovrebbero ammettere di aver sbagliato, ma dubito
sinceramente che lo faranno.
Nicola Bizzi
Fonte: srs di Nicola
Bizzi; da Russia News del 24 febbraio
2014
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