Siamo consapevoli che non esiste un femminismo, ma
esistono diversi femminismi. Ma siamo ancora più consapevoli che ogni -ismo è
una vecchia ciabatta di cui possiamo fare a meno per interpretare la realtà,
tanto più oggi, in questo 8 marzo, in cui andrebbe fatto un bilancio serio
sulla condizione della donna.
Quali sono stati i risultati del femminismo? Tolto il fatto
che oggi la galanteria è diventata una trivialità dimenticata, che alle signore
non si apre più lo sportello della macchina o la porta del bar, che non le si
cede il posto sull’autobus, che sul mercato del lavoro hanno ancora un salario
inferiore rispetto all’uomo, cosa hanno guadagnato da questa grande messinscena
circense indetta a colpi di slogan quali “il corpo è mio decido io”,
le donne? È stata davvero la liberazione dal matrimonio, dalla maternità, dal
focolare domestico, la loro più grande conquista? Ma a pensarci bene,
questo matrimonio, non era una forma contrattuale che, in primis, favoriva
proprio le donne?
Ci rimettiamo qui all’analisi del sociologo francese Alain
Soral, nel suo saggio Vers la féminisation.
La donna infatti, a partire dai trent’anni, vede sfiorire la
sua bellezza e la sua attività di “seduttrice” comincia a scemare. La donna
domina il gioco dai 15 ai 25 anni. L’attività riproduttiva di un uomo, invece,
va dai 15 ai 70 anni. L’uomo ha una vita sessuale più lunga della donna.
Sebbene in tenere età, nel gioco della seduzione, l’uomo
è lo sconfitto, perché le sue coetanee si accasano con gli uomini più
grandi, è appunto verso i trent’anni che l’uomo è nel pieno della sua forza
fisica, della sua virilità e se ha successo anche della sua indipendenza
economica, ed esercita quindi un potere simbolico più elevato nella
società.
L’uomo di trenta-quarant’anni, può sedurre una ragazza più
giovane o più anziana, la figlia e la madre. La donna di trenta non
sposata, devalorizzata simbolicamente dal numero di partner che ha avuto,
comincia ad avere delle difficoltà per trovare un contendente della sua stessa
età, e può essere destinata al celibato, succube dalla concorrenza delle
ragazze più giovani. Il matrimonio, allora, non diventa proprio il luogo di
tutela della donna, e il vincolo dell’uomo?
Non è forse il focolare che permette alla donna, una
volta sfiorita la bellezza e il suo potere attrattivo sull’uomo, di impedire al
suo compagno di liberarsi della sua vecchiaia per cercare una donna
più giovane?
Ecco infatti che dal divorzio, da questi divorzi fatti su
due piedi per isteria, per capriccio, per insofferenza, in un’età in cui si
crede di avere tutta la vita davanti, a perderci, sono proprio le donne.
Mentre l’uomo di quarant’anni, divorziato, può ancora sedurre una giovane
cubana di venticinque anni, le quarantenni divorziate – è il caso dei paesi nordeuropei
– si imbarcano per i paesi sottosviluppati a praticare del turismo
sessuale inverso con dei giovani neri che accettano di consumare l’atto
sessuale per soldi.
Verso il sud (Vers le sud) è un film del 2005 diretto dal
regista Laurent Cantet. Tre turiste nord-americane di mezza età si concedono
una vacanza nell’isola di Haiti allietate dalla compagnia di aitanti giovani
locali. (Wikipedia)
Se sul piano simbolico, con questa supposta emancipazione,
le donne hanno perso quella che era una tutela contro la solitudine, sul
piano politico cosa hanno guadagnato? Ora non si vogliono criticare in
questa sede le rivendicazioni del sesso femminile, più che legittime, ma si
tenta di capire brevemente la strumentalizzazione che hanno subito
nell’ultima metà del secolo.
Per analizzarne la portata di questo fenomeno dobbiamo però sfatare
il mito della donna sempre oppressa, mito che sostituisce alla lettura
della storia in termini di lotta di classe, una lettura in termini di lotta dei
sessi. Di fatto nelle società primitive, o feudali e monarchiche, un contadino
non aveva più diritti di quanti non fossero elargiti alla donna, perché non
esistevano diritti ma ruoli, caratteri e doveri diversi, cui non si dava un
giudizio di valore gerarchico. Lavorare nei campi non era più o meno dignitoso
di filare la lana o di preparare il pasto. Il focolare domestico
era una sinergia di funzioni e compiti diversi. La guerra virile era il
contrappeso della maternità femminile; quando l’uomo distruggeva, la donna
creava. L’uno non poteva esistere senza la differenza dell’altro.
Per quanto riguarda invece le classi più elevate della
società, non è credibile pensare che la donna sia sempre stata esclusa
dall’ambito culturale o devalorizzata intellettualmente.
Platone, nella Repubblica, non esclude la donna
– che peraltro poteva accedere all’Accademia – dalla carriera filosofica. Lo
gnosticismo prevedeva alte cariche per le donne/sacerdotesse. Ipazia era a capo
della scuola di Alessandria. I carteggi tra Elisabetta e Cartesio, tra Mme de
Stael e Rousseau furono epistolari alla pari.
La donna, certo altolocata, come doveva essere lo stesso
uomo per accedere alla cultura, fu sempre presente all’interno del
dibattito intellettuale Occidentale, moderando,
organizzando incontri, relazioni, ma anche attività sovversive – se
pensiamo al ruolo dell’intellighenzia femminile durante il nostro
Risorgimento. È vero, però, che durante il primo processo di alfabetizzazione
dei Paesi europei, le donne delle classi meno abbienti accedevano in rarissimi
casi agli studi superiori.
La società che per prima, infatti, ha posto un limite
all’istruzione delle donna, è stata la società borghese.
Anne-Louise Germaine Necker, baronessa di Staël-Holstein,
meglio nota con il nome di Madame de Staël (Parigi, 22 aprile 1766 – Parigi, 14
luglio 1817), è stata una scrittrice francese di origini svizzere, si giovò di
una formazione accademica frequentando il salotto letterario organizzato dalla
madre e successivamente diede vita a un proprio circolo culturale ospitando
alcuni dei maggiori intellettuali dell’epoca.
A risolvere le inclinazioni patriarcali della società
borghese sono state certamente le più giuste e fondate pretese femminili. Ma
la creazione del femminismo, come movimento organizzato e istituzionale, ha
frammentato le istanze rivoluzionarie.
Mentre la dialettica della lotta di classe aveva come
scopo il ribaltamento dei rapporti di forza, le proteste femministe hanno
creato un conflitto orizzontale, che non annette più la dicotomia
sfruttatore/sfruttato a quella di padrone/operaio, ma a quella di uomo/donna,
stravolgendo di fatto ogni progettualità rivoluzionaria che si rivolga alla
verticalità della stratificazione sociale. L’emancipazione della donna non si
attua ai margini delle leggi del mercato, o in un momento di sospensione di
queste, ma nel momento di più alta espressione del principio liberale: in nome
della parità dei diritti, dei ruoli, degli status, l’ingresso delle donne
nel mondo del lavoro ha obbligato l’uomo ad accettare condizioni
subalterne di impiego per non essere sostituito, abbassando così l’asticella
del costo del lavoro.
Esercito di riserva del capitalismo, così come lo
sono gli immigrati attuali, le donne che prima erano oppresse dal marito,
ora lo sono anche dal datore di lavoro; prima dal giogo patriarcale domestico,
ora dalla precarietà. E in definitiva, quali sono i risultati di
questo affanno, se lo status quo è ancora invariato, la parità
tra ricchi e poveri è ancora un’illusione, l’ugualitarsimo è sempre astratto, e
le disuguaglianze non le creano i sessi ma il conto in banca?
La donna non ha ribaltato i rapporti di forza,
ne è diventata vittima, schiava anch’essa – salvo casi elitari, al pari
della situazione maschile – come l’ultimo degli operai e degli impiegati,
della violenza dei modi di produzione (in fabbrica o nei servizi), della
flessibilità, del precariato, del part-time e adesso che in Parlamento c’è la
quota rosa – emblematica dei pochi risultati effettivi del femminismo – cosa è
cambiato? Cosa cambia se a sfruttare sono i padroni o le loro mogli? Anzi,
peggio, l’ipocrisia è che la donna è esclusa, invero, dai posti di potere.
Dice Zemmour:
“Da vent’anni a questa parte vi è un aumento della
presenza delle donne nella vita politica. Tuttavia, parallelamente, il potere
si evapora dalla politica. Guardate, nei contesti in cui si situa veramente il
potere, non ci sono donne. Nella finanza la loro presenza è infinitesimale, è
marginale”
Oppressa nel mercato del lavoro la donna è divenuta l’uomo
perfetto, mentre l’uomo, androgino e molle, nell’atto permissivo del consumo è
la donna perfetta: usa cosmetici, prodotti di bellezza, si depila.
A questo punto il femminismo sembra una gigantesca
operazione ideologica di marketing, operante nell’esclusiva sovrastruttura
(indifferenziazione dei sessi, intercambiabilità dei ruoli e degli status),
per incentivare concettualmente la devalorizzazione della maternità, del
parto, dell’essere madre, della femminilità (una differenza antropologica
spacciata per culturale che deve essere annichilita) per rendere la donna
l’operaio perfetto da sussumere nella forma del mercato.
Le conseguenza attuali sono l’indisponibilità della coppia
alla procreazione, che intimorisce, che ostacola il successo, la carriera e
l’indipendenza. La gravidanza è diventata un privilegio
delle classi sociali più agiate, a discapito delle famiglie meno
abbienti che devono ritardare continuamente la maternità in attesa della
stabilità economica. I figli sono diventati un lusso per i ricchi, per i
gay tramite la fecondazione eterologa e per le donne in menopausa che hanno
rinviato troppo a lungo il desiderio intimo di un figlio, ma che adesso
vogliono togliersi il capriccio, e possono amabilmente comprarlo nei giganti
reparti delle cliniche specializzate diffuse in tutti i Paesi del terzo
mondo. La maternità surrogata sarà la nuova maternità Occidentale. Il
mercato dell’Utero è già valutato per più di 6 miliardi di dollari.
È il nuovo business delle élite dei Paesi in via di sviluppo, ben
accolto dai capricci dell’Occidente in menopausa. Affittare l’utero, ci
diranno, è femminismo!
Fonte: srs di Lorenzo Vitelli, da L’INTELLETTUALE
DISSIDENTE del 8 marzo 2017
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