I Savoia erano francesi, non piemontesi
Mi permetto far conoscere un brano estratto da una risposta
di Carlo Candiani a Claudio Sacilotto su FaceBook riguardo
la lettera di Ettore Beggiato
inviata al giornalista Aldo Cazzullo
(già al centro di critiche e polemiche sul ospitate tempo fa
sulle pagine di "Dal Veneto al Mondo").
Il Premio Nobel Mario Vargas
Llosa afferma, nell'intervista rilasciata al giornalista, che in Italia le
Regioni non esistono, allora Beggiato si pone la domanda, "se non esistono
le Regioni, un Veneto cosa avrebbe in comune con un Tirolese o con un Sardo o
con un Siciliano o con uno della Val d'Aosta. Niente se non fosse per una
lingua (imposta)".
La risposta di Cazzullo scatena interventi che esulano un
po' dalla natura dell'idea di Beggiato. Mi sono piaciute le risposte di Carlo
Candiani che meritano essere riprese per ricordare a quei Veneti, che non
conoscono nel dettaglio certi retroscena che portarono all'Unità d'Italia
passando per i referendum truffa o per le deportazioni. Purtroppo la storia che
ci è stata insegnata, l'hanno scritta i Savoia ad unità avvenuta sia perché
erano i vincitori sia perché dovevano nascondere il loro operato per rafforzare
la conquista della penisola.
Bisogna sempre ricordare un fatto fondamentale, quando si
parla di unità d'Italia, che è stata fatta sotto i Savoia, che nulla hanno a
che fare con i Piemontesi, soprattutto con gli ossolani, novaresi e vercellesi
che sono stati sempre e storicamente sotto altro regno, in particolare prima
sotto i Visconti poi sotto i Borromeo (provenienti dal Lago Maggiore) e quindi
sotto il Ducato di Milano, con tutto quello che ne consegue per circa 800 anni
abbondanti di storia unita come territorio.
I Visconti e poi i Borromeo governarono e possedettero le
terre appartenute al re dei Longobardi Desiderio, in seguito all'imperatore
Federico Barbarossa, situate intorno al lago Maggiore, che costituirono, tra il
XIV° e XV secolo, lo "Stato Borromeo", vasto più di mille chilometri
quadrati, con Arona ed Angera sedi del conte e marchese. Collocato al limite
nord-occidentale del ducato di Milano e confinante con la Svizzera, ricco di
cave (Candoglia costruzione Duomo di Milano), ulivi, vigneti, alberi da frutta,
mulini, caccia e pesca conquistò un determinante ruolo strategico per il gran
numero di siti fortificati, la disponibilità di un esercito locale, il sostegno
dell'aristocrazia del posto. Il vasto feudo ebbe una lunga vita e solo
l'occupazione napoleonica nel 1797 riuscì a smantellarlo.
I Borromeo, però, conservarono il patrimonio immobiliare e
lo conservano tutt'ora vedi Isole Borromee e Mottarone con impianti sciistici
privati e strada a pagamento.
I Savoia non sono italiani e nemmeno del
Nord Italia.
I Savoia sono in tutto e per tutto di origine e di stirpe
francese e tali rimangono sempre e lo sono ancora oggi, in tutto per tutto, per
mentalità, lingua, pensiero, cultura e modi di agire.
Non sono “italiani”, non sono piemontesi, veneti, lombardi o
trentini, diciamo del Nord Italia. Sono sempre stati un ramo diciamo “sfigato”,
in cerca di nobiltà, terre e visibilità. Assurti a dignità reale solo nel
XVIII° secolo, la loro origine è attestata sin dalla fine del X° secolo nel
territorio del Regno di Borgogna, dove venne infeudata della Contea di Savoia,
elevata poi a Ducato nel XV° secolo.
Sono nati come feudatari Biancamano, attorno all'anno Mille,
con le contee di Savoia di Belley e Sion al disgregarsi del regno di Borgogna
(1032) si schierarono dalla parte di Corrado II° ottenendone in premio la
contea di Moriana in Val d'Isère e il Chiablese. Tutte tra la Francia e la
Svizzera.
I Savoia con Carlo II° tra l'altro aderirono alla Lega di
Cambrai, con gli Asburgo, Luigi XII° di Francia, gli spagnoli, il papato, i
Gonzaga, gli Este contro La Serenissima Repubblica di Venezia.
Solo nel tardo Cinquecento spostarono il loro interessi
territoriali ed economici dalle regioni alpine verso la penisola italiana, come
testimoniato dallo spostamento della capitale del ducato da Chambéry a Torino
nel 1563.
I Savoia con Vittorio Amedeo II° parteciparono
vittoriosamente alla guerra di successione spagnola: nel 1714, in virtù del
Trattato di Utrecht, il duca ottenne la corona del Regno di Sicilia e fu
incoronato re a Palermo. Nel 1720, come concordato con il trattato di Londra
del 1718, Vittorio Amedeo II° lasciò il trono di Sicilia in cambio di quello di
Sardegna, mantenendo il titolo regio.
Alla vigilia dell’Unità, il Regno Sabaudo guidato da Cavour
comprendeva il Piemonte (con Ossola, novarese, vercellese presi dopo la caduta
di Napoleone 1815), la Savoia, la Val d'Aosta, la Sardegna, la Liguria con
Nizza ed una piccola parte della Lombardia con il comprensorio di Voghera, per
capirci meglio l'Oltrepò Pavese.
Importante capire anche come si arrivò al Plebiscito, cioè
dopo le pesanti sconfitte dei Savoia (italiani), a Custoza il 24 giugno e nelle
acque di Lissa il 20 luglio 1866.
Proprio a causa delle mancate vittorie, il Veneto e parte
della Lombardia non furono conquistate sul campo dall’Italia ma vennero cedute
da Vienna alla Francia (l’imperatore Napoleone III aveva assunto il ruolo di
mediatore) e da quest'ultima “girate” al Regno d’Italia, procedura non poco
umiliante che fu accettata dal governo di Firenze, presieduto da Bettino
Ricasoli, dopo non pochi tentennamenti e polemiche.
Non che all’Italia restassero molte alternative: la Prussia,
una volta battuta l’Austria a Sadowa (3 luglio) che ne aveva sancito la
preminenza all’interno della Confederazione tedesca, aveva raggiunto il suo
obiettivo e non aveva alcun interesse a continuare la guerra.
Il governo italiano e il re Vittorio Emanuele II° avrebbero
certo potuto scegliere di combattere da soli. Ma era difficile pensare di
sostenere senza aiuto lo scontro con un impero che, per quanto in decadenza,
era comunque molto più grande del neonato stato italiano. Quindi fu plebiscito
(voluto da austriaci e francesi per dare legittimità alla cessione), con seggi
in tutte le principali città del Veneto: a Venezia gli uffici elettorali
rimasero aperti dalle 10 alle 17.
Il voto fu a suffragio elettorale maschile. Nel bando di
convocazione alle urne si specificava che "saranno ammessi a dare il
loro voto tutti i Cittadini che hanno compiuti gli anni 21, che sono
domiciliati da sei mesi nel Comune e, meno le donne, non è escluso che chi subì
condanna per crimine, furto o truffa".
Il cancelliere di ferro Otto von Bismarck
disse al principe ereditario Umberto:
"Voi italiani
siete il popolo delle tre S: con Solferino avete preso la Lombardia, con Sadowa
avete preso il Veneto, con Sedan avete preso Roma. E nessuna delle tre S è
stata opera vostra".
Aveva e ha perfettamente ragione. Carlo Cattaneo
sottolineava come nel 1849 il Lombardo-Veneto, con un ottavo della popolazione, forniva da solo un terzo delle entrate
fiscali dell’Impero.
"Quando scoppia la ribellione del marzo 1848, Milano
segue o anticipa le altre capitali d’Europa. Non si parla per niente di Italia
e nessuno parla di rivoluzione. Semplicemente Milano si ribella e si fa
rispettare in nome delle libertà civili".
Studiosi di storia economica hanno accertato, spulciando per
anni archivi pubblici e privati e rapporti delle camere di commercio venete,
che dal 1818 in poi Vienna attuò una politica doganale che mise le industrie
cotoniere e laniere lombarde e venete alla mercé della concorrenza dei panni
della Boemia e della Moravia, peraltro smaccatamente favoriti anche in materia
di forniture militari. Insomma è la stessa solfa da sempre.
Il Lombardo-Veneto era una delle aree più avanzate e
illuminate del regno, si voleva solo un po' più di autonomia da Vienna e per
nulla finire sotto i Savoia (sempre osteggiati da Cattaneo e non solo), ma
peggio ancora evitare di finire nelle mani della Chiesa.
Ricordando che nelle zone insubri della Lombardia non c'è il
rito cattolico-romano, ma ambrosiano.
"In tutte le regioni malgovernate d’Italia si fanno
plebisciti entusiasti dell'unificazione d’Italia: in Lombardia non si fa nulla.
Non sono stati i Lombardi ha volere una Italia unita; se i Piemontesi erano più
poveri e arretrati di loro, perchè desiderarli quali nuovi padroni? Indire un
plebiscito in Lombardia sarebbe stato pericoloso. "Siamo i più ricchi
dell’Impero" scriveva Carlo Cattaneo "non vedo perchè ne dovremmo
uscire".
Ricordando anche che per Garibaldi "i Veneti non si
erano sollevati per conto proprio, neppure nelle campagne dove sarebbe stato
facile farlo". Ricordando sempre che il Re di Sardegna Carlo Alberto di
Savoia, a rivolte praticamente rientrate il 23 marzo 1848, dichiarò guerra
all'Austria. Fu il Regno di Sardegna ad attaccare per primo l'Impero austriaco
e fu sconfitto, perdendo guerra, soldi e territori.
Gli episodi determinanti della prima e seconda campagna
furono la battaglia di Custoza e la battaglia di Novara. Con lombardi, veneti,
trentini spesso contrapposti negli schieramenti, molti inquadrati regolarmente
nelle truppe imperiali austroungariche.
Bisogna sempre ricordare che all'inizio della guerra il
Regno di Sardegna fu appoggiato da Granducato di Toscana, dallo Stato
Pontificio e dal Regno delle Due Sicilie che però si ritirarono quasi subito
senza combattere. Volontari dell'esercito pontificio e di quello napoletano si
unirono tuttavia agli altri volontari italiani e combatterono contro l'Austria.
Il papa si ritirò dal conflitto praticamente dopo 15 giorni poiché l'impero
austriaco aveva minacciato uno scisma, con conseguenti perdite di terreni,
rendite e soldi.
"SI, vuol dire essere italiano ed adempire al voto
dell'Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto
dell'Italia"
Di sicuro il plebiscito del 1866 venne preceduto da una vera
campagna di stampa intimidatoria dei fogli cittadini, preoccupatissimi per
l'influenza che il clero manteneva nelle zone rurali.
Sulla libertà del voto e sulla segretezza dello stesso ci
illumina la lettura di Malo 1866
di Silvio Eupani: "Le autorità comunali avevano preparato e
distribuito dei biglietti col SI e col NO di colore diverso; inoltre, ogni
elettore, presentandosi ai componenti del seggio, pronunciava il proprio nome e
consegnava il biglietto al presidente che lo depositava nell'urna".
Non venne garantito l'anonimato, si votava con urne ben
distinte e con le scritte SI e NO, dove depositare le schede. La votazione
avveniva in sale con i militari e con le armi spianate.
Votò circa il 30% della popolazione ammessa, tra cui
soggetti che non ne avevano titolo, per esempio i soldati "italiani"
di stanza in Veneto, votarono ladri e mariuoli vari che avevano appena ottenuto
uno "svuotacarceri".
E soprattutto, i dati resi noti non possono corrispondere ai
voti reali. I risultati ufficiali il referendum del 21 e 22 ottobre 1866, che
parlano di 647.246 voti favorevoli e solo 69 voti contrari.
Nella lapide del Palazzo Ducale si parla di "Pel SI
voti 641.758", "Pel NO voti 69", "Nulli 273".
Alvise Zorzi in "Venezia austriaca" (pag. 151)
parla di "SI 647.246", "NO 69", Denis Mack Smith
"Storia d'Italia 1861-69" parla di "SI 641.000", "NO
69".
Di fronte a (l'equivalente del 99,9%), chi conosce cosa sia
l'errore statistico sa che l'annessione del Veneto all'Italia fu costruita solo
su un imbroglio. Una percentuale del 99% che non fu ottenuta neppure dai regimi
come quelli di Stalin e Hitler, neppure in Bulgaria ai tempi del PCI, forse
nemmeno si ottiene oggi in Corea del Nord.
Di particolare interesse, le citazioni riportate in un
volume di Bozzini, dove si ritrova la citazione della Gazzetta di Verona del 17
ottobre 1866: "SI, vuol dire essere italiano ed adempire al voto
dell'Italia. NO, vuol dire restare veneto e contraddire al voto dell'Italia".
Una sottolineatura di straordinaria importanza, perchè era
ben chiaro e si era capito che una cosa erano i veneti (e i lombardi) e
un'altra gli italiani e che gli interessi degli uni raramente e storicamente
coincidevano con gli interessi degli altri. Anzi spesso e volentieri andavano a
cozzare.
Una cosa che del resto aveva ben capito Napoleone Bonaparte
quando consigliava al figliastro di non ascoltare chi gli suggeriva di dare a
Venezia un po' più di autonomia, invitandolo, invece, a mandare "degli
italiani a Venezia e dei Veneziani in Italia."
Sono parecchi anni ormai che è un rifiorire di letteratura
revisionista del Risorgimento dice le stesse cose (ed anche peggio) E'
sufficiente leggere: Lorenzo Del Boca (Maledetti Savoia, 1998 - Indietro
Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento italiano, 2003 - Polentoni. Come
e perché il Nord è stato tradito, 2011 - Risorgimento disonorato, 2011),
Michele Topa, Gigi di Fiore, Angela Pellicciari, Denis Mack Smith, Lucy Riall,
Martin Clark e molti altri ancora....
Basta semplicemente leggere "Il Gattopardo" di
Tomasi di Lampedusa o anche vederne il film di Visconti per rendersi conto di
cosa sia successo veramente in quell "operazione democratica".
......
Qua non si tratta di vivere il presente come se fossimo nel
passato.
Caso mai è il passato che è causa dei danni presenti. E si è
fatto di tutto per nasconderlo, creando una storia artefatta ad hoc.
I documenti ufficiali, i libri di testo, i sussidiari sono
una cosa. Li scrive chi vince, chi è più forte. Poi c'è la storia vera, e solo
negli ultimi 70 anni abbiamo potuto raccontarne delle belle. Pensiamo per
esempio solo a quanto sono state negate le foibe e l'esodo degli
istriano-dalmati. Che non comparivano nei libri di scuola, non potevano essere
citate, raccontate. Sono stati boicottati libri, film e quant'altro, ancora
oggi.
Conoscere il passato per vivere meglio il presente certo.
Serve anche a correggere gli errori fatti antecedentemente.
...
Quando una nazione
perde il contatto col suo passato, con le sue radici, quando perde l'orgoglio
della sua storia, della sua cultura e della sua lingua, decade rapidamente,
smette di pensare, di creare e svanisce.
I Paesi scandinavi per esempio non traducono più nulla nella
loro lingua, leggono tutto direttamente in inglese. Cosa diversa i paesi
baltici che hanno ritrovato la loro identità nel 1991, e ne vanno fieri e fanno
di tutto per mantenerla viva. Molte grandi imprese italiane ormai usano solo
l'inglese e hanno perso il contatto con il proprio territorio, con le radici
della loro creatività. Nel mercato globale tutto si assomiglia: i centri
commerciali, i prodotti venduti, i programmi televisivi, i divi, i modi di
vivere. Arriva tutto gia pensato, catalogato, digerito, omogeneizzato.
Eppure nel corso della storia più che millenaria ci sono
stati popoli che hanno evitato di essere totalmente asserviti, cancellati.
Oggi sono gli anglosassoni che dominano il mondo. Ma anche
la cultura greco-romana è durata quasi un millennio. Quella cinese ha
attraversato crisi gravissime ma è sempre riemersa.
Il popolo ebraico che ne ha passate di tutte, pur essendo
disperso in tutto il mondo e parlando tutte le lingue, ha saputo conservare le
proprie tradizioni, la propria identità e la capacita di pensare, di giudicare,
di decidere. Solo chi conserva fortissima la propria identità è in condizione
di affrontare il mondo globalizzato, di muoversi e di manovrare in esso senza
farsi schiacciare.
Fonte: srs di Gianni Cecchinato, da Dal Veneto al mondo del 8
gennaio 2018
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