Quanto guadagnano, per
chi lavorano e soprattutto: perché non scrivono libri propri?
«Qualche mese fa sono andata a una festa per l’uscita di un
libro di una mia autrice», dice Francesca
Parravicini, ghostwriter, «e all’improvviso mi sono accorta che intorno a
me c’erano tutti i miei personaggi. Almeno… molti. Erano tutte persone di
cui avevo scritto i libri. È stato molto straniante».
Il mestiere di Francesca Parravicini è scrivere libri senza
comparire. Il suo primo libro da ghost – pubblicato da Aliberti nel 2009 – si
intitolava In
viaggio con Alberto. Parole, storie, ricette della buzzicona che incantò il
grande Sordi di Anna Longhi. «È l’unica di cui svelo il nome»,
dice Parravicini, «perché so che ne sarebbe stata contenta».
In sette anni Francesca Parravicini ha scritto una
quarantina di libri, con punte di dieci all’anno, molti dei quali per
Mondadori, firmati da cantanti, attori, magistrati, sportivi, gente
della tv, fotografi, cuochi, insomma da chiunque abbia un po’ di celebrità
da spendere sul mercato. «Quando racconto che mestiere faccio, tutti mi
chiedono perché non scriva libri miei, come se ci potessi vivere. Certo
che scrivo anche cose mie, ma non le divulgo. Penso che alla gente non
interessi. Sono molto riservata e non comparire non mi dà
problemi, anzi: quello che mi piace è entrare nel personaggio e cercare di
restituire la sua voce attraverso la scrittura».
I ghostwriter sono
una categoria professionale invisibile per mandato. Da una ventina d’anni – da
quando, cioè, i libri di celebrities
incominciarono a vendere tanto e prima che, youtuber a parte, le vendite
calassero – la loro importanza in editoria è cresciuta, senza che a questa
crescita si sia tradotto in un maggior riconoscimento. Eppure il loro
lavoro ha creato un genere editoriale nuovo e paradossale, che meriterebbe di
essere considerato a sé: quello dell’autobiografia altrui o, se preferite, della
biografia in prima persona.
La percentuale di libri di persone famose non scritti
da chi li firma è quasi del 100 per cento. È una regola quasi
assoluta per le autobiografie, ma che in genere non vale per
la narrativa – Fabio Volo i suoi romanzi se li scrive da solo,
lo stesso fanno Fossati o Guccini – per i politici che spesso hanno
già chi scrive per loro e per i giornalisti – anche Bruno Vespa, i libri li
scrive da sé.
Ogni casa editrice italiana – media o grande, ma anche
piccola se pubblica varia – ricorre ai ghostwriter spesso e volentieri, perché
garantiscono libri di qualità anche media ma accettabile, che non andrà
riscritto da capo, e si smazzano in solitudine il rapporto, non sempre
facilissimo, con l’autore.
Il problema arriva quando il personaggio famoso in
questione pretende di scrivere o propone un suo ghostwriter di fiducia.
Sono casi rarissimi, ma comportano rischi molto alti. Nella migliore delle
ipotesi, il libro richiederà molto lavoro e cambiamenti tali da offendere
la suscettibilità dell’autore mettendo a rischio il progetto.
La tariffe sono variabili, dipendono da più fattori:
quante copie l’editore spera di vendere, il peso contrattuale del ghost,
la quantità di lavoro necessaria. Con la crisi sono scese. Un libro medio
di una grande casa editrice viene pagato 4-5 mila euro, quelle più
piccole arrivano a offrire anche 1.800-2.000 euro, ma si racconta di libri
scritti per paghe da fame: anche 500 euro lordi per un libro di 200
pagine. Nessuno indica casi concreti, perché in questo campo è
vietato fare esempi e apparire.
I contratti sono di curatela editoriale e
pongono esplicitamente come condizione la totale riservatezza. «La
nostra riservatezza sconfina nell’afasia» è il motto di Perroni e Morli,
una società di servizi editoriali che ha ghostscritto una dozzina di libri su
commissione di editori o su diretta richiesta degli interessati. A meno
che non sia il ghost a proporre il libro e a portare alla casa editrice la
celebrità, non sono previste percentuali sulle vendite, che diversamente sono
sull’1-2 per cento del prezzo di copertina. Per ogni copia venduta di – poniamo
– un libro che costa 20 euro, chi l’ha materialmente scritto prenderà
20-40 centesimi. Per fare un libro un ghost bravo impiega – compatibilmente con
l’inseguimento del famoso di cui scrive – due o tre mesi.
Negli ultimi anni – probabilmente anche sull’onda
del successo di Open di
André Agassi scritto dal giornalista premio Pulitzer J. R. Moehringer e
arrivato in Italia a più di 500 mila copie – molti editori, Mondadori in
testa, stanno provando ad aggiungere firme di
rafforzo: Gianni Riotta ha intervistato
Xavier Zanetti dell’Inter, il telecronista Alessandro Alciato ha
cofirmato il
libro di Carlo Ancellotti, lo scrittore Enrico Brizzi quello del
ciclista Vincenzo Nibali, mentre il
libro di Arrigo Sacchi è un’intervista allo scrittore Guido Conti
e quello di
Francesco Moser è firmato anche da Davide Mosca.
Quando il ghostwriter esce dall’anonimato, i confini del
mestiere sfumano, ma anticipi e royalties crescono, in alcuni casi anche sopra
i 10 mila euro. Il problema è che, almeno fino a oggi, di veri successi in
Italia non ce ne sono stati. L’unicità della persona famosa – l’aura,
avrebbe detto Walter Benjamin – non va intaccata da altre presenze.
«I libri di autori famosi per me rappresentano il corpo simbolico
dell’autore», dice un editore che non ha nessuna voglia di essere citato per
nome e cognome, «e chi li compra vuole portarsi a casa un pezzo di questo
corpo simbolico. Rivelare il nome del ghost ne indebolisce il
valore. Per questo in genere gli editori preferiscono che non compaia». Quando
succede – come nel caso dell’autobiografia di
Loredana Bertè scritta dal giornalista Malcolm Pagani – è
perché il nome di un giornalista può aiutare il libro a entrare nel circuito
delle recensioni, che altrimenti non avrebbe. «Ma che compaia o no, chi scrive
un libro autobiografico non lo considero un ghost», dice sempre l’anonimo
editore, «è un mnemagoghi, uno che sa tirare fuori i ricordi e fa
venire voglia di ricordare. È un co-autore perché senza la
combinazione di quelle due persone il libro non potrebbe esistere».
Nella nostra idea della scrittura e della fama
sopravvive un certo residuale feticismo di derivazione romantica. I
libri tendono ancora a essere concepiti, cioè, come creazioni di
autori singoli, anche se il mestiere di scrivere – in politica, in
televisione, nel cinema e perfino in editoria – è sempre più, e forse un po’ è
sempre stato, un’attività collettiva che prescinde dall’esistenza effettiva di
un unico autore.
All’inizio del Novecento la maggior parte dei libri per
bambini pubblicati negli Stati Uniti erano scritti da una sola persona: Edward
Stratemeyer, un autore di libri di avventure che, come ha
scritto il New Yorker, fece per
l’editoria per ragazzi quello che Henry Ford avrebbe fatto per le
automobili. Stratemeyer creò un impero editoriale fabbricando decine di
serie di successo firmate con pseudonimi diversi e scritte da squadre
di ghostwriter al suo comando e secondo formule fisse – le più famose si
intitolavano The Rover Boys, Hardy Boys, Nancy
Drew.
Qualcosa di simile – secondo il sito Priceonomics –
succede oggi con autori di bestseller come Tom Clancy e James Patterson, i
cui libri sono scritti da squadre di scrittori.
Nel 1994 l’editore inglese William Heinnemann ebbe un’idea ancora più radicale: incaricò
Caroline Upcher, editor della casa editrice, di scrivere un
romanzo ambientato nel mondo della moda, e poi pagò Naomi Campbell
per firmarlo. (Il libro si intitola Swan, Cigno,
in Italia fu pubblicato da Mondadori). «L’idea era comprare il
nome», ha
detto Caroline Upcher al Guardian, nello stesso modo
in cui una casa di moda ingaggia una top model o un marchio un
testimonial. In Italia non succede niente di paragonabile, la
narrativa è ancora in grandissima parte scritta da singoli autori, che al
massimo possono affiancati da collaboratori messi a disposizione
dalla casa editrice. Con la parziale e possibile eccezione di
alcune saghe fantasy o romanzetti di genere in serie – di cui
nessuno però fa i nomi – il ghostwriting è una questione di
autobiografie di gente famosa (imprenditori compresi).
Una delle difficoltà maggiori del mestiere di
ghostwriter è che non esiste un metodo di lavoro fisso,
perché bisogna adattarsi alle esigenze e disponibilità del sedicente
autore. «La situazione gold standard è che ti permettano di
passare tre, quattro giorni insieme di fila nei posti e con le persone con
cui vivono», dice Parravicini, «altrimenti sei costretto a inventare, e non è
mai la stessa cosa. La situazione peggiore è quando la casa editrice ti
chiede di rimettere le mani in testi già scritti ma impubblicabili, perché
poi si apre un lavoro molto delicato con gli autori». Scrivere l’autobiografia di un’altra persona –
per quanto in genere i libri dei famosi non entrino in dettagli
intimi – è un lavoro delicato che consiste, essenzialmente, nel capire come il
cliente vede se stesso e deve necessariamente basarsi su un rapporto
personale.
«Sul rapporto devi lavorare prima, altrimenti è
finita», dice Parravicini, «ho autori che dopo la pubblicazione mi chiamano
anche due volte a settimana per sapere come va. Quello con l’autore è un
rapporto breve, ma intenso e può continuare anche dopo. Una mia
autrice, oggi, è una delle mie migliori amiche». Non capita mai che chi si vede
raccontato in prima persona dalle parole di un altro abbia un senso di
espropriazione di sé? O che si offenda per qualche motivo? «È raro, ma può
succedere. La cosa più complicata che mi sia successa», racconta, «è
stato lavorare con una donna che alla fine, mentre rileggevamo quello
che avevo scritto, cercava sinonimi pur di riappriopriarsi del testo».
Il libro conserva una forte carica simbolica e
identitaria. Accanto alle grandi case editrici e agli autori famosi, esiste
infatti anche un ghostwriting diffuso che si rivolge a chi desideri vedere
un libro stampato a proprio nome, ma non si ritiene in grado di scriverlo.
Un’attività che sconfina con il self publishing e
che dice quanto il libro – nonostante i social network – conservi una
funzione centrale nella comunicazione di sé.
Su Internet, probabilmente anche a causa della crisi,
esistono decine
di società editoriali che offrono servizi di ghostwriting
a chi ne facciano richiesta. I clienti non devono essere pochi.
Sul sito di Bozzerapide di
Podenzano, Piacenza – una società editoriale scelta a caso tra
le tante – c’è un calcolatore
di preventivi automatico: farsi scrivere, editare e correggere
un testo «di buona qualità» per un libro di 240 pagine costa 4.320
euro IVA inclusa (scontati da 6 mila). Il tempo previsto per la consegna è
di 384 giorni. «I nostri clienti sono privati o imprenditori più
che case editrici», dice Beniamino Soressi che dirige l’agenzia editoriale,
«Diversi clienti sono persone che vorrebbero scrivere la propria biografia,
spesso per poi stamparla e lasciarla in eredità ai discendenti. Ci sono
aspiranti autori alle prime armi o che hanno un “blocco” oppure persone che
ritengono di avere avuto una bella idea su una trama ma non sentono di avere la
maturità stilistica e le capacità narrative necessarie. Oppure ci
sono gli imprenditori che intendono scrivere una biografia aziendale, dove
intrecciano la loro vita personale alla storia della loro azienda».
Il settore più fantasmatico e invisibile del mondo
ghostwriting è proprio il business. Un mondo a sé, circondato dal mistero e
protetto dalla riservatezza di chi scrive e di chi pubblica. Si va dalle
autobiografie ispirazionali di imprenditori che vogliono diventare famosi in
tutto il mondo – come Richard Branson e Donald Trump – ai libri commissionati
da uomini d’affari desiderosi di consolidare la propria immagine nel settore in
cui operano usando il libro come un biglietto da visita per dimostrare la
propria importanza (nel Cinquecento la stessa funzione la facevano i ritratti
commissionati a pittori famosi).
Dice Roberto Race, il fondatore di The Ghost Team, un’agenzia di
comunicazione e ghostwriting presente a New York, Londra, Bruxelles, Dubai e
Roma: «La nostra è la micro-micronicchia dei libri aziendali o di vision,
cioè quelli in cui un imprenditore racconta la sua storia di successo e la sua
visione del suo settore. Il mio cliente tipo capisce che all’interno della sua
strategia corporate di comunicazione lo strumento libro è
utile, anzi centrale. Ma sa anche che deve lavorare sui contenuti e che il
libro è la conclusione di un processo che parte dai blog e dagli articoli per i
giornali».
Nonostante sia una micro-micronicchia, Ghost Team ha sede a
Londra, ha una cinquantina di collaboratori, tra scrittori grafici, traduttori,
e cura una quarantina di “progetti” all’anno in più lingue – «i libri escono
almeno in inglese e nella lingua madre dell’imprenditore, ma io consiglio
sempre anche l’arabo».
Il giro d’affari – dice Roberto Race – è di 1,5 milioni di
euro all’anno. Chi fa un libro con Ghost Team è disposto a spendere dai 30 mila
fino ai 100 mila euro – il 30-40 per cento in meno delle agenzie americane
concorrenti – di cui il ghost prende dai 5 mila ai 30 mila, a seconda del
lavoro da fare e del nome che porta (anche se è invisibile). «Ci sono clienti
che sentono la fascinazione per la firma ghost. Quindi tra i nostri
collaboratori ci sono anche persone note, un ex ambasciatore, firme di giornali
importanti, e prima che il libro vada in stampa spesso chiediamo un parere e
magari una prefazione a un direttore di giornale».
Race ci tiene a chiarire, però, che l’approccio e l’etica
sono anglosassoni: a differenza di quanto – dice – accade in Italia, il
lavoro di chi scrive materialmente il libro si esaurisce nel libro, che
non è una scusa per assicurarsi articoli benevoli o di elogio in futuro.
La motivazione dell’imprenditore che si rivolge a Ghost
Team non è la vanità – o almeno, non soltanto – è costruire
e comunicare la propria immagine e quella dell’azienda nel mondo: «Se per
esempio uno dirige una grande società dell’energia, racconterà dove secondo lui
sta andando il mercato dell’energia, farà l’evangelizzatore sul suo settore».
In questo contesto gli editori si trovano alla fine del processo, ma non
vi prendono parte. Si limitano, se capita, a raccoglierne i frutti.
«La casa editrice non paga niente, fa il lavoro di editing se è il
caso, stampa e distribuisce almeno la prima tiratura, ma in realtà ne potremmo
fare a meno». È più una questione di marchio.
Ma chi sono gli editori a cui vi rivolgete? «Grandi
editori, in tutto il mondo, anche in Italia dove però il mercato non è maturo
(per noi rappresenta il 20-25 per cento del totale). È che ho il
potere contrattuale di scegliere l’editore che mi sembra più adatto. È
un settore anomalo in cui l’autore è interessato a comprare migliaia
di copie dei libri che firma. Che cosa vuole che sia per uno che
è a capo di una multinazionale comprarsi 6 mila copie del suo libro
da regalare a dipendenti, buyers e stakeholders?».
Fonte: da il Post.it del 10 maggio 2016
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