di MONALDO LEOPARDI*
Un piacevole scritto di Monaldo Leopardi (1776 – 1847),
padre del ben più famoso Giacomo (1798 – 1837), sull’uguaglianza. Tratto da
“Catechismo filosofico per uso delle scuole inferiori”.
Discepolo.: è
vero che tutti gli uomini sono uguali, come ci assicurano i filosofi
liberali?
Maestro.: Prima
di rispondervi, voglio farvi io stesso alcune interrogazioni.
M.:È vero che
tutti gli uomini sono d’una altezza medesima?
D.: Signor no,
perché altri sono alti, altri mezzani, altri bassi e questa è la disposizione
della natura.
M.: è vero che
tutti gli uomini hanno una medesima sanità ed una medesima forza?
D.: Signor no,
perché alcuni sono sani, altri infermi, alcuni sono deboli ed altri gagliardi e
questo pure è un altro ordinamento della natura.
M.: è vero che
tutti gli uomini sieno di una medesima capacità, talento e ingegno?
D.: Signor no,
perché alcuni sono ingegnosi, altri dotti, alcuni sono stupidi, altri sono
ignoranti e questo pure è un ordinamento della natura.
M.: è vero che
tutti gli uomini sieno ugualmente saggi, virtuosi e benemeriti?
D.: Signor
no, perché alcuni sono saggi, altri scioperati, altri virtuosi, altri malvagi,
alcuni meritano il rispetto e la lode, altri meritano la galera e la forca e
questo pure è secondo l’ordine della natura.
M.: Dunque
l’uguaglianza è anch’essa una frottola spacciata dalla filosofia moderna e gli
uomini non eguali bensì diseguali per ordine e disposizione della natura.
D.: I filosofi
non hanno mai detto che gli uomini sieno uguali di statura, di forza, di sanità
e di ingegno: e quella che si vuole dalla filosofia è un’uguaglianza di altra
sorta.
M.: Se gli uomini
sono disuguali in tutto ciò che riguarda il corpo e lo spirito e questo è per
disposizione della natura, sarà difficile renderli uguali sotto altri rapporti
senza contrastare con gli ordini della natura. Nulladimeno dite un poco, in che
cosa potrebbero essere uguali gli uomini, per contentare la filosofia?
D.: Potrebbero
essere uguali nelle proprietà e nelle sostanze, sicché al mondo non ci fossero
né ricchi né poveri e sopra la terra ognuno avesse la sua giusta porzione di
beni.
M.: Signor no,
che questo non può essere, e dove volesse tentarsi si andrebbe contro la
disposizione della natura. Imperciocché supposto ancora che per un momento si
potesse fare uno scomparto uguale di beni assegnandone a ciascheduno la sua
parte, ben presto la porzione dell’uomo accorto si vedrebbe conservata e
migliorata e quella dello spensierato si vedrebbe decaduta e
dilapidata; l’uomo robusto e sano guadagnerebbe con le sue fatiche e
accrescerebbe le proprie sostanze e l’uomo infermo e debole dovrebbe vendere le
sue per non morire di fame; il figliuolo unigenito erediterebbe tutta la
sostanza del padre, e il padre di dieci figliuoli dovrebbe dividere la
sostanza propria in dieci parti: così in capo a pochi giorni l’uguaglianza
dello scomparto sarebbe guastata e si tornerebbe alla primiera disuguaglianza. Volendosi
dunque conservare l’uguaglianza, bisognerebbe ogni sera tornare da capo allo
scomparto, rubare il suo a chi ha per darlo a chi non ha, favorire i
dissipatori e gli oziosi discoraggiando gli operosi e frugali e rovesciare da
capo a fondo tutte le ragioni della giustizia e tutti gli ordini della società.
Non potendosi far questo, è d’uopo lasciare al mondo la disuguaglianza dei
beni: e poiché la disuguaglianza dei beni procede dalla disuguaglianza delle
forze e degli ingegni la quale è ordinata dalla natura, è d’uopo confessare che
anche la disuguaglianza dei beni procede dal comando e dall’ordinamento della
natura.
D.: Dite bene, e
se vogliamo confessare la verità, pare che la disuguaglianza dei beni si
accomodi a meraviglia ancora con la filosofia, giacché i filosofi liberali non
si contentano della parte loro e fanno quanto possono per pigliarsi ancora
quella degli altri. Sarà dunque che gli uomini debbano essere uguali nel grado
e nella condizione?
M.: Signor no,
che neppur questo è vero e la disuguaglianza delle condizioni e dei gradi è
anch’essa secondo l’ordine della natura. Imperciocché primieramente, se
nell’ordine sociale è necessario che vi sieno principi e magistrati per
comandare e ministri superiori e inferiori per aiutarli nella loro gestione e
per eseguire i loro comandi, questi magistrati e questi ministri costituiranno
necessariamente gradi e condizioni diverse nelle società e non potrà farsi
che la condizione del giudice sia come quella dello sbirro e la condizione del
vescovo sia uguale a quella del campanaro. Secondariamente, se è per ordine
della natura che vi sia fra gli uomini la disuguaglianza delle ricchezze e
quindi la disuguaglianza dello splendore e del fasto, dell’educazione e della
coltura, è naturale che debba esservi ancora la disuguaglianza della condizione
e dei gradi, e non potrà farsi che la condizione di un gran signore sia come
quella del fabbro, e la condizione di un avvocato e di un medico sia come
quella di un beccamorti. Per ultimo, se è per dettato della natura che vi siano
principi e magistrati, ricchi e pezzenti, ignoranti e dottori, sarà ancora
naturale che la stima, il rispetto e gli omaggi del popolo distinguano una
classe dall’altra; e non potrà farsi che il comune degli uomini ravvisi in
un medesimo grado e in una condizione medesima il sapiente che lo ammaestra
dalla cattedra e il montanaro che vende cald’arroste, il grande che passeggia
in carrozza e il facchino che spazza la strada. E poiché la disuguaglianza dei
gradi e delle condizioni procede da quelle disuguaglianze originali che vennero
stabilite fra gli uomini dalla natura, è d’uopo riconoscere che anche la
disuguaglianza nella condizione e nei gradi è dettata e comandata dalla natura.
D.: Dite bene, e
bisogna accordare che la disuguaglianza delle condizioni e dei gradi è secondo
l’ordine della natura. Almeno però gli uomini dovranno essere uguali in faccia
alla legge?
M.: Questa è una
proposizione confusa della quale sogliono servirsi i filosofi liberali e prima
d’approvarla è d’uopo dichiararla bene, acciocché non se ne tirino
conseguenze false e spropositate. La legge, per essere utile e giusta, deve
essere adattata alle circostanze, e siccome sono varie e disuguali le
circostanze e le condizioni degli uomini, così la legge non potrebbe essere né
utile né giusta se non fosse proporzionata alle disuguaglianze degli uomini.
Quella legge la quale senza riguardo alla ricchezza e alla povertà, alla
debolezza e alla gagliardìa imponesse a tutti gli uomini uguaglianza di lavoro
e di tributo, sarebbe una legge ingiusta, perché il dovizioso e il mendico,
l’infermo e il robusto non possono considerarsi uguali in faccia alla legge.
Così quella legge la quale punisse ugualmente il gettito di un pugno di fango
contro un facchino e il gettito di un pugno di fango contro un gran signore,
sarebbe ingiusta, perché il facchino da quel pugno riceve un oltraggio
leggiero, laddove il grande ne riceve un’onta gravissima; e le convenienze di
un facchino e di un gran signore non possono considerarsi uguali in faccia alla
legge. Qualora si considerassero singolarmente tutti gli ordini e i rapporti
sociali, si troverebbero in essi moltissime disuguaglianze consimili
raccomandate dalla ragione e dalla natura: perloché se i filosofi moderni,
dicendo che tutti gli uomini devono essere uguali in faccia alla legge,
intendono sostenere che la legge deve essere cieca come una talpa e dura come
un pilastro, senza adattarsi e proporzionarsi alle circostanze e alle
disuguaglianze degli uomini; l’assertiva dei filosofi è una menzogna e non è
vero che gli uomini sieno uguali in faccia alla legge. Se poi si intende che a
tutti gli uomini si debba secondo la legge amministrare ugualmente e
imparzialmente la giustizia, questo è verissimo e non lo contrasta nessuno.
D.: Dunque almeno
tutti gli uomini dovranno essere uguali in faccia alla giustizia?
M.: Sì, come vi
ho detto, questo è verissimo: ma tale uguaglianza si gode da tutti gli uomini
in tutto il mondo civilizzato e non c’era bisogno che si sfiatassero a
predicarla i filosofi liberali. Presso tutte le nazioni civilizzate la
proprietà del povero è sacra come quella del ricco, la sicurezza del debole è
garantita come quella del forte e la vita dell’umile è difesa come quella del
grande; e se talvolta si vedono parzialità odiose ed ingiuste, queste sono il
peccato dell’uomo e non il difetto delle istituzioni e delle leggi.
D.: Mi pare che
diciate bene e che, per disposizione della natura, gli uomini debbono essere
disuguali in tutto, godendo solamente uguaglianza in faccia alla giustizia, la
quale uguaglianza, poco più poco meno, si trova nell’ordinamento di tutti gli
stati. Ma se con un poco di raziocinio si disconosce tanto facilmente che
l’uguaglianza è un delirio, come mai i filosofi liberali si ostinano a
predicare e inculcare l’uguaglianza generale degli uomini?
M.: I filosofi
liberali, almeno quelli di oggidì, conoscono benissimo che l’uguaglianza è una
chimera, ma se ne servono per adulare e suscitare le passioni del popolo. Il
volgo conosce per una parte, che tutti gli uomini devono essere uguali in
faccia alla giustizia, e poiché qualche volta soggiace o crede di soggiacere
all’aggravio della prepotenza e della parzialità, mette facilmente a carico
delle istituzioni e delle leggi il difetto e la prevaricazione dei magistrati: e,
d’altra parte, trovandosi nella bassezza e nella povertà, non si cura di
considerare che l’umiltà di certe classi è necessaria alla composizione
naturale e sociale del mondo, come le pietre seppellite nella profondità delle
fondamenta sono necessarie alla elevazione dell’edifizio e si abbandona
facilmente ad invidiare le classi sublimi. I filosofi, dunque, predicando
l’uguaglianza e lusingando gli affetti del volgo, lo spingono all’odio contro i
grandi e contro i governi, e lo riducono a mettere sottosopra il mondo,
quantunque sappiano che dopo la rivoluzione il volgo resterà più povero e più
disuguale di prima. Ed ecco la buona fede dei filosofi liberali.
Monaldo Leopardi
[1] M. Leopardi, “Catechismo filosofico per uso
delle scuole inferiori”, pp. 13 – 17, Stamperia Reale, Napoli, 1857.
Fonte: http://vonmises.it
IL PENSIERO REAZIONARIO DI MONALDO
LEOPARDI, AVVERSO ALLA COSTITUZIONE
Il pensiero reazionario di Monaldo Leopardi, avverso alla
Costituzione
Di Angelo Martino
Monaldo Leopardi, padre del più famoso Giacomo, era talmente
reazionario che, vestirsi di nero e portare la spada come i cavalieri antichi,
era per lui una maniera di evidenziare l’immutabile ordine sociale dell’Antico
Regime da ostentare anche esteriormente. Per lui le disuguaglianze sociali era
legittimate dalla monarchia assoluta, secondo un disegno di Dio, che legava
indissolubilmente il Trono all’Altare.
Scriveva nelle sue memorie: ” all’età di diciotto anni mi rivestii tutto di nero, e così ho vestito e sempre vesto, sicché chiunque non mi conobbe fanciullo, non mi vide coperto di altro colore. Portai la spada ogni giorno come i Cavalieri antichi e fui probabilmente l’ultimo Spadifero dell’Italia, finché, nel 1798, sotto il governo Repubblicano questo vestito nobile e dignitoso decadde”.
Il suo pensiero reazionario lo portava a rifiutare e combattere con il suo lavoro di scrittore anche la monarchia costituzionale con “una mitraglia di piccoli scritti “, come si vantava, soprattutto dopo gli eventi francesi del 1830 che portarono alla concessione della Costituzione da parte di Luigi Filippo d’Orléans.
Il pensiero di Monaldo Leopardi è ben condensato in uno scritti a cui diede il titolo di “Dialoghetti”, nella cui prima parte esprimeva considerazioni legittimiste contro la stessa Costituzione, reclamata in quegli anni non solo in Italia, ma in tante nazioni liberali d’Europa.
E’ proprio Europa il nome del personaggio a cui Leopardi affida le sue idee. Infatti, Europa, replicando alla Francia, dove era stato concesso la Costituzione, esprime tale pensiero: ” Figliuola mia, l’autorità dei re non viene dal popolo, ma viene a dirittura da Dio. […] il popolo deve ubbidire a tutti i comandi del re, e questa è la gran carta, scritta con la mano di Dio, e stampata col torchio della natura”.
La carta a cui si riferisce Monaldo Leopardi è ovviamente la carta costituzionale, in quanto per lui era impensabile che il popolo potesse aver diritto ad una costituzione che concedesse di eleggere i propri rappresentanti al Parlamento, anche in una versione di monarchia costituzionale.
Ancora più grave si mostrava, per Leopardi, il fatto che nella nuova costituzione concessa da Filippo d’Orléans ai francesi non si facesse alla religione di stato, alla tradizione dinastica, al diritto divino dei re di governare secondo il principio del volere immutabile di Dio.
Pur con garbo, il conte Leopardi comunicava che tale alleanza trono-altare si mostrava legittima non solo per la religione cattolica e i re cattolici, ma anche per le altre religioni. Quindi una difesa ad oltranza della Restaurazione, che anch’essa si personifica per esprimere direttamente il contenuto del pensiero reazionario.
Nell’ultima parte dei Dialoghetti Leopardi irride con ironia al liberalismo, alla libertà e alla costituzione tramite i personaggi di Pulcinella e del Dottore, con Pulcinella che chiama costipazione la costituzione e con un attacco alla carta costituzionale, secondo il principio certo non giusto, ma considerato da una prospettiva reazionaria, di una concessione dell’espressione del voto solo ad una minima parte della popolazione.
Il successo dell’opera fu travolgente; in cento giorni se ne stamparono sei edizioni e fu letta in tutta Europa, per cui si mostrava reagire da parte del pensiero liberale e costituzionale, e fu un ex sacerdote, Félicité De Lammennais, a confutare il pensiero del conte Leopardi, per comunicare come cristianesimo e liberalismo fossero invece complementari e che, se la rivoluzione più profonda fu l’avvento del cristianesimo, in quegli anni della prima parte dell’Ottocento, si stava producendo “ una sua continuazione”, in quanto “ il principio dell’uguaglianza davanti a Dio doveva necessariamente generarne un altro”, ossia l’uguaglianza degli uomini fra di loro, l’eguaglianza sociale.
Angelo Martino
Fonte: srs di Angelo
Martino, da CDP Cultura e cronaca
dall'Agro Caleno del 27 aprile 2016
Nessun commento:
Posta un commento