ALTARE DI S. FRANCESCO O DELLA TORRE. Con
pala di Giambattista Bellotti (prima metà XVIII sec.) raffigurante la
Vergine col Bambino e S. Francesco. Sotto la mensa, le reliquie dell’eremita S. Gualfardo
morto a Verona nel 1127; CHIESA
DI SAN FERMO, VERONA
EPOCA II - CAPO XVIII
SOMMARIO. - Chiese in
città e nel territorio - Parrocchie in città e nel territorio: le « Plebes » -
Attribuzioni dei «Plebani » - Vita comune - Monastero di S. Zeno - S. Maria in
«organo » - Ss. Nazaro e Celso - Ss. Fermo e Rustico - S. Giorgio in Braida -
SS. Trinità - Monastero della Vangadizza - Ospedali - S. Gualfardo.
Nonostante le turbolenze religiose e politiche di questi tre
secoli, abbiamo prove sufficienti a dimostrare che nei medesimi secoli era ben
radicata e vigorosa la vita cristiana in Verona e nel suo territorio.
Frutto di questa vita sono le molteplici chiese erette in
quest'epoca. Della città, a quanto riferisce lo Stato personale, oltre le quarantotto chiese già
esistenti verso la metà del secolo X, altre diciotto furono erette dalla metà
del secolo X fin verso la fine del secolo XII.
La « ecclesia sancti
Benedicti» è nominata in un diploma (non del tutto certo) di Corrado II l'anno 1036; così pure in un
breve di Gregorio VII dell'anno
1078, ed in altro di Callisto II
dell'anno 1124: pare che fosse officiata da monaci benedettini (1). Anche la chiesa di S. Matteo risale al secolo XI, essendo
nominata in un atto di donazione fatta il 30 ottobre 1105 da Gisla col suo figlio Magnifredo a favore del monastero di S. Maria
Pomposa (2). Alla stessa epoca
appartiene la chiesa di S. Cecilia,
che con breve di Callisto II dato
l'anno 1122 fu confermata ai canonici della cattedrale. Anche la chiesa
dei SS. Simone e Taddeo, che era nel vicolo dietro la chiesa di Giovanni in foro, si trova nominata in un
documento del 6 aprile 1141(3). E così potremmo enumerare parecchie altre,
oltre quelle già esistenti all'epoca del Ritmo
pipiniano.
Della molteplicità delle chiese erette nel territorio
abbiamo una prova evidente nella bolla Piae
postulatio voluntatis data dal pontefice Eugenio III il 17 maggio dell'anno 1145.
Vi sono determinate col proprio nome ben cinquantacinque chiese plebane (Plebes) esistenti nel territorio
veronese, altre dieci chiese col
proprio nome, ed inoltre moltissime altre chiese e cappelle con la forma
indeterminata « cum ecclesiis et
cappellis suis ». Certamente
spettano a quest'epoca le chiese di S.
Michele in Flexio, S. Pietro di Mauratica, S. Pietro di Albutiano, di
S. Sofia nella valle veriaca (Negrar), S. Pietro di Calavena, di S. Severo di Bardolino, S. Giusto di Castelrotto ed altre (4).
In quest'epoca abbiamo i primi indizii della formazione
delle parrochie. In città le parrochie furono di certo costituite più tardi che
nel territorio.
Nei secoli IX-XI troviamo una forma limitata di
giurisdizione parrocchiale nelle chiese di S.
Stefano, S. Giovanni in Valle, di cui nell'anno 1025 era arciprete un certo
Martius Tabella, e forse anche
quella dei SS. Apostoli: queste
chiese avevano il fonte battesimale, e quindi i loro « presbyteri » avevano il diritto di battezzare: ma la piena
giurisdizione parrocchiale per il foro esterno risiedeva tutta nel vescovo, che
uffici ava nella chiesa cattedrale: per trovar in città le parrocchie
propriamente dette ed i parroci con cura l'anime abituale, dobbiamo ancora
attendere per qualche secolo.
Lasciando a parte i placiti dei giansenisti, che
pretendevano essere di origine e di diritto divino l'istituzione delle
parrocchie, e volevano essere i parroci successori immediati dei settantadue
discepoli, ora è cosa storicamente certa che nelle città, ad eccezione forse di
Alessandria e di Roma, non si trovano parrocchie e parroci in senso proprio prima del secolo XI (5).
Perciò anche in Verona
le parrocchie in senso proprio non furono istituite prima del medesimo secolo,
e forse nel seguente. Prima di tutte potrebbe essere quella di S. Stefano, dove antecedentemente era
la residenza dei vescovi; nell'anno 994 essa già era collegiata, e ne era
rettore un certo Davide; nell'anno
1067 Martino ne è detto « archipresbyter »(6).
Ben diversa è la cosa nel territorio fuori città.
Fin dal secolo carolingio, nelle popolazioni di alcuni « vici» apparisce una tendenza a
costituirsi in una specie di corporazioni, dette « plebes », che si vanno lentamente organizzando in una cotal forma
iniziale d'autonomia, di governo popolare, all'infuori delle forme
amministrative officiali.
Presso a poco nell'epoca stessa vediamo costituirsi alcune
corporazioni (plebes) nell'ordine
spirituale, formanti veri corpi morali sotto la direzione immediata di un « presbyter », detto anche « parochus» o « plebanus ».
Come nell'ordine materiale i torbidi carolingici, italici,
germanici, contribuirono allo sviluppo delle «plebes », preparandole così a quella forma autonoma che ebbero
nell'epoca dei comuni, così alla più perfetta formazione delle « plebes » in corpi morali religiosi, non
diremo autonomi, ma certo meno immediatamente e più limitatamente dipendenti
dal vescovo, contribuì l'ingerenza dei vescovi nelle controversie politiche,
per la quale restava paralizzata la loro autorità nel campo spirituale e si
rallentava ogni dì più quel sacro vincolo che dovrebbe legare i fedeli al loro
vescovo.
Nell'ordine materiale un primo germe di corporazione
apparisce nei privilegi, che l'imperatore Ottone
II concesse ad alcuni abitanti di Lazise
(quasi rettori o consoli
delle età successive) con diploma del 7 maggio 983, nella quale concessione
il nostro illustre storico Carlo Cipolla
vede una incipiente organizzazione di una plebe, con una forma qualsiasi di
governo popolare ed un preludio a quelle libertà, che ebbero più tardi il loro
pieno sviluppo nel secolo XIII (7).
Nel senso ecclesiastico è troppo oscura la prima origine
delle parrochie, anche fuori delle città. Certamente erano i vescovi, che ad alcuni sacerdoti del comitato
commettevano direttamente od indirettamente, espressamente o tacitamente, la
cura spirituale di un certo gruppo di fedeli. Questo a priori; e quindi forse tra noi fin dal secolo V o
VI. Ma trovare storicamente la prima
formazione delle antiche parrochie nelle campagne, è compito troppo difficile.
Daremo quei pochi documenti storici, che abbiamo potuto trovare; premonendo che
il termine più antico che sembri di notare la parrochia è appunto « plebes », talvolta « parochia »; come il sacerdote è detto ordinariamente « rector» o « plebanus » o « presbyter
plebanus »; poche volte « parochus
».
Il primo che troviamo detto rettore di una chiesa, è Audone diacono « rector sancti Martini sita in valle Paltenate »: così in un atto
del 7 marzo 839(8): questa chiesa dovrebbe essere quella stessa che in
documenti di poco posteriori è detta « plebs
di Gretiana ». Forse Audone era
puramente rettore della chiesa senza cura d'anime; molto più che esso è detto
diacono.
Nel medesimo secolo IX troviamo la voce « plebs » per indicare un ente morale,
forse anche in senso ecclesiastico, in un diploma di Carlomanno dato il giorno 6 ottobre dell'anno 879 (878, 880), nel
quale tra i possessi conferiti al monastero
di S. Zeno si pone « castrum cum
curte ac plebe juxta lacum positum et Desentianum »(9). Certamente in questo senso è presa
la voce « plebs » in un diploma di Berengario del 26 maggio 905, che si
dice dato « juxta plebem sancti Floriani
»(10).
Nell'anno 920 ricorre la « plebs Illasiorum », di cui era arciprete un certo Azzone (11): verso l'anno 968 Raterio
scrive di aver conferito ad un diacono (ordinarium)
una delle migliori plebi, che egli avea (12):
verso l'anno 1008 troviamo nominato un « Dominicus
diaconus de plebe sancti Martini in vico Piscaria ».
Anche la chiesa di S.
Procolo, consacrata dal vescovo Ratoldo
il 9 dicembre 822, posta fuor di Verona nella « villa sancti Zenonis », apparisce come pieve nel 962. In un atto di
Berengario 30 nov. 896 ne è detto
rettore un certo Boniperto: il
primo, che si trovi nominato come arciprete, è Uberto nell'anno 1080(13).
Essa avea certamente il fonte
battesimale.
Queste Pievi crebbero di numero nei secoli X e XI, anche per
le ragioni indicate: il pontefice Eugenio
III nella Bolla Piae postulatio
voluntatis ne nomina cinquantacinque. Esse diedero origine alle
vicarie foranee; anzi parrebbe che già fin da allora i sacerdoti plebani
avessero una qualche preeminenza sui sacerdoti di altre chiese, che pure vi
esercitavano una vera cura delle anime, e quindi erano parroci.
Difficile cosa è determinare quali attribuzioni avessero
questi sacerdoti preposti alle plebi ed alle altre chiese minori. Certamente
aveano il diritto ed il dovere di predicare, di battezzare, di dare la
comunione ai fedeli nella loro chiesa e il viatico agli infermi, di celebrare
la messa; avean pure il diritto che nessun sacerdote cantasse la messa nella
loro chiesa «absque parochiani
presbyteri voluntate et rogatu» (14).
Di queste attribuzioni parla espressamente il nostro vescovo Raterio.
Un punto oscuro è quello del sacramento della penitenza; per il quale sembra che il vescovo
riservasse a sé i peccati pubblici. Alcuni plebani si arrogavano anche il diritto
di ascrivere alcuni fedeli fra il clero senza la licenza del vescovo: pretesa
riprovata da Raterio; il quale volea
che il diritto di ascrivere qualcuno fra il clero spettasse al vescovo, poiché egli solo «potest de clerico acolythum facere » (15). Del resto in massima le
plebi erano commesse alla cura dei « presbyteri
plebani »; ai quali Raterio inculca di conoscer bene le prescrizioni
vescovili, affinché «ministerium vestrum
facere possitis, et plebes vobis commissas ad vitam ducere et Christo
repraesentare» (16). La Synodica
è diretta appunto «ad presbyteros et
ordines caeteros forinsecus »: il che prova che al di fuori della città
esistevano vere parrochie (a).
Ludovico Tomassino prete
dell'Oratorio di Parigi, seguendo le
tendenze gianseniane dei suoi tempi,
volea che i parroci avessero facoltà di scomunicare (17); ed a prova della sua tesi portava un testo della Synodica del nostro
Raterio, dove questi «ad presbyteros et
ordines caeteros forinsecus » ordinava: « De occultis peccatis poenitentiam vos dare posse scitote; de publicis
ad nos referendum agnoscite » (18).
Ma è chiaro che qui Raterio non parla di facoltà di scomunicare: indica
soltanto di riservare a sé la facoltà di giudicare sui peccati pubblici,
lasciando ai sacerdoti il compito di giudicare sugli occulti, ossia nel foro
della coscienza.
In questi secoli vediamo svolgersi fra il clero una tendenza
alla vita comune. Oltre le due congregazioni del clero, una intrinseca, altra
estrinseca, abbiamo fin dal secolo IX la canonica
degli ordinari, detti da allora canonici:
inoltre abbiamo memorie di sacerdoti viventi vita comune fin dall'anno 994
presso la chiesa di S. Stefano (19); un simile collegio si aveva presso
la chiesa di S. Cecilia (20), e forse anche presso quella di S. Giorgio detto ora di Valpolicella. Ma uno sviluppo ben più spiccato troviamo
nella vita monastica.
Principale fra i monasteri
fu quello di S. Zeno, al quale
accrebbero importanza e ricchezza la basilica ed il corpo del nostro santo
patrono custodito con grande amore nella medesima. Contava un gran numero di
monaci, spesso provenienti da conspicue famiglie di Verona e di altre città,
massime della Germania.
Il monastero con la chiesa fu in parte rovinato nelle
scorrerie degli Ungheri, quando il
corpo di S. Zeno fu precariamente
trasportato nella chiesa di S. Maria
Matricolare. Ricostruito più tardi,
vi dimorarono spesso gli imperatori di Germania,
Enrico II il Santo, Enrico III, Enrico
IV; i quali ivi tennero più volte i loro placiti.
In un diploma del 21 maggio 1014 Enrico II, assecondando le preghiere del vescovo di Verona, conferma «omnes proprietate et possessiones monasterii beatissimi Zenonis, ubi
corpus ejus sacrum quiescit humatum »: sono chiese e terre donate al
monastero da Pipino, Berengario ed Ottone nei comitato di Verona, Brescia, Parma e Treviso (21): queste donazioni furono poi
riconfermate da
Corrado II il 24 maggio 1027(22). Nell'anno 1073 vennero
a Verona la contessa Beatrice e la
sua figlia Matilde ed il vescovo di Lucca Anselmo, e nel refettorio dei
monaci, segnavano un atto, con cui donavano al monastero alcune terre di Bonferraro, Roncolevato, Pigozzo, Fatoledo
ed altre (23).
Fra le chiese erette dai benedettini (della basilica di s. Zeno diremo in seguito)
merita speciale menzione quella dedicata a S.
Dionigi su di un colle presso Parona.
Secondo il Moscardo, quella chiesa su terre donate ai monaci da Pipino fu eretta verso la metà del
secolo IX; quando i Franchi
diffusero anche in Italia il culto
del loro santo Patrono. Quella
chiesa, dietro istanza dell'abate Ugone
fu più tardi confermata al monastero di
S. Zeno dal pontefice Urbano II
con bolla data il 13 ottobre 1187(24).
Mercè le donazioni di principi ed imperatori quel monastero
acquistò immensi possedimenti, che venivano poi distribuiti ai coloni con
condizioni assai vantaggiose per essi: in progresso di tempo parte di quei
possedimenti passarono in proprietà dei villici stessi con il dovere di riconoscere
il condominio dei monaci con qualche leggera contribuzione quotale: altri
rimasero in proprietà del monastero sino alla soppressione veneta dell'anno
1773.
Fioriva pure il monastero
di S. Maria in Organo, dal quale dipendevano le chiese di S. Maria Antiqua, S. Margarita, S. Faustino
ed altre. Esso, a quanto pare, era
esente dalla giurisdizione del vescovo
di Verona, e soggetto al patriarca
di Aquileja fino dal secolo X. Esso pure avea vasti possedimenti nella Valpantena, sui monti di Azzago e Cerro e nel Trentino (25); e giurisdizione su varie chiese di
Verona, confermatagli dal pontefice Giovanni XIX l'anno 1025(25).
Nella prima metà del secolo X fu fondato un nuovo monastero
presso l'antica chiesetta posta alle falde del colle Castiglione. Poco di poi fu eretta una chiesa dedicata ai SS. Nazaro e Celso ed a S. Giuliana; della quale apparvero
alcuni avanzi nello scavare i fondamenti della cappella di S. Biagio. Questo monastero era abitato da monaci viventi secondo la così
detta regola di S. Benedetto, forse
in parte conformata a quella di sant'Agostino: fu dotato di beni dai vescovi Giovanni (1015-1036) e Brunone (1073- 1083), confermati poi
dagli imperatori Enrico IV ed Enrico V. A questo monastero furono sottomesse la chiesa
di S. Maria di Marcellise nel 1046,
quella di S. Stefano di Persana,
quella di S. Cassiano di Mezzane.
Anche la chiesa del
SS. Fermo e Rustico avea annesso un monastero di benedettini, se non dai
tempi di Carlo Magno, certo sulla
fine del secolo X, quando il vescovo
Otberto con atto dell'anno 996 concedeva favori e sussidi ai poveri
sacerdoti di S. Fermo (27). Un atto di locazione del 10 giugno
1019 parla espressamente di monaci e del monastero
dei SS. Fermo e Rustico (28). Nell'anno 1065 detti monaci
ampliarono la chiesa inferiore e cominciarono la fabbrica della superiore (29): Federico Barbarossa con atto sottoscritto in Verona il 26 ottobre 1184 confermava alla chiesa ed al monastero
i privilegi e possedimenti, che si dicevano già concessi da Carlo Magno (30). Vi stettero fino all'anno 1261, nel quale per ordine del
pontefice Urbano IV dovettero cedere
il monastero e la chiesa ai frati Minori.
Un altro monastero nell'anno 1046 fu fondato dal troppo
famoso Kadalo presso la chiesa di S. Giorgio in Braida. Di famiglia oriunda dalla Germania, nato, come sembra, a Sabbion
nella diocesi di Vicenza, Kadalo o Cadalao o Cadaloo avea
sua dimora in Verona nella contrada
di S. Faustino, dove in quel tempo
troviamo la « curtes Ducis »: fu
chierico e vice domino della chiesa veronese, indi vescovo di Zetis-Namburgo e Cancelliere imperiale,
poi vescovo di Parma (1045-1061), e
finalmente antipapa col nome di Onorio
II contro il legittimo pontefice Alessandro
II (31). Egli allora vescovo di Parma, edificò la chiesa di
S. Giorgio (se pur questa non preesisteva con alcune monache) ed il
monastero sopra suoi fondi nel « Pratum
dominicum foris et prope civitatem Veronae »(32): prescrisse che vi
stessero tanti monaci quanti potessero vivere coi beni del monastero, che
vivessero secondo la regola di S.
Benedetto, ma senza dipendenza da altra congregazione, che l'abate vi fosse
eletto dal vescovo e dalla parte maggiore dei monaci. Con suo testamento (24
aprile 1046) lasciò allo stesso monastero molti beni, che egli possedeva nella Valle Veriaca (di Negrar), in altre terre del veronese e nel comitato vicentino. Che
cosa sia avvenuto in seguito di quei monaci non lo sappiamo. Ma almeno
dall'anno 1070 quel monastero era abitato da monache, e di sì mala vita, che il
vescovo Bernardo, il primo
riformatore della nostra chiesa, le espulse dal monastero e vi sostituì alcuni
sacerdoti che vi avessero vita comune conforme alla regola di sant'Agostino.
Alla fine del secolo XI spetta la chiesa della SS. Trinità con l'annesso monastero di monaci
vallombrosani, nel luogo posto a mezzogiorno della città, detto fino ad allora
« Mons olivetus ». La chiesa fu
consacrata il giorno 12 gennajo dell'anno 1117: l'altare maggiore fu consacrato
dal vescovo Bernardo l'anno 1132. I vallombrosani, beneficati di vaste
possessioni da Fulcone marchese d'Este l'anno 1115(33), vi dimorarono
sino all'anno 1443. Da qualcuno di essi furono compilati gli Annales sanctae Trinitatis (34).
Nel comitato veronese, oltre i monasteri di Sirmione, S. Maria de Gaio, S. Michele in Flexio, S. Pietro de
Mauratica, troviamo in quest'epoca il monastero di S. Maria della Vangadizza, fondato
nella prima metà del secolo X da Ugo
marchese di Toscana (35). Fu prima abitato dai così detti monaci neri,
dei quali nell'anno 961 era abate un certo Martino,
quando il monastero ebbe privilegi e possedimenti da Berengario II ed Adalberto.
In seguito quei monaci divennero
camaldolesi.
Elemento e frutto insieme della vita cristiana sono le opere
di beneficenza: e queste pure hanno il loro sviluppo in Verona nei secoli accennati. Già abbiamo detto altrove del « xenodochium » fondato dal vescovo Notkerio nella prima metà del secolo X.
Nella seconda metà del medesimo secolo, e precisamente in un documento
dell'anno 987 troviamo un ospedale presso la chiesa di S. Siro (36).
Altro ospedale era pure non lungi dalla chiesa di S. Maria in Organo, diverso da quello
fondato da Notkerio. Di un ospedale
presso la chiesa di S. Stefano
abbiamo la prova in un atto del 9 marzo 1084, col quale un certo Totone lascia a detto ospedale alcuni suoi poderi « in valle Paltenate in "Monte Agudulo",
qui
nuncupatur Cultores »(37). Possiamo affermare che presso la maggior parte
delle chiese in quest'epoca si trovava pure un «hospitale» o « xenodochium»
o « nosocomium» (b).
Chiuderemo questa esposizione della vita cristiana nella
città e nel territorio di Verona con pochi cenni della vita di un santo, che
non era di origine veronese, ma edificò il nostro popolo con esempi di sublimi
virtù nei primi decennali del secolo XII.
S. Gualfardo,
nato in Augusta di Baviera,
nell'anno 1097 venne ad esercitare in Verona il mestiere di sellaio. L'arte sua non gli impedì di dedicarsi in pari
tempo alle opere di pietà e di carità; finché, avendo conosciuto per esperienza
quanto fosse maligno il mondo, pensò ritirarsi a vita nascosta in un bosco
sulla riva dell'Adige, non lungi da Verona (38). Quivi stette parecchi
anni, conducendovi vita di penitenza e d'orazione: ma poi, scoperto dai
veronesi e costretto dalle loro insistenti domande, venne in città, e dimorò in
una casetta presso la chiesa di S.
Pietro in monastero, mantenuto dalla pietà dei fedeli, fatto ad essi
esemplare modello di ogni virtù. In
seguito, causa un'inondazione dell'Adige, si ritirò presso la chiesa della SS. Trinità, e più tardi
fu accolto fra i camaldolesi nel monastero di S. Salvatore in Corte Regia. Quivi santamente terminò la sua vita il giorno
30 aprile dell'anno 1127; venerato ed invocato dai veronesi per molti miracoli
operati da lui in vita e dopo morte. Il suo corpo sepolto nella chiesa del
monastero, quando i monaci dovettero esulare e fu dissacrata la \ chiesa
(1807), fu trasportato nella chiesa di S.
Fermo Maggiore (39). S.
Gualfardo fu eletto a protettore dell'arte dei sellai.
NOTE
1 - BIANCOLINI, Chiese
di Verona, II, pag. 628; IV, 827.
2 - BIANCOLINI, Chiese,
II, pag. 721, segg.
3 - BIANCOLINI, Chiese,
II, 628, 629. - Vedi anche SORMANI·MORETTI, La Provincia di Verona, III,
pag. 184.
4 - SIMEONI, Verona.
Guida ... pagg. 296, 298, 299, 332, 355, ecc.; SGULMERO, Bardolino, pag.
23 (Verona 1901); SORMANI-MORETTI, Op. e l.c.; ecc.
5 - M. LUPI, De paroeciis
ante annum 1000. Dissert. II; NARDI, Dei parochi; BOUIX, De parocho,
P. I, Sct. I; BERENGO, Enchir.
paroch., Introd., Num. 20. - Non intendiamo come in un libro recente si
dicano esistenti a Venezia cinquantaquattro parrocchie prima del 1000: PIVA, Il
seminario di Venezia, pag. 64 (Venezia 1918).
6 - BIANCOLINI, Chiese
di Verona, IV, pag. 732-737.
7 - CIPOLLA, Compendio
della storia politica di Verona, pag. 72, seg.
8 - BALLERINI, Ratherii,
Opera, col. 563. Nota 11. - Da un Quinternetto della
Fabbriceria di Campofontana (1744-1752) S. Nicolò di Roverè apparirebbe vera
parrocchia nell'anno 804: ma tale notizia pare basata sopra equivoci. CIPOLLA, Le
popolazioni dei XIII Comuni, pag. 10, seg.
9 - UGHELLI, Italia
sacra, Tom. V, col. 699; CERUTI, in Hist. P. Monum. XIII. Codex diplom. Longob., Num. CCLXXVII, pag. 467; BETTONI, Storia della riviera di Salò,
III, Num. 1., il quale ne prova l'autenticità (I, pag. 137) contro
Biancolini e Da Persico.
10 -DUMMLER, Gesta
Berengarii, Num. 47, pag. 174; SCHIAPPARELLI, Diplomi di Berengario,
Num. LIV, pag. 154 (Roma 1903).
11 - BIANCOLINI, Chiese,
II, pag. 564. - Si dice spettare al secolo IX, e come vera parrocchia, la
pieve del SS. Salvatore, detta di S. Salvar, in Bussolengo. BACILIERI, Bussolengo,
pag. 21 (Verona 1903).
12 - RATHERIUS, Epist.
ad Ambrosium cancell. Num. 2, col. 563.
13 -
SCHIAPPARELLI, Op. cit., Num. XVI; GUALTIERI, Serie cronologica degli
Arcipreti della chiesa plebana di S. Procolo ... Docum., pag. 47
(Verona 1818). - Vedi anche GARZOTTI, Le pievi della città di Verona ... (Verona
1882): egli vorrebbe che le pievi di S. Floriano, S. Giorgio Ingannapoltron ed
Arbizzano risalissero al secolo IV. Sarebbe un po' troppo.
14 - RATHERIUS, Synodica,
Num. 9, col. 416.
15 - RATHERIUS, Iudicatum,
Num. 5, col. 476, coll. Synod.,
Num. 22.
16 - RATHERIUS, Synodica,
Num. 15, col. 422.
17 - THOMASSINUS,
Vetus et nova discipl., P. I, Lib. II, Cap. 26, Num. 6.
18 - RATHERIUS, Synodica,
Num. 15. - Cosi egli chiude questo importante documento.
19 - BIANCOLlNI, Chiese
di Verona, I, pag. 14; IV, 732.
20 - BIANCOLlNI, Chiese,
II, pag. 29.
21 - CAVATTONI, Memorie
intorno alla vita ... di S. Zeno, pag. 239; BRESSLAU, Diplom. Regurn et Imper., Num. 309, III,
pag. 387 (Hannov. 1900-1903).
22 - CIPOLLA, Verzeichniss
der Kaiserk in den Archiv. Veronas, Il, 107.
23 - BIANCOLINI, Chiese
I, pag. 51; BRESSLAU, Diplom ... IV, pag. 132, Num. 95
(Hannov. 1909).
24 - Ne abbiamo
scritto una breve monografia: S. Dionigi (Verona 1893). Vedi anche POMELLO, S. Dionisi (Verona 1909).
25 - CIPOLLA, Le
popolazioni dei XIII comuni, pag. 13, Antichi possessi del mon. di S.
Maria in Organo nel Trentino (Roma 1882).
26 - BIANCOLINI, Chiese,
V, P. I, pag. 14; CIPOLLA, Fonti edite pag. 114, coll. Append. III, pag. 17; JAFFÈ, Regesta RR. PP., Num. 4071.
27 - PANVINIUS, Antiqu.
Veron., Lib. I, Cap. 22; BIANCOLINI, Chiese VIII. - Forse vi erano
monaci sino dal 774. DA LISCA, Cenni ... sulla chiesa di S. Fermo (Verona
1909).
28 - BIANCOLINI, Chiese,
I, pag. 332.
29 - BIANCOLINI, Chiese,
I, pag. 331. - Ciò apparirebbe da una iscrizione, presso DA LISCA, Op.
cit.
30 - BIANCOLINI, Chiese,
I, pag. 329.
31 - Dei suoi
fasti anteriori al pseudopontificato scrisse MUNERATI in Rivista di scienze
storiche, Anno III, Vol. I, pagg. 167,277, 342 (Pavia 1906).
32 - UGHELLI, Italia
sacra, V, col. 1039; BIANCOLINI, Chiese, V, P. II, pag. 147.
33 - L'Atto
presso BIANCOLINI, Chiese, IV, pag. 755.
34 - Presso PERTZ,
Monum. Germ. Hist., Script., XIX, pag. 2-6.
35 - Altro
monastero degli stessi monaci neri era a Vangadizza di Badia (Polesine). Forse
qualche confusione tra i due monasteri si trova anche presso il nostro
Biancolini: certamente S. Teobaldo (BIANC., Chiese, III, 276) non morì
nel monastero della Vangadizza veronese. Sigeberto Gemblacense (Chron.) presso
PERTZ, Monum. Germ., Script., VI, 359, 361 lo dice defunto «in Vincentia
Venetiae urbe reclusus ». - TRECCA, Legnago, pag. 29.
36 - SALVARO, La
chiesa dei SS. Siro e Libera, pag. 8 (Verona 1882).
37 - BIANCOLINI, Chiese
di Verona, IV, pag. 737, seg. - Il Monte Agudulo, secondo Biancolini,
sarebbe ora Monte Agù, presso il castello di S. Felice.
38 - Pare al
Saltuclo (S. Pancrazio): N. N., Vita di S. Gualfardo (Verona
1759).
39 - TURRI, Cenni
intorno alla vita di S. Gualfardo (Verona 1861).
ANNOTAZIONI AGGIUNTE AL CAP. XVIII (XVII nella stampa
originale) a cura di A. Orlandi
(a) Pag. 299. -
Dopo l'epoca in cui scrisse mons. Pighi, molti hanno trattato il tema delle
pievi e dell'organizzazione ecclesiastica nel medioevo; ecco alcuni studi fondamentali:
G. FORCHIELLI, Una « plebs baptismalis cum schola iuniorum » a S. Giorgio
di Valpolicella, in «Studi Urbinati » I, 2 giugno 1927; G. FORCHIELLI, Collegialità dei chierici
nel veronese dall'VIII secolo all'età comunale, estratto da «Nuovo Archivio
Veneto» vol. In (1928), pp. 1-117; G.
FORCHIELLI, La pieve rurale. Ricerche sulla storia della chiesa In Italia e
particolarmente nel Veronese, Verona 1931, pp. XVI-282 + 11; A.
CASTAGNETTI, La pieve rurale nell'Italia padana. Territorio, organizzazione patrimoniale
e vicende della pieve veronese di S. Pietro di «Tillida »
dall'alto medioevo al secolo XIII, Roma 1976.
(b) Pag. 304. -
Per una visione riassuntiva di questa materia si veda: V. FAINELLI, Storia degli Ospedali di
Verona dai tempi di S. Zeno ai giorni nostri, Verona, 1962.
Fonte:
srs di Giovanni Battista Pighi, da CENNI STORICI SULLA CHIESA VERONESE, volume
I
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