Ennio
Trivellin, 85 anni, con il suo i-pad sul quale accede a Facebook
Stamattina (martedì 29 gennaio 2013) al Quirinale riceverà
dal presidente della Repubblica la medaglia per gli ex internati nei lager.
Questa mattina a Roma, al Quirinale, su richiesta della
figlia Francesca, riceverà dal capo dello Stato, Giorgio Napolitano, la
medaglia d´onore agli ex internati dei lager nazisti, promossa con la legge 296
del 2006 dall´allora presidente della Repubblica Ciampi.
Si chiama Ennio
Trivellin, da anni abita in Friuli Venezia Giulia, e la sua storia di
deportazione è una storia «di famiglia» perchè coinvolse anche suo padre
Zeffirino. Si salvarono entrambi, ma
pagarono un prezzo altissimo: quello del dolore della memoria.
Ennio Trivellin, che ha 85 anni, parte da qui, dalla memoria
di ciò che è stato per ammonire sul presente: «Se i ragazzi oggi possono
esprimere liberamente le proprie idee su Facebook, è anche perchè migliaia di
ragazzi per la difesa della libertà morirono».
L´ha aperta anche lui una pagina personale sulla piattaforma «social»:
nome, cognome, una foto con alle spalle l´aereo che si è costruito lui stesso.
Ennio Trivellin da giovane
Ennio Trivellin da giovane
Un nome, un cognome e un volto: eccola la dignità di una
persona che a Mauthausen, quando aveva 16 anni, diventò solo il
110425.
«All´arrivo ci buttarono nei grandi capannoni usati anche come camere a
gas. Ci spogliarono, ci raparano a zero, ci dettero vestiti a righe bianche e
blu, ci buttarono fuori all´aperto. Era novembre e c´era freddo, tanto freddo
con quella giacchina di carta ritorta: tutt´intorno vedevamo passare carretti
carichi di cadaveri. Rimasi lì,
matricola 110425, venti giorni. Il 13 dicembre venni spostato a Gusen I, blocco 16».
Trivellin si ferma un istante: «Non scriva delle mie
mollezze», dice riguardo le lacrime che gli rigano il volto. Un sorso d´acqua,
la mano che asciuga gli occhi, e il racconto riprende: «Facevo la vita degli
altri: la fame pian pianino ti rende idiota, il resto lo fa il freddo quando
hai sempre vestiti di carta addosso. Dodici ore di lavoro al giorno nei
capannoni per scegliere i ribattini per fare le fusoliere degli aerei e poi
inchiodare le fusoliere degli aerei. Mi si congelò un piede e mi buttarono
fuori dal lavoro: temevo mi eliminassero. Si prese cura di me Mario Elefante,
un altro prigioniero italiano: mi aiutava a camminare, o meglio a strisciare
nella neve».
Venne dunque mandato in infermeria, «una delle baracche dei
blocchi 20-21-22. Uno dei blocchi serviva solo per “buttare il non
recuperabile”.... e lasciarli morire». Venne curato e tornò al lavoro in un
campo in cui «da metà di aprile non c´era più carbone per far funzionare i
crematori e c´erano cadaveri accatastati ovunque.
Un giorno il capo tecnico della Messerschmitt, che aveva
l´abitudine di portarsi il pranzo da casa incartandolo nel giornale, dimenticò
di buttarlo. Io avevo studiato tedesco e scoprii così che i tedeschi stavano
respingendo gli americani ad Augusta: avevano dunque già passato il Reno. Qualcosa
stava per accadere anche perchè in quel periodo cominciarono ad arrivare dei
convogli ormai distrutti: traboccavano di prigionieri dei campi di Dachau e
Flossenburg. Ne portarono lì persino da Auschwitz: non so quanti fossero
partiti e quanti arrivarono lì».
Al campo, intanto, quella cosa chiamata esistenza,
continuava: «C´era con me Eliseo Cobel. Da tempo aveva un ascesso sotto un
braccio: tra dolori ormai insopportabili non riusciva più a muoversi. Era il 20
aprile e disse che voleva andare in infermeria. Cercai di dissuaderlo, gli
dissi con tutte le mie forze di non andare perchè avrebbe fatto una brutta
fine. Non mi ascoltò. Nella notte tra il 22 e il 23 aprile vennero tutti
ammazzati a bastonate e colpi d´ascia».
Trivellin si ferma ancora. Stringe i pugni. «Era il 23
aprile 1945, compivo 17 anni». In quella stessa giornata iniziata nell´orrore,
«a Gusen entrarono dei camion bianchi. Imbarcarono tutti i prigionieri francesi
e i pochissimi ebrei rimasti, per lo più ragazzini di 10-11 anni che erano utili
perchè riuscivano ad infilarsi nelle fusoliere degli aerei per tenere i
ribattini. Erano tutti ungheresi, catturati nei tempi più recenti a
Budapest.
«Seppi molto tempo dopo che i francesi, attraverso il conte di
Bernadotte, erano riusciti a portarsi via i prigionieri da Mauthausen.
Poi, il 1° maggio, ci fu la caduta totale: lo ricordo perchè
fu la cosa che più mi diede vita. Le SS sparirono dal campo di concentramento,
che venne consegnato al Volkssturm, la milizia popolare: erano austriaci con la
divisa militare. Le SS cercarono di tagliare la corda perchè stavano arrivando
i russi. Sapevano che non sarebbero stati perdonati. Si diressero, dunque, in
direzione degli americani. Ecco perchè Mauthausen fu l´ultimo campo occupato
dagli americani, perchè c´era un continuo afflusso di tedeschi armati che, come
venivano di qua, buttavano le armi.
Quel che avvenne con gli ex carcerieri è presto detto: non
furono gasati o buttati nei forni perchè a Mauthausen al crematorio non c´era
più nulla da bruciare, come a Gusen. Li ammazzarono di botte, presero tante
botte da far paura».
Trivellin rivede Verona il 29 giugno 1945. «Pesavo 47 chili
ed ero uno dei più pesanti. Poi diventai gonfio come un pallone: era edema da
fame, lo scoprirono solo molto tempo dopo.
Una volta a casa cercai di non pensarci più: pensarci mi era
di peso, mi distruggeva. Il ricordo tornava, ma io cercavo di trattarlo come la
memoria di qualcosa che avevo solo sentito raccontare. Ho tenuto duro fino al
1995: al cinquantesimo anno ho voluto andare a Mauthausen. Ci sono andato
perchè lo sentivo come un dovere. E lì fu come se fosse crollata una diga.
Crollò anche il mio muro: non avevo più niente da imparare».
Fonte: srs di Paola Dalli Cani, da l’Arena di Verona di martedì 29 gennaio
2013 PROVINCIA, pagina 22
Link:
UN INFILTRATO MI FECE ARRESTARE
VENNI DEPORTATO DA
BOLZANO: ENNIO TRIVELIN NEL ´44 AIUTAVA I PARTIGIANI E CONOBBE IL SOAVESE
PERSEO CHE POI FU FUCILATO
LA STAFFETTA. Quel
bel ragazzo di nome «Perseo». Da 69 anni Soave, nel giorno dell´Immacolata,
ricorda «Danton» e «Perseo», cioè i due giovanissimi partigiani che furono
fucilati a Porta Verona l´8 dicembre 1944. Si chiamavano Ardineo Ceoloni e Matteo
Benetton: avevano 20 e 22 anni.
Ennio Trivellin se lo ricorda bene, lui che ha conosciuto
l´orrore di Mauthausen ma anche i drammi della guerra partigiana.
«Perseo lo
vidi sulle colline di Soave nell´estate 1944. Da qualche mese gravitavo attorno
alla brigata Montanari costituita da Bruno Sitta. Ero un ragazzino di 16 anni, facevo comodo
come staffetta. All´epoca studiavo al "Ferraris", assieme ad Eliseo Cobel e Francesco Chesta, che pure confluirono nella Montanari.
«Non c´era, nel movimento, nulla di politico ma solo
l´interesse a salvaguardare la dignità degli italiani. Nella seconda fase di
vita della Montanari, Sitta entrò in contatto con alcuni appartenenti del primo
Comitato di liberazione nazionale. Ci misero in contatto con Giuseppe Marozin
“Vero” e venne organizzato un incontro. Ci andammo in tre: io, Bruno Sitta e
Umberto Sitta. Arrivammo in trenino fino a Soave, poi su a piedi a Castelcerino
fino alla contrada in cui c´era la riunione. Entrò solo Bruno Sitta, noi
restammo fuori.
«Vidi un bel ragazzo con un paio di gambali: mi pareva una
persona in gamba, un tipo molto sveglio. Non ci parlammo, perchè in occasioni
simili si parlava poco e si era comunque guardinghi. Nessuno mi disse il suo
nome, lo presentarono solo col nome di battaglia: Perseo. Solo quattro anni fa
ho scoperto che ne è stato di lui».
L´8 dicembre 1944 Perseo moriva a Porta
Verona, mentre Trivellin «respirava» Mauthausen. Lo avevano arrestato il 2
ottobre 1944, e il motivo Trivellin lo dice chiaramente: «Colpa di ´Uccello´:
era il nome di battaglia di Sergio Menin, uno che nella Montanari c´era stato
mandato apposta per sapere. Era un infiltrato: la distruzione totale della
Montanari venne tutta da lui».
Certificato al patriota Ennio Trivellin
Certificato al patriota Ennio Trivellin
Ad ottobre buona parte della brigata è già stata presa: alcuni erano sfuggiti, ma nell´elenco c´era anche il nome di Ennio Trivellin. «Andarono in via Stella, al negozio di mio padre, e trovarono delle armi. Lo portarono via per questo anche se lui, antifascista, con la Montanari non c´entrava nulla. Passando da lì e vedendo movimento decisi di raggiungerlo per salutarlo: lo avevano già portato via e presero anche me». Zeffirino finì all´Upi, «fu l´ultimo a tenere tra le braccia il colonnello Fincato. Poi lo spostarono agli Scalzi, quindi al palazzo dell´Ina. Da qui, attraverso altri prigionieri, mi mandò un fazzoletto: voleva che io sapessi che era vivo. Venne dunque condotto a San Leonardo».
Erano passati dieci giorni dall´arresto: «Mi portarono
direttamente al Palazzo dell´Ina. Mi interrogarono: ricordo, in particolare, un
giovanissimo ufficiale delle SS, un uomo molto bello che parlava abbastanza
bene l´italiano. Lo rividi in televisione alcuni anni fa: era Erich Priebke, uno dei boia delle Fosse
Ardeatine».
A metà ottobre, dunque, padre e figlio si ritrovano a San
Leonardo: quest´ultimo, quindici giorni dopo, partità per il campo di
smistamento di Bolzano.
«All´arrivo incontrai Chesta e fummo spediti entrambi
al "block E", quello dei pericolosi. Uscii da lì solo perchè quando
arrivò mio padre, che era falegname, lui venne impiegato subito al campo e
parlando con il capo della falegnameria mi propose come valido aiuto».
Padre e
figlio si riabbracciano e lavorano fianco a fianco. L´incubo sembrava finito,
almeno fino al primo treno pronto per partire alla volta di Mauthausen: Ennio
ci fu spinto su sotto gli occhi del padre che, fortunatamente, sarà il primo a
ricevere il salvacondotto e con esso la libertà. (P.D.C.)
Fonte: srs di Paola Dalli Cani, da l’Arena di Verona di martedì 29 gennaio
2013 PROVINCIA, pagina 22
L'EX DEPORTATO ENNIO TRIVELLIN ALLA "ZANELLA":
COME SONO VIVO ? GLI AMERICANI PIÙ VELOCI DELLA MORTE (VIDEO)
11 FEBBRAIO 2016
Esistono racconti che sembrano semplicemente “troppo” per
essere veri, specialmente quando non provengono da un libro o da un film, bensì
dalla persona che ci sta di fronte. Per quanto la vicenda sia conosciuta, e sia
parte integrante dei programmi scolastici di tutte le scuole italiane, le
testimonianze dei sopravvissuti nei lager nazisti appartengono di diritto a
questa categoria, come ben testimoniavano i volti e le espressioni rapiti e
impressionati degli alunni della scuola media Zanella di Col San Martino, che
in occasione della giornata della Memoria, lo scorso 27 gennaio, hanno potuto
incontrare Ennio Trivellin (nella foto accanto), presidente dell'
Associazione degli ex deportati nei campi nazisti.
L'incontro è stato promosso dall'assessorato alla cultura
del Comune di Farra di Soligo. Ci sono voluti cinquant'anni perché
Trivellin trovasse la forza per raccontare la sua drammatica esperienza:
soltanto nel 1995, infatti, si rese conto che la sua testimonianza di ciò che
gli era accaduto andasse riportata.
QDP. Quanti anni
aveva quando fu catturato dai nazisti ?
E.N. Ne avevo 16 e frequentavo l’istituto tecnico industriale
"Galileo Ferraris" nella mia città, Verona. Era il 2 ottobre del
1944.
QDP. Lei non fu un
prigioniero di guerra come tanti altri italiani, ma ebbe un trattamento
addirittura peggiore ...
E.N. Fui catturato perché partigiano delle brigata
Montanari. Alla Resistenza erano utili ragazzi giovani che facessero da
staffette, perché riuscivano a passare inosservati ai controlli. Qualcuno aveva
fatto la spia e benché lo fossi venuto a sapere, prima di andarmene decisi di
passare alla bottega di mio padre per salutarlo: quando entrai lo trovai con le
rivoltelle puntate addosso, e così ci presero entrambi. Io fui l’ultimo ad
essere catturato, e per me l’interrogatorio non fu particolarmente duro:
sapevano già tutto.
QDP. A questo, però,
avrebbero dovuto fucilarla ...
E.N. La nostra fortuna fu che i tedeschi avevano bisogno di
forza lavoro. L’ordine infatti era di uccidere subito i partigiani, ma decisero
di mandarci ai campi di lavoro. Prima però venni mandato al forte San Leonardo
di Verona e poi a Bolzano al campo di smistamento, dove mi ricongiunsi con mio
padre per un certo periodo. Ricordo che qui vennero fucilate 23 persone e molti
altri morirono a causa di due SS sadiche, che si divertivano ad uccidere la
gente.
QDP. E poi fu mandato
a Mauthausen.
E.N. Si, come prigioniero politico fui rinchiuso insieme ad
ebrei, omosessuali, asociali, che era il termine che usavano per gli zingari, e
altri gruppi considerati delinquenti. Per arrivare ci mettemmo 3 giorni di
treno, in 60 stretti in un vagone che ne poteva contenere al massimo 40.
Dormivamo a turno: uno stava accucciato a riposare mentre l’altro rimaneva in
piedi. Questo era l’unico modo.
QDP. Cosa accadde,
poi, quando arrivò al lager ?
E.N. Fummo svestiti, lavati, rasati e poi rivestiti con un
camicione bianco e blu (da cui il fazzoletto che Trivellin porta al collo),
l’unico indumento per ripararci dal freddo insieme ad una giacca leggera. Poi
ci venne data una targhetta di riconoscimento da tenere al polso, la mia era la
110.425. Non avevamo il tatuaggio, non si usava in quel campo, ma se la perdevi
finivi diretto al crematorio. Quando arrivammo eravamo ancora in forze tutto
sommato, per questo ci fecero subito lavorare due giorni in una cava,
trasportando pietre su è giù per una lunghissima scalinata. Facevano così per
sfiancarti subito, poi venivi mandato alla fabbrica, dove venivano prodotte
fusoliere d’aereo. Gli ebrei, invece, rimanevano nella cava per tutta la
durata della prigionia.
QDP. Com’era la vita
al campo ?
E.N. Appena arrivati l’impressione era di trovarsi in un
manicomio o in un film dell’orrore. C’erano carretti carichi di cadaveri nudi,
spinti da uomini che sembrava fantasmi vestiti a righe. Poi, con il passare del
tempo, finivi con diventare come loro. Era come vivere in una camera funeraria
dove i morti ancora si muovevano. Lavoravamo divisi in due turni, quello di
giorno e quello di notte, e mangiavamo una volta al giorno un zuppa preparata
con rape da foraggio, quelle che si danno ai cavalli. Gli ultimi giorni, poi,
il mangiare scarseggiava e non c’era più gas per i crematori, con cataste
di cadaveri ai lati della strada.
QDP. Quant’era la
vita media di una persona la dentro ?
E.N. Dai 6 ai 7 mesi, morivi di consunzione, ti sfruttavano
fino a consumarti del tutto. Era in questo modo che facevano spazio ai nuovi
prigionieri che arrivavano. Quando sono uscito pesavo 40 chili ed ero senza
capelli. In quelle situazioni nel tuo corpo scatta una reazione fisiologica che
tende a conservarti e ad eliminare tutto quello che non è necessario per la
sopravvivenza. In totale sono morte 640 mila persone a Mauthausen, che in
realtà è il centro di un sistema di campi. Io, ad esempio, ero a Gusen I°.
QDP. Lei come ha
fatto a sopravvivere ?
E.N. Gli americani sono stati più veloci della morte: è
questa l’unica risposta che sono in grado di dare.
Fonte: srs di Edoardo
Munari, da Qdpnews.it del 11 febbraio 2016
Nessun commento:
Posta un commento