di GILBERTO ONETO
– In ottobre non ricorre solo l’anniversario della
battaglia di Lepanto ma anche di un’altra fondamentale vittoria
navale europea contro i turchi: quella della baia di Navarino
avvenuta il 20 ottobre del 1827, nel corso della guerra di
liberazione greca.
Da anni i greci stavano combattendo una dura lotta per
liberarsi dall’oppressione ottomana ed erano, dopo una serie di
alterne vicende (fra cui le dure sconfitte di Sfacteria nel 1825 e di
Missolungi, l’anno successivo), riusciti a liberare buona parte del
Peloponneso, la grande penisola che aveva fatto parte dello Stato
veneziano con il nome di Morea. Della vicenda si era inizialmente
occupata la Russia nel suo ruolo di protettrice degli interessi dei
popoli slavi e – nel caso particolare – di erede dell’Impero
bizantino: da sempre interessata a uno sbocco navale sul
Mediterraneo, vedeva in uno Stato greco indipendente l’occasione
attesa da lungo tempo per disporre di basi di appoggio sicure in
un Paese amico se non addirittura vassallo.
L’interessamento russo aveva naturalmente preoccupato inglesi e
francesi che si erano occupati della vicenda sia per
evitare un’eccessiva influenza russa che per difendere i propri
interessi strategici e commerciali messi a repentaglio – questa era
la versione ufficiale – dagli atti di pirateria collegati alla
guerra.
Nel luglio del 1827 gli occidentali offrono una loro mediazione
per dirimere il contrasto che solo i greci accettano e che
Istambul snobba con molta irritazione. Quando i turchi intensificano
la loro brutale repressione della rivolta inviando una potente flotta
da guerra, rafforzata da quella dei loro alleati vassalli egiziani, gli europei decidono
di intervenire mandando nelle acque greche loro squadre navali. La
flotta islamica si concentra l’8 di settembre al comando di Ibrahim
Pascià nella baia di Navarino (oggi Pilos) protetta dall’isola
di Sfacteria e da due munite fortezze, mentre le truppe sbarcate si
danno a una serie di violentissime azioni di saccheggio e
distruzione anche contro le popolazioni civili.
Il 12 ottobre il vice ammiraglio inglese sir
Edward Codrington (un reduce delle guerre napoleoniche, che a
Trafalgar era capitano della fregata Orient) si piazza
all’ingresso della baia iniziando di fatto un blocco navale che i
turchi tentano invano di forzare. Il giorno dopo arriva anche la squadra
francese del contrammiraglio Henri de Rigny, subito seguita da quella
russa del contrammiraglio conte Login Petrovich Geiden.
Il 17 ottobre gli europei propongono un armistizio che, ancora
una volta, sono i soli greci ad accettare; gli ufficiali turchi
prendono tempo dicendo di non sapere dove si trovi il loro
comandante. A questo punto, di fronte alla prepotenza,
all’irragionevolezza e al comportamento “levantino” dei turchi, i tre
alleati di fatto decidono di intervenire, entrando nella baia e
mandando una nota di protesta per i massacri delle popolazioni
civili.
La flotta turca è disposta a ferro di cavallo vicino alla
città, gli alleati si infilano lentamente all’interno della mezzaluna
delle navi avversarie, in una posizione di netto svantaggio tattico.
La situazione è surreale: nessuno dei Paesi coinvolti è in guerra e tutti fingono
di comportarsi come se si trattasse di una riunione casuale in un porto
molto affollato. Quando però il comandante della fregata inglese
Dartmouth manda una lancia per chiedere a una nave turca di spostarsi
leggermente per permettere la manovra di ancoraggio, da questa parte
una cannonata che ammazza un ufficiale e alcuni marinai. A questo
punto la palese tensione che c’era nell’aria si trasforma in uno scontro
piuttosto violento fra le due flotte, che dura cinque ore.
Gli inglesi hanno tre navi da battaglia (Asia, Genoa, Albion),
quattro fregate (Glasgow, Cambrian, Dartmouth, Talbot), quattro
brigantini (Rose, Mosquito, Brisk, Philomel), un cutter (Hind). I
francesi tre navi da battaglia (Breslau, Scipion, Trident), due fregate
(Sirene, Armide), due brigantini (Alcyone, Daphne). I russi hanno
quattro navi da battaglia (Gangut, Azov, Iezekiil, Aleksandr
Nevskii), e quattro fregate (Provornyi, Konstantin, Elena, Kastor).
Nel complesso gli alleati hanno perciò 27 navi con 1.294
cannoni. I turchi e gli egiziani hanno 13 navi da battaglia, 27
fregate, 30 corvette, 28 brigantini, 54 navi minori e 41 vascelli da
trasporto (di cui otto battenti bandiera austriaca e noleggiati): in
tutto 152 navi da guerra con un totale di 1.692 cannoni. La
superiorità numerica turca è schiacciante, oltre a tutto rafforzata da una
più favorevole disposizione tattica e dal supporto delle truppe e
delle fortificazioni di terra. La disparità di condizione è ulteriormente
aggravata dal fatto che le navi russe stavano ancora manovrando per
entrare nella baia quando è scoppiata la battaglia e si sono
perciò trovate in condizione di ulteriore svantaggio.
Le sorti della battaglia vengono però decise dal superiore
armamento degli europei e dal migliore addestramento degli equipaggi,
oltre che dall’abilità dei comandanti e dalla determinazione e
coraggio con cui tutti si sono gettati nella lotta. Gli inglesi tengono
il fronte est, i francesi quello settentrionale (contro gli egiziani)
e i russi quello occidentale.
Alla fine di una giornata di combattimenti feroci, e a tratti
anche piuttosto confusi a causa dell’enorme affollamento di navi in
uno spazio piuttosto ristretto, i turchi si trovano veramente mal
ridotti: della loro grande flotta restano intatte solo una nave
da battaglia e quattro fregate, a mal partito ma ancora in grado di
navigare ci sono anche un’altra nave da battaglia, due fregate,
cinque corvette, 11 brigantini e cinque altre navi minori.
Gli alleati hanno avuto 181 morti e 480 feriti, i turchi 1.109
morti e 3.000 feriti. I danni per gli alleati sono ancora minori per
quanto riguarda il materiale: solo tre navi russe (soprattutto la
Azov che ha preso 153 colpi) e tre inglesi sono danneggiate in modo
serio.
Gli alleati presidiano la baia fino al giorno 26; il 27 se ne
vanno gli egiziani superstiti. I turchi restano in Morea con 1.200
uomini che controllano ancora cinque forti ma per poco. La vittoria
navale li ha cancellati dal mare, i rifornimenti e i collegamenti
non sono più possibili. In più i greci sono più baldanzosi e ricevono
sostanziosi aiuti, i francesi sbarcano a dare palese man
forte assieme a qualche inglese “sotto copertura”.
Il 1 novembre cade per ultimo il Forte di Morea a Patrasso: la
Grecia è completamente libera a sud dei golfi di Arta e di Volos,
tutto il Peloponneso e alcune isole adiacenti. La sua indipendenza
viene riconosciuta con il congresso di Londra, nel 1830.
È interessante soffermarsi sul comportamento dei vari Stati
europei.
La Russia prende apertamente le parti della Grecia e arriva
nel marzo del 1828 a dichiarare guerra alla Turchia, la Francia
partecipa alla guerra senza un atto formale e l’Inghilterra –
preoccupata dei propri interessi greci ma anche di non favorire
troppo la Russia di cui teme l’espansione – invece sfodera uno straordinario
repertorio di ipocrisia: dopo la battaglia di Navarino il Governo
inglese arriva a esprimere il proprio rincrescimento per lo
“spiacevole incidente”, e non rompe le relazioni diplomatiche
aspettando che sia la Turchia a farlo.
La battaglia di Navarino è l’ultima grande battaglia
fra navi a vela.
Per la Grecia è una data importante, enfatizzata dal fatto di
essere stata combattuta nell’anniversario della battaglia di
Salamina, nel 480 a.C., quando i Greci avevano sconfitto la flotta di
invasione persiana. Le analogie con Lepanto (che si trova
a poche decine di chilometri di distanza) si limitano allo scontro
fra forze europee e i turchi. Manca infatti il collante religioso
(la Russia è ortodossa, la Gran Bretagna protestante e la Francia
postrivoluzionaria ha smesso da tempo di essere il guerriero della
cristianità del tempo delle Crociate): è di fatto uno scontro fra
imperialismi giovani e uno morente, quello turco, che ha
però l’effetto di provocare la definitiva espulsione delle flotte
islamiche dal Mediterraneo, dopo 14 secoli di prepotenze.
A Navarino è del tutto assente la componente padana che a
Lepanto era preponderante. I soli labilissimi segni di padanità sono
il nome di una nave inglese (dedicata all’antica repubblica di
Genova) e il fatto che la battaglia sia stata combattuta proprio dove
due anni prima era morto Santorre di Santarosa, sfortunato e anomalo
patriota risorgimentale.
Oggi i cippi che ricordano i due avvenimenti si trovano su un
isolotto che chiude la baia a poche decine di metri l’uno
dall’altro. Un altro segno di padanità si trova nella piazza centrale
di Pilos (l’antica Navarino) dove il monumento ai tre ammiragli
che hanno vinto la battaglia è decorato con due grandi cannoni di
bronzo, uno dei quali porta, orgogliosamente visibile, il Leone
di San Marco. Ricordiamo che Navarino si trova a pochi chilometri da
Modone (uno dei due “occhi” della Serenissima nel Mediterraneo) e che
la stessa piazzaforte era stata fortificata dai Veneziani dopo la
conquista della Morea nel 1686 da parte di Francesco Morosini.
Nell’ottobre del 1571 ai turchi veniva impedita ogni ulteriore
espansione sul mare, nell’ottobre del 1827 vengono cancellati dal
Mediterraneo: brutto mese per loro quello di ottobre.
(da “Il Federalismo”, direttore responsabile Stefania Piazzo)
Fonte: da L’indipendenza del 13 guglio 2016
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