Il chiosco del pesce a Cavallino Treporti
La cucina tradizionale veneziana è sostanzialmente una cucina semplice, perché semplici sono stati e sono ancor oggi sia gli elementi costitutivi di base da essa utilizzati, sia i metodi di preparazione e cottura. Al tempo stesso, in apparente contraddizione, è anche una cucina complessa perché, e non poteva essere altrimenti, essa ha a suo modo registrato gli accadimenti della millenaria storia della città marciana, traducendone gli influssi eterogenei in un linguaggio tutto particolare di accostamenti e sapori.
La cucina tradizionale veneziana è sostanzialmente una cucina semplice, perché semplici sono stati e sono ancor oggi sia gli elementi costitutivi di base da essa utilizzati, sia i metodi di preparazione e cottura. Al tempo stesso, in apparente contraddizione, è anche una cucina complessa perché, e non poteva essere altrimenti, essa ha a suo modo registrato gli accadimenti della millenaria storia della città marciana, traducendone gli influssi eterogenei in un linguaggio tutto particolare di accostamenti e sapori.
La cucina veneziana si è sempre basata su pochi, genuini
prodotti, che sono poi quelli offerti dalle barene e dalle isole lagunari,
quali gli ortaggi, l'avifauna e, soprattutto, il pesce. Sottolineare
l'importanza dei prodotti ittici nell'alimentazione dei veneziani di ieri e di
oggi risulta quasi superfluo. Venezia è nata dall'acqua, e cresciuta
sull'acqua, la sua stessa forma urbis ricorda un pesce, di Cosa potevano mai nutrirsi i suoi
abitanti se non dei prodotti della pesca? Importanti fonti storiche, rare e
disomogenee nei primi secoli, via via più numerose e chiare nei secoli
successivi, confortano questa tesi.
Certo non è questa la sede per ricordarle tutte, ma la
citazione di quelle più espressive è sicuramente opportuna.
Tra queste va menzionata la famosa legge annonaria emanata
dal Doge Sebastiano Ziani (1173) per
fissare i prezzi massimi delle principali derrate alimentari. In essa, guarda
caso, L'articolo dedicato ai produttori ittici è dettagliatissimo, più di
qualche altro, con una precisa elencazione di tutte le specie marine e fluviali
e i relativi prezzi massimi di vendita.
Un'altra fonte importante, anche se in negativo, è il noto
ricettario di un anonimo cuoco veneziano redatto verso la fine del 1300 ( il
manoscritto è attualmente conservato presso la biblioteca Casanatense di Roma),
nel quale sono riportate 135 ricette per la preparazione di vari piatti.
Ebbene, da questo manuale privato e di cucina sono praticamente assenti tutte
le ricette relative al pesce e non perché quest'ultimo non rientrasse
nell'alimentazione, ma perché, evidentemente, tali ricette erano ritenute
troppo banali, troppo usuali, troppo scontate e conosciute per essere riportate
in un ricettario manoscritto, tanto più in tempi in cui lo scrivere e il leggere
era cosa destinata a uomini di cultura superiore.
Due altre fonti del 1500 ci confermano l'importanza
alimentare dei prodotti ittici: la prima è la cosidetta cronachetta di Marin Sanudo nella quale, descrivendo
le sue pescherie di Rialto di S. Marco, l'autore elenca oltre 60 specie
merceologiche tra crostacei, molluschi e pesci d'acqua dolce e marina.
La seconda è invece un tratto descrittivo delle più
importanti città italiane e straniere redatto dall'aquilano Giulio Cesare De Solis nel 1591, nel quale
l'autore, parlando di Venezia e delle sue pescherie, afferma che ogni giorno
sui banchi dei pescivendoli si trova tanta coppia di pesce "che non si
trova in Roma e Napoli messe assieme in un intero mese".
E il discorso sulle fonti storiche potrebbe continuare con
le molte descrizioni di viaggiatori stranieri dei secoli successivi, con le
molte citazioni di prodotti alimentari nelle popolarissime commedie Goldoniane,
con numerosissimi bandi, manifesti, listini dei prezzi emanati dalle autorità
venete e così via.
Certamente non così importanti, quantitativamente, furono i
prodotti dell' uccellaggione, praticata nelle barene spesso dagli stessi
pescatori, da principio con reti e frecce e poi, con l'introduzione delle armi
da fuoco, con i famosi s-cioponi, cioè non dei grossi fucili posti sulla prua
di agili e leggere imbarcazioni lagunari. Con l'introduzione delle armi da
fuoco l'attività venatoria diventò però molto costosa e il cacciatore si
trasformò così in occupazione dilettevole e di svago per i giovani rampolli
delle famiglie nobili che girovagando per le lagune, fermandosi a pranzo o a
cena nei "casoni " (tipiche case di paglia delle lagune ormai quasi
completamente scomparse) e che, rientrati in città, appendevano i loro trofei
alle porte d'ingresso dei propri palazzi, allo scopo di mostrare pubblicamente
la loro abilità di cacciatori.
In un habitat così particolare come quello delle barene e
velme lagunari, dove terra e acqua si confondono, è naturale che si siano
sviluppate inoltre delle forme di cacciagione, o meglio sarebbe dire pescagione
assolutamente peculiari quali quelle con lo smergo (un uccello di passo
implacabile per datore di pesci) o quelle con arco balestra e fucile.
Con il primo tipo, lo smergo, che era legato con una
lunghissima corda alla barca e che era parzialmente strozzato
da un anello metallico infilato attorno al collo, veniva lanciato dal
pescatore una volta avvistate le prede. Data la grande abilità dello smergo, il
bottino era sempre certo.
Non altrettanto sicuro per la grande attenzione, pazienza e
abilità che questa attività richiedeva, era l'esito del secondo tipo di
pescagione, in altre parole quello effettuato con arco, balestra o fucile.
I prodotti dell'attività venatoria erano talmente apprezzati
che anticamente ogni anno, a dicembre, il Doge, cioè la massima autorità
cittadina faceva dono di cinque uccelli marini ad ogni membro del maggior
consiglio. Questa regalia nel 1591 fu
trasformata, per carenza di prede, in una grossa moneta d'oro che, da allora, venne
detta osela.
Pesce e carne erano accompagnati da un abbondante varietà di
ortaggi coltivati nei molti orti delle isole lagunari e nelle terre litoranee
del Cavallino, Lido, Malamocco e Pellestrina. Tali prodotti, importati in
parte, nei primi secoli di sviluppo della città dogale, trovarono un'ottima
acclimatazione nelle zone circonvicine all'area urbana.
Il clima caldo e umido e l'aria salmastra lagunare
costituiscono i migliori concimi per i prodotti orticoli, che nelle isole
veneziane crescono abbondanti e di ottima qualità. Giustamente rinomati sono i
carciofi e in particolare le cosidette castraure, cioè i primi carciofini,
quelli apicali che, ad inizio primavera, sono tagliati allo scopo di favorire
la crescita di molti altri carciofi laterali. Le castraure sono ricchissime di
cinarina e sono per questo particolarmente gustose.
Famosi sono pure gli asparagi, i bruscandoli, cioè i getti
giovani del luppolo, le zucche in particolare la zucca gialla di Chioggia, che
localmente è detta, per la sua bontà e per la sua ricchezza proteica, il
vitello chioggiotto. Crescono, inoltre, con ottimi risultati il radicchio, i
piselli, le zucchine, i fagioli, le melanzane, i peperoni, i finocchi, i
cavoli.
Tutti prodotti che sono sempre preparati in modo molto
semplice, in tecia, cioè in tegame, con un po' d'olio d'oliva, uno spicchio
d'aglio qualche aroma.
Le isole lagunari offrivano un tempo, un po' meno oggi,
anche una certa dovizia di frutta. Non vi era certo la varietà e abbondanza che
oggi comunemente si vede sui banchi dei fruttivendoli del mercato di Rialto, ma
certamente non mancava, specialmente d'estate, meloni, angurie nespole, fichi,
pere e nei mesi successivi grappoli d'uva, melagrane, giuggiole, noci,
mandorle, arance, limoni ecc. E per prodotti semplici e genuini, ieri come oggi
tecniche culinarie altrettanto facili.
Il pesce a Venezia viene generalmente cucinato arrosto sulla
graticola (la grea) se di media grandezza, altrimenti, se di piccola taglia,
viene solitamente fritto in buon olio bollente.
Non molto diffusa è la lessatura che, come metodo di
cottura, è preferito solo per i pesci di grandi dimensioni o per quelli
particolarmente grassi.
Rara ed ormai sempre più in disuso è la cottura allo spiedo,
che ancora sopravvive in poche isole di pescatori e solo per prodotti quali
l'anguilla. Il pesce cotto alla griglia, o comunque arrostito è generalmente
servito freddo, mentre il fritto va senz'altro portato in tavola ben caldo e croccante.
Un tempo si affermava che il modo migliore per preparare il
pesce era quello di seguire la regola
delle tre "F", e cioè il pesce doveva essere "fresco", cucinato "fritto" e mangiato"freddo ".
Folaghe, beccaccini, crecole (piccole anatrelle) e
quant'altro proveniva dalla caccia palustre o di valle, dopo la frollatura
venivano e vengono ancor oggi cotte allo spiedo, ben farcite di salvia,
rosmarino ed altri odori.
Se gli uccelletti sono di piccole dimensioni (quaglie,
tordi, passeri ecc.) tra l'uno e l'altro si suole infilare della polpa di
maiale o di pancetta o di lardo tagliata a fettine. Gli spiedini sono sempre
accompagnati da tenera polenta e costituiscono un piatto classico della
gastronomia veneziana: la polenta e osei.
Oggigiorno, per comodità, è molto più diffusa la cottura in
tegame o al forno con molti odori. La pietanza è in questo caso, spesso
accompagnata da salse particolari, usualmente agrodolci, per le quali un tocco
inusuale è dato da qualche acciuga o sardina salata ben pestata e stemperata.
La cottura degli ortaggi, come già ricordato, è sempre
rigorosamente in tecìa (tegame) con un filo d'olio, uno spicchio d'aglio,
qualche aroma, spezie, ma non troppe.
Variante apprezzatissima per peperoni, melanzane, pomodori,
zucchine è la cottura alla griglia posta su di un bel ordinato letto di braci.
Affermare che la cucina tradizionale veneziana sia una
cucina semplice non vuol dire, comunque, che si tratti di una cucina povera.
Tutt'altro! Se è pur vero che a Venezia esiste tutta una cultura gastronomica
legata ad alcuni alimenti che a molti farebbero arricciare il naso per il
disgusto, e basti qui citare i sottoprodotti della macellazione( fegato, milza,
cuore, nervi, sangue, trippa ecc…) che, opportunamente trattati, si trovano
molto comunemente in piattoni già pronti nelle molte, tipiche osterie
veneziane, è altrettanto vero che Venezia ha saputo proporre anche piatti molto
ricchi ed elaborati ( la sopa coada, la zuppa d'ostriche, le ostriche dorate,
l'anatra ripiena, tutte le preparazioni legate alla confetteria ecc.), che però
non sono entrati, a parte qualche ovvia eccezione, nelle continuità alimentare
dei veneziani.
Sono ben noti a tutti i banchetti offerti dalla Serenissima-
veri e propri monumenti di ostentazione di ricchezza e di potenza politica- che
5 volte all'anno, nei giorni di S. Marco, dell'Ascensione, di S Vito, di S
Girolamo e di S Stefano, il Doge offriva ai titolari di organi dello stato, ai
nobili, agli ambasciatori, ai rappresentanti delle organizzazioni professionali
e delle confraternite. Ma si trattava di momenti pubblici, nell'ambito dei
quali il vedere valeva molto più del gustare.
Anche privatamente, le famiglie nobili, nei loro palazzi, in
varie occasioni tendevano a ostentare la propria opulenza ricchezza e
generosità, tant'è vero che il severo e vigile governo della Serenissima
continuamente emanava leggi suntuarie che vietavano gli sprechi e reprimevano
duramente ogni infrazione. Erano però sempre e comunque momenti occasionali,
eccezionali, attraverso il quale il padrone di casa intendeva rendere palese il
proprio status sociale.
Del resto da qualche registro di spese domestiche
pervenutoci possiamo ben vedere che anche le ricche famiglie veneziane non
eccedevano mai. Minestra di riso, pesce, frutta, con pane, un po' di malvasia
erano quanto necessario per una cena normale anche in una casa nobile.
I veneziani sono fatti così: molta ostentazione pubblica-
mai per vanagloria, s'intende, ma sempre per affermare il proprio ruolo
sociale- e una parca frugalità nel privato.
Il veneziano è una persona che bada al sodo, è realista, non
si perde in fronzoli e questa sua indole si ritrova anche in cucina, dove
applica la sua arte culinaria a prodotti semplici, ma nutritivi, senza tante
elaborazioni che, il più delle volte, altro non sono che mere, strumentali
distorsioni di sapori genuini del tutto fini a se stesse.
In apertura si diceva che la storia di Venezia è una storia
millenaria, che ha portato la città ducale per secoli ad essere una potenza di
livello mondiale. Ricchissima e potentissima, essa ha spinto i suoi figli su
rotte marine e terrestri verso i più remoti angoli del modo conosciuto per
commerci e scambi.
Nelle sue calli e corti, a sua volta, ospitava mercanti e
intere comunità di stranieri ( tedeschi, armeni, ebrei, albanesi, greci,
turchi, siriani ecc..) che, invogliati dai fiumi d'oro e d'argento che
continuamente scorrevano nelle sue mercerie e nei suoi fondaci, qui risiedevano
per acquistare e vendere merci d'ogni genere. Venezia per secoli è stata
l'autentica porta dell'interscambio tra oriente e occidente e tramite ogni
transazione ed ogni operazione economica essa si arricchiva sempre di più. E'
naturale che tutti questi scambi, questi apporti di culture diverse, questo
viaggiare in qualche modo si siano riflessi anche sugli usi alimentari dei
veneziani.
La cucina veneziana è stata inevitabilmente influenzata
dalla sua storia economica, politica e sociale e ha acquisito, di conseguenza,
alcune caratteristiche peculiari.
Esse sono riconoscibili nell'uso, direi quasi normale,
quotidiano, di molti prodotti d'origine orientale; nell'accentuato impiego di
spezie, in particolare zucchero, cannella, noce moscata, chiodi di garofano,
che non ha riscontro in altre cucine regionali italiane; nel consumo di molti
prodotti conservati, sia importati, che prodotti localmente; nelle particolare
predilezione per i dolci quali biscotti, favette, frittelle, frutta candita e
caramellata, confetti ecc.
Uno dei prodotti d'origine orientale che più caratterizza la
cucina veneziana è il riso. Nei secoli medievali era un alimento costosissimo e
veniva venduto addirittura nelle spezierie, come prodotto medicinale contandolo
chicco per chicco. Il suo uso alimentare era principalmente quello di addensare
le minestre, dopo esser stato diligentemente pestato in un mortaio e dopo
averne ottenuta una morbida e sottile farina.
Nel corso del 1500 diventa alimento fondamentale della dieta
dei veneziani, perché in questo secolo il governo ducale decide di incentivarne
la produzione nei territori recentemente entrati a far parte della
madrepatria dell'entroterra veneto, liberalizzandolo da dazi e gabelle varie.
Da allora il riso è entrato a pieno diritto a far parte della gastronomia
veneziana e, unito ai piselli è diventato il piatto principale della festa più
importante, quella di S. Marco.
Ancora, nella commedia di Carlo Goldoni ( chi la fa
l'aspetta ) si parla di un piatto noto come cento risi cola quagetta ( cento
chicchi di riso con la quaglietta ) che, oltre a ricordarci l'antica usanza di
contare i chicchi di riso, è per noi significativo anche perché rappresenta un
classico esempio di sposalizio tra due prodotti completamente diversi ( il riso
d'origine orientale e la quaglia autoctona delle zone venete) e sottolinea la
tipica attitudine tutta veneziana di essere stata ponte tra le culture
orientali ed occidentali, che si riflette anche nella gastronomia. Ed esempi di
tal fatta ce ne sono più di uno.
In nessun'altra parte d'italia il turista può gustare una
tale varietà di risotti e di minestre di riso e resterà piacevolmente sorpreso
delle infinite sfumature offerte da questi piatti così particolari.
Un'altra caratteristica tipicamente orientale entrata
prepotentemente nella cucina veneziana è l'uso delle spezie, utilizzo che,
addirittura abnorme nei secoli tardo medievali e nel rinascimento, è comunque
continuato, a dosi molto più ridotte, sino ai nostri giorni.
Secondo alcune stime nel 15° secolo nei magazzini veneziani
venivano annualmente scaricate dalle navi provenienti dai porti orientali
qualcosa come 5000 tonnellate di spezie, circa la metà delle quali di solo pepe
e zenzero, ma anche di zafferano, cannella, noce moscata, macis, chiodi e fusti
di garofano, galanga, grani del paradiso ( mele-getta ) cubebe, spigonardo,
malabatro, coriandolo ecc..
Gran parte di questi prodotti prendeva poi la via di altre
città italiane e straniere, ma una buona quantità rimaneva in città ad
alimentare una fiorente industria di trasformazione svolta dagli speziali <
da grosso> che, con ricette segrete- ma ne conosciamo più d'una- preparavano
i famosissimi " sacheti veneti e le speciarie veneziane" che poi
vendevano a carissimo prezzo.
L'impiego alimentare delle spezie era veramente eccessivo
ma, fortunatamente, col passare dei secoli il loro uso è andato diminuendo
progressivamente. Ciò è avvenuto sia per mutazione degli equilibri politici ed
economici internazionali, sia per l'introduzione di nuovi prodotti a loro
succeduti, sia per un inevitabile processo di modificazione del gusto.
Tuttavia a Venezia l'uso di molte droghe alimentari
(zucchero, cannella, chiodi di garofano, noce moscata, pepe ) è ancor oggi
piuttosto elevato e decisamente più consistente che in tante altre cucine
regionali italiane ed estere: a titolo esemplificativo, basti qui ricordare gli
gnocchi conditi alla veneziana con zucchero e cannella.
Come curiosità, relativamente, all'uso abnorme di spezie
nella cucina di sei secoli fa, piace citare una delle 135 ricette dell'anonimo
cuoco veneziano del ‘300 che si intitola “Ambroino bono et per perfecto et cetera” è previsto l'impegno, tra
zenzero e altre droghe, di circa 750 grammi di spezie varie. Un quantitativo
veramente incredibile per i gusti odierni.
Tra le contaminazioni della cucina veneziana di origine
orientale vanno annoverate anche le influenze della gastronomia ebraica, che a
Venezia era molto diffusa, data la presenza di una notevole comunità ivi
residente. Il riso con l'uvetta, i cucogli (gnocchi di pan grattato), i salami
d'oca le recie de Ammon (una specie di galano ripiegato su se stesso), le
bissete dei ebrei e così via sono il risultato dell'elaborazione dei canoni
gastronomici ebraici, frutto di rigidi divieti e obblighi religiosi. Anche
l'uso di abbinare il riso a vari tipi di verdure è di origine ebraica, così
come l'introduzione nell'alimentazione delle carni d'oca, anatra e,
successivamente, tacchino.
Da non dimenticare, parlando delle influenze gastronomiche
orientali, la particolare predilezione dei veneziani per i dolci. E' qui a
Venezia che i crociati per primi portarono attorno al 1000 lo zucchero, questo
prodotto dolcificante che via via ha sostituito il miele. E nelle isole del dominio da mar della
Serenissima (Creta, Cipro) che i Veneziani né ottenevano le qualità migliori e
più raffinate.
E' sempre nella città realtina che i più valenti scultori, e
tra questi ricordiamo anche Antonio Canova, preparavano autentiche meraviglie
ricavate da pani di zucchero scolpiti, che venivano trionfalmente portate in
tavole per la gioia degli occhi e del palato.
Anche la dominazione austriaca, pur se breve ( 19° secolo),
ha portato alcune novità nell'offerta gastronomica veneziana. Tra queste le più
significative sono la cotoletta Impanata, da alcuni detta alla viennese, da
altri alla milanese, che spesso le nostre madri portavano a tavola per il
pranzo domenicale, il chiffel, una specie di croissant a base di mandorle molto
comune nelle nostre pasticcerie e soprattutto lo spritz: un aperitivo che
oggigiorno tutti i veneziani prendono quotidianamente nei molti bar e osterie
della città.
Curiosa la storia
dello spritz: durante la dominazione asburgica i molti soldati austriaci di
stanza in città avevano preso, imitando i veneziani, la sana abitudine di
andare alle malvasie (rivendite di vini di qualità) o alle osterie per
bere un buon bicchiere di vino. Non conoscendo però la lingua ordinavano uno spritz, nome con cui è chiamato un vino
delle loro terre. Essendo però il vino delle nostre mescite molto più forte, se
lo facevano allungare con un po' d'acqua: ecco
nato lo spritz liscio.
Ma non è finita. I veneziani, che ben altre abitudini
avevano, non gradivano certo questa bevanda e cercarono, in tempi più recenti,
di renderla un po' più forte, con qualche aggiunta robusta (bitter, select
ecc.) che la rese più gradevole ai loro esigenti palati. E dato che con questo
aperitivo è piacevole mangiar qualcosa ecco aggiunta un'olivetta, una fettina
di limone o di arancia. Questi cocktail, se presi a stomaco vuoto, sono delle
autentiche bombe alcoliche.
Strettamente legato all' evoluzione della storia economica
veneziana è anche l'impiego di alcuni prodotti conservati e di alcune tecniche
di conservazione del cibo, che se non certo di esclusivo uso veneziano, nella
città ducale erano certamente molto affinate.
Nei mercati veneziani si trovavano con estrema facilità
prosciutti, salami, salsicce e ogni altro insaccato di animale terrestre o
volatile, oltre a prodotti conservati sotto sale, quali ad esempio i cuori di
bue.
Ma sui banchi dei luganegheri venivano venduti anche i
famosissimi salami de mar, quali morona, schinale, tonina, tarantello tutti
prodotti ricavati dalle carni dello storione e del tonno ottenuti secondo varie
tecniche conservative ( essiccazione, salamoia, salagione, affumicazione).
Dai mercati del nord Europa arrivavano i barilotti sotto
sale quelli che nel settecento erano detti " i 4 generi del ponente "
e cioè aringhe, cospettoni, salmoni e baccalà.
Dai mercati spagnoli arrivava il merluzzo essiccato, dalle
coste orientali dell'Adriatico ( Istria e Dalmazia ) cefali e dentici in
gelatina, dal lago di Garda i carpioni " accarpionati " , dal lago di
Como gli agoni, da Comacchio anguille e burateli salati.
A Venezia si
importava dall'oriente anche il celeberrimo caviale ( uova di storione,
pressate e affumicate ) che affiancava il " caviale dei veneziani " e
cioè la bottarga, preparata localmente con le uova di muggini, spigole ed altri
pesci.
I veneziani, inoltre, mantenevano fresche per più giorni le
loro ottime ostriche, conservandole in barili pieni d'acqua di mare, e così
sistemate le spedivano verso città anche molto lontane quali Milano, Vienna,
Budapest.
Il perché di un così massiccio impiego di prodotti
conservati è di facile spiegazione. I veneziani si muovevano molto, viaggiavano
molto e commerciavano in tutto, ovunque. I prodotti alimentari non erano che
una merce, alla stregua di qualsiasi altra merce, utile ad essere
commercializzata e quindi utile a produrre guadagno. Come per le spezie, era
naturale però che questi elementi si fermassero anche nelle cucine delle
famiglie realtine i cui membri, molto spesso, avevano avuto occasione di
conoscere questi prodotti nei loro lunghi viaggi, specialmente se questi viaggi
erano stati fatti per mare, allorchè veramente impellente è la necessità di
avere a disposizione provviste non deperibili.
I panettieri
dell'Arsenale inventarono il frisopo, cioè il pane biscottato, che la
ciurma si portava appresso e che si conservava all'infinito. La ricetta di
questo mitico biscotto è andata ormai perduta, ma alcuni decenni fa, eseguendo
degli scavi archeologici a Creta nei pressi di un antico forte veneziano,
vennero rinvenuti dei sacchi di frisopo risalente alla guerra contro il turco(
seconda metà del 1600) che, a distanza di circa 300 anni era ancora
commestibile.
Da questa necessità di conservare il cibo ebbe origine anche
la più caratteristica pietanza della cucina veneziana, il pesce in saor, che
così preparato può mantenersi saporitissimo e sano anche per una settimana e
senza tanti frigoriferi. Si noti, tra l'altro, che la ricetta del pesce in
saor, col titolo di Cisame de pesse quale tu voi, era già codificata
nell'anonimo ricettario del trecento, pur con alcune insignificanti varianti,
il che ci permette di assegnare a quello che è considerato il più caratteristico
piatto veneziano un'origine certamente antichissima e propria delle nostre
zone. Un primato, quest'ultimo, senza dubbio importante, ma che si perde nel
mare di novità che Venezia introdusse nella storia della gastronomia italiana
ed Europea.
Come non ricordare che in questa città il mondo occidentale
incontrò per la prima volta la forchetta, importata nell'11° secolo nel corredo
di nozze della principessa bizantina che andò in sposa al doge Domenico Selvo?
E come dimenticare che sempre a Venezia verso la fine del
cinquecento si parlò per la prima volta di caffè in una relazione di un
ambasciatore a Costantinopoli e che solo pochi decenni dopo le prime botteghe
da caffè si stabilirono in piazza S. Marco introducendo negli usi della gente
quella bevanda così importante per le sue proprietà stimolanti, socializzanti e
che ancora oggi conserva un significato del tutto particolare per tutti noi?
Parlando di gastronomia veneziana non si può tacere di
un'altra caratteristica peculiare dell'alimentazione degli abitanti della città
lagunare: l'uso estremamente diffuso, di mangiare all'osteria con gli amici, se
non proprio dei pasti completi, almeno degli stuzzichini, i cosiddetti cicheti, sorseggiando un buon bicchiere
di vino.
E' in questi luoghi
che, riprendendo l'antica tradizione delle malvasie, delle osterie, delle
furatole ( bettole annerite dai fumi dei focolari), dei fritolini si ha
l'apoteosi della gastronomia veneziana. Dai piattoni ordinatamente sistemati
sui banconi, i cicheti, i famosissimi cicheti, occhieggiano e invitano
l'avventore. E' un invito al quale è impossibile sottrarsi: fegato, milza,
nervetti, mezze uova con l'acciughetta, frittatine, carciofini, polipetti,
pesce fritto, "musetto" con polenta e non so quant'altro non chiedono
che di essere addentati. Basta entrare e lasciarsi andare.
Fonte: da VSG
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