Averroè, in arabo Ibn Rushd. Filosofo arabo (Córdoba 1126 - Marrakech 1198). Appartenente a una famiglia di giudici, seguì egli stesso questa carriera e fu giudice a Siviglia. Dal 1182 fu medico dei califfi Abu Ya’qub Yusuf ibn al-Mu'min e Abu Yusuf Ya’qub al Mansur. Nel 1195 cadde in disgrazia a causa delle accuse degli ortodossi; la protezione del califfo Abu Yusuf Ya’qub al Mansur gli salvò la vita, ma dovette andare in esilio in Marocco.
In un vecchio libro di Paul
Bairoch – Lo sviluppo bloccato – si poteva leggere che
intorno all’anno Mille le tre grandi civilizzazioni culturali del mondo di
allora, l’arabo-islamica, l’europeo-cristiana e la cino-confuciana erano grosso
modo allo stesso livello. Chiunque sia stato a Cordova, a Granada e
nell’Andalusia spagnola non ha difficoltà a riconoscere lo splendore e la
raffinatezza a cui erano giunti i musulmani di Spagna. Poi, sempre in quel
torno di tempo tra il IX e l’XI secolo successe qualcosa, e da allora le tre
civilizzazioni culturali hanno cominciato a marciare secondo propri indirizzi e
velocità.
È proprio in quell’epoca che Robert R. Reilly in un suo recente volume The closing of
muslim mind – How the intellectual suicide created the modern islamist crisis
(ISI Book, 2010) individua le cause mentali-culturali che hanno condotto
una splendida civilizzazione culturale verso uno dei più grandi drammi
intellettuali nella storia umana.
Non occorre aver letto un solo rigo di Carl Schmitt per arguire che il
pensiero politico ha origini teologiche e neanche uno di Max Weber per intuire che dalle grandi opzioni religiose e dai
voltaggi mentali-culturali che esse determinano derivano esiti economici
inaspettati (qui assumo come feconda la tesi di Weber, ovviamente,
anche se c’è chi non la ritiene probante a spiegare i take off o i
ristagni dell’economia).
Suicidio intellettuale.
Lo storico delle idee sa che è proprio da come sistemi le
cose in cielo che organizzi quelle in terra, e che un dibattito teologico può
risultare ferale per un’intera civiltà. È proprio a una serrata disputa
teologica avvenuta tra il IX e i X secolo dell’era cristiana all’interno
dell’Islam che Reilly fa risalire il declino intellettuale del
mondo musulmano; è a partire dal rifiuto del pensiero greco (de-ellenizzazione)
di una delle fazioni teologiche in lotta risultata alla fine vincente e
all’abbandono progressivo della ragione – il dono dei greci- nella
maggior parte del mondo sunnita, che si innescherà il processo di involuzione a
cui oggi assistiamo.
Da allora in poi sarà
la teologia non la filosofia a decidere tutto: le cose del cielo e quelle
della terra. Reilly cita la frase del più grande studioso musulmano del XX
secolo, Fazlur Rahman: “Un popolo che priva se stesso della
filosofia necessariamente si espone a un depauperamento di idee fresche – nei
fatti commette suicidio intellettuale”.
La chiusura della mente musulmana.
Questo dibattito ebbe luogo nei grandi centri della civiltà
musulmana – Damasco, Bagdad e Cordova -, e oppose due scuole religiose : i
Mu’taziliti
e gli Asciariti (Ash’arite
Islam).
La corrente
Mu’tazilita che nel nostro linguaggio potremmo definire “liberale” e
“razionalista”, influenzata dal pensiero greco di cui vuole conservare
l’eredità filosofica, intende coniugare fede e ragione. Gli esponenti più
noti (per noi) sono Al Farhabi,
Avicenna e Averroè, mentre dal lato Ash’arita
“tradizionalista” e mistico si situeranno Ibn
Hanbal (che ancora oggi è una delle figure di riferimento in Arabia
Saudita) e soprattutto Al Ghazali
(“pivotal figure” e “la seconda persona più importante nell’Islam subito
dopo Maometto”, lo definisce Reilly) che sarà il grande trionfatore,
colui che starà rispetto al Profeta come Paolo di Tarso a Gesù Cristo.
Il centro del dibattito, galvanizzato dal primo
incontro con la filosofia greca, sarà quello tipico di ogni
religione monoteista: lo status della ragione in relazione alla
rivelazione di Dio e alla sua onnipotenza. In che rapporto sta la ragione
nell’incontro dell’uomo con Dio? C’è rapporto tra la ragione e la
rivelazione divina? E la cosa più importante: può la ragione conoscere la
verità? Deve risultare chiaro, e ciò vale anche per molte questioni che
riguardano il cristianesimo, che il Corano, come il Vangelo, non danno delle
teologie belle e pronte (né Maometto né Gesù erano teologi) ma è il lavorio
incessante proprio della teologia a sviluppare nozioni di Dio allo stesso
tempo implicite ed esplicite nei Testi Sacri.
La chiusura avvenne
in due modi: uno di negare alla ragione di conoscere alcunché, l’altro di
licenziare la realtà come non conoscibile. Tipicamente: la ragione non può
conoscere, o, non c’è nulla da conoscere. Entrambi gli approcci saranno sufficienti a
ritenere irrilevante la realtà, ed entrambi filtreranno attraverso la corrente
vincitrice, quella Asharita, nel mondo Sunnita. Radicale volontarismo (Dio è
pura volontà) e occasionalismo (non c’è rapporto di causa ed effetto
nell’ordine naturale ) saranno perciò i binari entro cui viene fatta la ricognizione
della realtà da questo Islam trionfante. Ciò determinerà la negazione del
principio di causalità. Nel mondo sunnita musulmano “la realtà diventa
inaccessibile” perché le vedute di certi teologi tra nono e dodicesimo secolo
sono prevalse, è in estrema sintesi il tema di questo lavoro.
La chiusura della mente musulmana ha creato quella crisi di cui il moderno terrorismo è solo una
manifestazione.
Essa è molto più vasta e profonda e fa sì che il mondo Arabo
stia in fondo a tutte le classifiche dello sviluppo umano; che lo spirito
scientifico vi sia ormai moribondo; che nella sola Spagna siano stati tradotti
in un solo anno ciò che nell’intero mondo arabo è stato tradotto in un secolo;
che alcune persone in Arabia saudita ritengano che nessun uomo è sbarcato
sulla luna (a dire il vero anche qualche grillino da noi); che l’uragano
Katrina sia ritenuto un chiaro castigo divino.
A fianco di questa lettura ho rispolverato il vecchio
libro di Ernest Renan Averroès et l’Averroïsme (4 ed. 1882)
dove si possono leggere alcuni brani in cui la visione di Reilly trova
singolare conferma retrospettiva.
Leggo in Renan: “lo
sviluppo intellettuale rappresentato dai dotti arabi fu fino alla fine del XII
secolo superiore a quello del mondo cristiano. Ma non riuscì a passare nelle
istituzioni; la teologia oppose a questo riguardo una barriera insuperabile. Il
filosofo musulmano restò sempre un dilettante o un funzionario di corte. Il
giorno in cui il fanatismo fece paura ai sovrani, la filosofia scomparve, i
manoscritti furono distrutti per ordine regio, e solo i cristiani si
ricordarono che l’islamismo aveva avuto dei dotti e dei pensatori. La
filosofia araba offre l’esempio a un di presso unico di una altissima cultura
soppressa quasi istantaneamente senza lasciare traccia, e quasi dimenticata dal
popolo che l’ha creata. L’islamismo svelò in questa circostanza ciò che è
estremamente consentaneo al suo genio. Anche il cristianesimo è stato poco
favorevole allo sviluppo della scienza positiva; è riuscito ad arrestarlo in
Spagna e a ostacolarlo in Italia; ma non l’ha soffocato, e anche gli elementi
più elevati della famiglia cristiana hanno finito per riconciliarsi con detta
scienza. Incapace di trasformarsi e di ammettere alcun elemento di vita civile
e profana, l’islamismo strappò dal suo seno ogni germe di cultura razionale.
(…) Il mondo musulmano entrò da allora in poi in questo periodo di ignorante
brutalità se non per ricadere in una
triste agonia dove si dibatte sotto i nostri occhi”.
Aggiungo infine che la tesi forte e ardita di
Reilly– far risalire un dramma mondiale ad alcuni eventi teologici accaduti
otto nove secoli fa – diventa più difendibile se la si pone in un’ottica
di “lunga durata” come ci ha insegnato Fernand
Braudel.
Riferito alla nostra realtà questo approccio ci ricorda la
tesi di David Abulafia che fa
risalire la frattura tra Nord e Sud d’Italia
non al Risorgimento ma alla fondazione del Regno Normanno al
Sud e dell’Italia dei Comuni al Nord, allo stesso modo in cui Robert Putnam fa risalire il maggior
rendimento delle istituzioni al Nord alla maggiore “tradizione civica”
risalente al Medioevo e ai Comuni.
Voglio dire che se ti poni in una logica di studio delle
radici profonde, a furia di scavare scopri che esse sono lunghe in maniera
insospettabile, e che c’è un momento in cui si biforcano, prendono una
direzione piuttosto che un’altra: compito di chi studia è individuare questo
“momento originario” in cui la realtà storica prende una piega piuttosto che
un’altra.
Fonte: srs di Alfio Squillaci, da Gli Stati Generali
del 20 gennaio 2015
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